Trattore portuale PM49 e mancato ripristino dell’impianto di ventilazione e riscaldamento della cabina: appannamento del vetro parabrezza e perdita di controllo del mezzo (Cass. pen. n. 1433/2012) (inviata da R. Staiano)

Redazione 17/01/12
Scarica PDF Stampa

Fatto
D. G. veniva tratto a giudizio del Tribunale di Genova, per rispondere del reato di lesioni personali colpose secondo la seguente contestazione: perché, nella sua veste di responsabile in materia di sicurezza e salute dei lavoratori e dei luoghi di lavoro della V.T.E. s.p.a. – come da delega del Consiglio di Amministrazione del 21 aprile 2004 (revocata poi il 5 maggio 2005) – nonché di direttore della V.T.E. s.p.a. fino al 1° aprile 2005, per colpa aveva cagionato a *****, dipendente della società, lesioni personali gravi; colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, nonché violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, avendo omesso di adottare le misure necessarie affinché il trattore portuale PM49 fosse mantenuto in condizioni adeguate al lavoro da svolgere ed idoneo a garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori che si avvalevano dello stesso, e, più precisamente, nel non aver ripristinato l’impianto di ventilazione e riscaldamento della cabina, nell’aver consentito o comunque non impedito che il vetro parabrezza del trattore venisse sostituito con un cristallo non originale, sottodimensionato rispetto al sistema di guarnizioni predisposto e privo dei prescritti requisiti di resistenza allo sfondamento, e, inoltre, nel non aver disposto che gli operatori addetti alla conduzione di detti mezzi facessero uso delle cinture di sicurezza in dotazione al mezzo secondo le indicazioni del fabbricante; di tal che, in data 19 aprile 2005, *****, mentre, in presenza di pioggia, era intento al lavoro alla guida del trattore sopra indicato – privo dell’interruttore per l’azionamento dell’aria calda e dotato di un impianto di ventilazione non funzionante – era andato ad urtare contro un basamento di cemento, avendo perduto il controllo del mezzo a causa dell’appannamento del vetro parabrezza determinato dalla penetrazione dell’acqua piovana all’interno della cabina di guida, resa possibile dalla non aderenza del parabrezza alla struttura portante: così riportando le gravi lesioni dettagliatamente descritte nel capo di imputazione.
All’esito del dibattimento, l’imputato veniva condannato alla pena di euro 300,00 di multa, con il riconoscimento delle attenuanti generiche valutate equivalenti all’aggravante.
A seguito di gravame ritualmente proposto, la Corte d’Appello di Genova confermava l’impugnata sentenza, richiamando le argomentazioni del primo giudice e disattendendo le deduzioni difensive, incentrate, in particolare, sulla prospettata posizione dell’imputato al vertice di una vasta struttura operativa con oltre 700 dipendenti, situazione in virtù della quale il D. non avrebbe dovuto rispondere della cattiva manutenzione di un mezzo o della cattiva esecuzione della sostituzione di un parabrezza ad uno degli innumerevoli mezzi meccanici in dotazione al Terminal. In particolare, la Corte distrettuale sottolineava che: a) a nulla rilevavano le dimensioni della società ******, posto che il D. era proprio colui cui faceva capo la complessa organizzazione della sicurezza in tutto l’ambito del Terminal, con conseguente assunzione della posizione di garanzia che non poteva dirsi venuta meno per la pluralità dei compiti o per la impossibilità di verificare personalmente lo stato
delle macchine utilizzate; b) dalle delibere del Consiglio di Amministrazione della ******à non risultava l’esistenza di delega per la sicurezza ad altra persona da parte
dell’imputato; c) gli addebiti mossi all’imputato trovavano la loro fonte temporale nel periodo in cui egli ancora aveva la qualifica di responsabile per la sicurezza, e
l’omissione nella prescrizione dell’uso delle cinture di sicurezza e la cattiva riparazione del mezzo erano riferibili al periodo temporale precedente alle sue dimissioni dal detto incarico.
Ricorre per Cassazione il D., tramite il difensore, deducendo vizio motivazionale in ordine alla valutazione delle risultanze processuale, con censure, caratterizzate peraltro da formulazioni generiche ed assertive e citazioni della giurisprudenza, che possono cosi sintetizzarsi: a) la Corte distrettuale avrebbe erroneamente sottovalutato le vaste dimensioni della società e non avrebbe considerato che nell’ambito dell’organizzazione della V.T.E. esistevano figure professionali di rilievo alle quali era demandato il compito di provvedere a quanto addebitato al D. a titolo di omissione; b) la Corte territoriale avrebbe sostanzialmente modificato il capo di imputazione; c) i giudici del merito avrebbero del tutto omesso di considerare la condotta dell’infortunato il quale era uscito dalla normale viabilità del terminal e comunque, una volta resosi conto dell’appannamento del parabrezza, avrebbe potuto fermarsi, segnalare il guasto ed evitare l’incidente.

Diritto

Il ricorso deve essere rigettato per le ragioni di seguito indicate.
Mette conto sottolineare, preliminarmente, che il D. con il ricorso ha sostanzialmente riproposto le tesi difensive già sostenute in sede di merito e disattese dal Tribunale prima e dalla Corte d’appello poi. Al riguardo giova ricordare che nella giurisprudenza di questa Corte è stato enunciato, e più volte ribadito, il condivisibile principio di diritto secondo cui “è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591 comma 1 lett. e), all’inammissibilità” (in termini, Sez. 4,n. 5191 del 29/03/2000 Ud. -dep. 03/05/2000 – Rv. 216473; CONF: Sez. 5, n.11933 del 27/01/2005, dep. 25/03/2005, Rv. 231708).

E va altresì evidenziato che il primo giudice aveva affrontato e risolto le questioni sollevate dal D. seguendo un percorso motivazionale caratterizzato da completezza argomentativa e dalla puntualità dei riferimenti agli elementi probatori acquisiti e rilevanti ai fini dell’esame della posizione dell’imputato; di tal che, trattandosi di conferma della sentenza di primo grado, i giudici di seconda istanza legittimamente hanno richiamato la motivazione addotta dal Tribunale a fondamento del convincimento espresso, senza peraltro limitarsi ad un semplice richiamo meramente ricettizio a detta motivazione, non avendo mancato di fornire, sia pure sinteticamente, autonome valutazioni a fronte delle deduzioni dell’appellante, con particolare riferimento alla posizione di garanzia del D. anche in relazione al momento in cui ebbe a verificarsi l’incidente “de quo”: è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione (“ex plurimis”, Sez. 3, n. 4700 del 14/02/1994 Ud. – dep. 23/04/1994 – Rv. 197497).
A fronte delle integrative pronunce di primo e secondo grado – per quel che riguarda la posizione di garanzia – il ricorrente ha formulato argomentazioni generiche prive di qualsiasi specifica indicazione utile all’individuazione dei soggetti che, a suo dire, avrebbero avuto l’obbligo di provvedere alla manutenzione dei mezzi meccanici utilizzati dai dipendenti in relazione all’epoca in cui avvenne l’infortunio oggetto del procedimento.
Per quel che riguarda le ulteriori deduzioni del ricorrente – circa l’asserita violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza e la prospettata condotta abnorme del lavoratore in occasione dell’infortunio – valgono le considerazioni che seguono.
“In primis” mette conto sottolineare che si tratta di questioni non sottoposte al vaglio del giudice di seconda istanza, posto che con i motivi di appello furono svolte solo doglianze in tema di responsabilità con riferimento alle dimensioni dell’azienda ed in ordine alle valutazioni delle testimonianze: di tal che, dette censure non potrebbero essere prese in esame in questa sede perché sollevate per la prima volta con il ricorso. Peraltro le stesse sono comunque prive di fondamento per le ragioni di seguito precisate. Quanto alla censura relativa all’asserita violazione del principio di correlazione (art. 521, primo comma, c.p.p., che enuncia il principio della correlazione tra accusa e sentenza, va inteso non in senso “meccanicistico formale”, ma in funzione della finalità cui è ispirato, quella cioè della tutela del diritto di difesa; ne consegue che la verifica dell’osservanza di detto principio non può esaurirsi in un mero confronto letterale tra imputazione e sentenza, occorrendo che ogni indagine in proposito venga condotta attraverso l’accertamento della possibilità per l’imputato di difendersi in relazione a tutte le circostanze del fatto” (in termini, “ex plurimis”, Sez. 6, n. 618/96 – ud 8/11/95 – RV. 20337; cfr. anche Sez. Un. n. 16 del 22 ottobre 1996, D., secondo cui la mancata correlazione tra contestazione e fatto ritenuto in sentenza si verifica solo quando si manifesti radicale difformità tra i due dati, in modo che possa derivarne assoluta incertezza sull’oggetto della imputazione, con conseguente pregiudizio dei diritti della difesa). “Ad abundantiam”, va poi posto in rilievo che, nel caso di specie, il reato era stato addebitato all’imputato con una formulazione in cui risultavano contestati anche profili di colpa generica (cfr., in proposito: Sez. 4, n. 4968/96, imp. *******, RV. 205266; Sez. 4, n. 7704/97, ud. 27/6/1997, RV. 208556).
Né, come sottolineato dalla Corte distrettuale, sono ravvisabili, nella condotta dell’infortunato, connotazioni di abnormità, trattandosi comunque di comportamento strettamente collegato alle mansioni espletate ed all’attività lavorativa in concreto svolta; giova poi precisare che, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, le norme sulla prevenzione degli infortuni hanno la funzione primaria di evitare che si verifichino eventi lesivi della incolumità fisica, intrinsecamente connaturati all’esercizio di talune attività lavorative, “anche nelle ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuale disaccortezza, imprudenza e disattenzione degli operai subordinati” (in termini, Sez.4,14 dicembre 1984, n. 11043).
Al riguardo va altresì ricordare il condivisibile principio enunciato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme (Sez. 4, Sentenza n. 40164 del 03/06/2004 Ud. – dep. 13/10/2004 – Rv. 229564, imp. ***********); orbene, nel caso di specie non può certo definirsi abnorme il comportamento del lavoratore rimasto vittima dell’infortunio, giacché deve definirsi imprudente la condotta del lavoratore che sia stata posta in essere da quest’ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli – e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro – oppure rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistita in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (in tal senso, “ex plurimis”, Sez. 4, Sentenza n. 25532 del 23/05/2007 Ud. – dep. 04/07/2007 – Rv. 236991 ). Se è vero, poi, che destinatari delle norme di prevenzione, contro gli infortuni sul lavoro, sono, non solo i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti, ma anche gli stessi operai, giova ricordare, tuttavia, che l’inosservanza di dette norme da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti ha valore assorbente rispetto al comportamento dell’operaio, la cui condotta può assumere rilevanza ai fini penalistici solo dopo che da parte dei soggetti obbligati siano adempiute le prescrizioni di loro competenza (cfr. Sez. 4, n. 10121 del 23/01/2007 Ud. – dep. 09/03/2007 – Rv. 236109 imp.: Masi e altro).
Al rigetto del ricorso segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione