Reati ambientali (art. 256 d.lgs. n. 152/2006): l’appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, che lo vincola al compimento di un’opera o alla prestazione di un servizio è, di regola, il produttore del rifiuto (Corte di Cassazione, sez. III Penale, 26/3/2015, n. 12971)

Redazione 26/03/15
Scarica PDF Stampa

Il Caso: S.C. è imputato per il reato di cui all’art. 256, comma 2 d.lgs. 1526, concernente l’abbandono di rifiuti, costituiti da materiali di risulta provenienti da demolizione, misti a terriccio, su un’area di sua proprietà ove erano eseguiti, nel suo interesse, lavori di riempimento di un piazzale e spianamento di materiali in forza di contratto stipulato con il coimputato P.G., titolare dell’omonima ditta individuale.

La Corte stabilisce che il committente non ha alcun potere giuridico di impedire l’evento del reato di abusiva gestione dei rifiuti commesso dall’appaltatore, poiché ha diritto di controllare lo svolgimento dei lavori nel suo interesse ai sensi dell’articolo 1662 cod. civ., (ad esempio verificando la conformità dei materiali utilizzati a quelli pattuiti o l’esecuzione delle opere a regola d’arte), ma non gli è consentito interferire sullo svolgimento dei lavori a tutela degli interessi ambientali, salvo nel caso in cui questi coincidano col suo interesse contrattuale. Ha la facoltà di controllare la qualità dei materiali utilizzati per il riempimento del terreno, ma non il potere (e non certamente l’obbligo) di chiedere all’appaltatore se è abilitato allo smaltimento dei rifiuti e, tanto meno, di impedire all’appaltatore non autorizzato di smaltire i rifiuti che lui utilizza per lo svolgimento dell’appalto.
Alla luve di tali considerazioni l’appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, che lo vincola al compimento di un opera o alla prestazione di un servizio, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio è, di regola, il produttore del rifiuto; su di lui gravano, quindi, i relativi oneri, pur potendosi verificare casi in cui, per la particolarità dell’obbligazione assunta o per la condotta del committente, concretatasi in ingerenza o controllo diretto sull’attività dell’appaltatore, detti oneri si estendono anche a tale ultimo soggetto.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, 26/3/2015, n. 12971

(Omissis)

Ritenuto in fatto

1. II Tribunale di Foggia, con sentenza del 17/10/2013, emessa a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, ha affermato la responsabilità penale di S.C. per il reato di cui all’art. 256, comma 2 d.lgs. 1526, concernente l’abbandono di rifiuti, costituiti da materiali di risulta provenienti da demolizione, misti a terriccio. su un’area di sua proprietà ove erano eseguiti, nel suo interesse, lavori di riempimento di un piazzale e spianamento di materiali in forza di contratto stipulato con il coimputato P.G., titolare dell’omonima ditta individuale (in Foggia, fino al 15/10/2010).
Avverso tale pronuncia la predetta propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia. 2. Con un unico motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, lamentando, in primo luogo, la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., in quanto, a fronte di una contestazione che ipotizzava il concorso nel reato richiamando l’art. 110 cod. pen., veniva in sentenza ritenuta la responsabilità sulla base di culpa in vigilando, quindi per una condotta diversa da quella indicata nel capo di imputazione.
Aggiunge che, in ogni caso, l’istruzione dibattimentale non avrebbe dimostrato che l’abbandono di rifiuti fosse stato concordato con l’appaltatore, con il quale si era invece contrattualmente convenuto il riempimento esclusivamente con «terre e rocce da scavo» e che, nei suoi confronti, non era ravvisabile alcun obbligo di vigilanza o di impedimento dell’evento.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Considerato in diritto

l. Il ricorso è fondato nei termini di seguito specificati.
Va in primo luogo rilevato che la dedotta violazione di legge non risulta verificatasi nella fattispecie in esame.
L’art. 521 cod. proc. pen., nello stabilire che il giudice possa dare al fatto una diversa qualificazione giuridica, richiede che il fatto storico addebitato rimanga identico per ciò che concerne la condotta, l’evento e l’elemento soggettivo.
In applicazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, la diversità del fatto accertato rispetto a quello contestato si ha, dunque, quando il secondo si pone, rispetto al primo, in un rapporto di completa eterogeneità.
La giurisprudenza di questa Corte ha peraltro rilevato, in più occasioni, che la violazione di detto principio sia ravvisabile soltanto quando la modifica dell’imputazione pregiudichi le possibilità di difesa dell’imputato (cfr. ex pl. Sez. 2, n. 34969 del 10/5/2013, ******** e altri, Rv. 257782; Sez. 6, n. 6346 del 9/11/2012 (dep. 2013), ****** e altri, Rv. 254888; Sez. 3, n. 41478 del 4/10/2012, ********, Rv. 253871; Sez. 3, n. 36817 del 14/6/2011, T. D. M., Rv. 251081; Sez. U, n. 36551 del 15/7/2010, *******, Rv. 248051).
Nel considerare la questione in esame, inoltre, si è anche tenuto conto dei principi stabiliti dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Corte Europea, 11 dicembre 2007, ******** c. Italia; Corte Europea, 25 marzo 1999, ********** e ***** c. Francia), che questa Corte ha avuto modo di richiamare (Sez. 6, n. 20500 del 19/2/2010, *****, Rv. 247371) ricordando che “la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha affermato che la portata dell’art. 6, par. 3, lett. a) e b) della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo impone un concetto ampio del principio del contraddittorio, che non si limita solo alla formazione della prova, ma che proietta i suoi effetti anche alla valutazione giuridica del fatto. In sostanza, l’imputato deve essere messo nelle condizioni di discutere in contraddittorio ogni profilo dell’accusa che gli viene mossa, compresa la qualificazione giuridica dei fatti addebitati. il diritto ad essere informato dell’accusa e, quindi, dei fatti materiali posti a suo carico e sui quali si fonda l’accusa stessa, implica il diritto dell’imputato a preparare la sua difesa, sicché se il giudice ha la possibilità di riqualificare i fatti, deve essere assicurata all’imputato la possibilità di esercitare il proprio diritto alla difesa in maniera concreta ed effettiva: ciò presuppone che sia informato, in tempo utile, sia dell’accusa, sia della qualificazione giuridica dei fatti a carico”.
Sempre in applicazione di tali principi, si è ulteriormente chiarito che la diversa qualificazione giuridica del fatto non determina la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. quando appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile e l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto, nella fase di merito, la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell’imputazione, anche attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione (Sez. 5, n. 7984 del 24/9/2012 (dep. 2013), jovanovic e altro, Rv. 254649. V anche Sez. 1, n. 9091 del 18/2/2010, Di **** e altri, Rv. 246494).
Inoltre, nella decisione in precedenza richiamata (SS.UU, n. 366512010, cit.), le Sezioni Unite hanno anche precisato che l’indagine finalizzata alla verifica della violazione del principio di correlazione non deve esaurirsi nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza, in quanto, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, non vi è violazione quando l’imputato, attraverso lo sviluppo del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione.
Deve conseguentemente tenersi conto non soltanto del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, in modo tale da porlo in condizione di esercitare le sue difese sull’intero materiale probatorio valorizzato ai fini della decisione (Sez. VI n. 5890, 6 febbraio 2013; Sez. III n. 15655, 16 aprile 2008 ed altre prec. conf.).
2. Tenuto conto dei condivisibili principi dianzi richiamati, occorre rilevare che, nella fattispecie in esame, la condotta attribuita all’imputata risulta compiutamente descritta nell’imputazione, con la puntuale specificazione delle singole qualità personali dei soggetti coinvolti e della natura del rapporto contrattuale che li legava, tanto che del contratto venivano indicati gli estremi e l’oggetto.
Il Tribunale, fermo restando l’elemento descrittivo del fatto riportato nell’imputazione, ne ha diversamente qualificato il profilo soggettivo, evidentemente sulla base di dati probatori formatisi nel corso dell’istruzione dibattimentale, svoltasi, ovviamente, nel contraddittorio delle parti e rispetto ai quali la difesa ha avuto la possibilità di interloquire ed articolare le proprie richieste senza che possa, dunque, ritenersi pregiudicata la possibilità di difesa dell’imputata.
3. Nonostante ciò, deve tuttavia rilevarsi come le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale non appaiono adeguatamente giustificate, risultando la motivazione, sul punto,decisamente carente. Va ricordato, con riferimento al reato di abbandono di rifiuti, che non sempre la posizione del proprietario o possessore dell’area può configurare un’ipotesi di concorso nel reato, tanto è vero che la giurisprudenza di questa Corte ha evidenziato, in modo pienamente condivisibile, che la semplice inerzia, conseguente all’abbandono da parte di terzi o la consapevolezza, da parte del proprietario del fondo, di tale condotta da altri posta in essere, non siano idonee a configurare il reato e ciò sul presupposto che una condotta omissiva può dare luogo a ipotesi di responsabilità solo nel caso in cui ricorrano gli estremi del comma secondo dell’art. 40 cod. pen., ovvero sussista l’obbligo giuridico di impedire l’evento (v., ad es., Sez. 3, n. 40528 del 10/6/2014, *******, Rv. 260754; Sez. 3, n. 49327 del 12/11/2013, Merlet, Rv. 257294; Sez. 4, n. 36406 del 26/6/2013, ****** e altro, Rv. 255957; Sez. 3, n. 2477 del 09/10/2007 (dep. 2008), Marciano’ e altri, Rv. 238541; Sez. 3, n. 32158 del 1/7/2002, ****** A, Rv. 222420; Sez. 3, n. 2206 del 12/10/2005 (dep. 2006), *****, Rv. 233007).
Questa Corte ha, inoltre, più volte analizzato il ruolo dell’appaltatore con riferimento alle attività di gestione dei rifiuti, nella maggior parte dei casi al fine di distinguerne gli obblighi e le responsabilità rispetto alle diverse figure del committente e del subappaltatore, osservando che nessuna fonte legale, né scaturente da norma extrapenale, quale la disciplina generale sui rifiuti, né da contratto, individua tali soggetti come gravati da un obbligo di garanzia in relazione all’interesse tutelato ed il correlato potere giuridico di impedire che l’appaltatore commetta il reato di abusiva gestione dei rifiuti, con la conseguenza che, tranne nel caso di un diretto concorso nella commissione del reato, non può ravvisarsi alcuna responsabilità ai sensi dell’articolo 40, comma 2 cod. pen. per mancato intervento al fine di impedire violazioni della normativa in materia di rifiuti da parte della ditta appaltatrice (Sez. 3, n. 25041 del 25/5/2011, *********, Rv. 250676; Sez. 3, n. 40618 del 22/9/2004, *****, Rv. 230181; Sez. 3, n. 15165 del 28/1/2003, ********, Rv. 224706. V. anche Sez. 3, n. 35692 del 5/4/2011, ******, Rv. 251224).
Tali condivisibili considerazioni si fondano sulla natura stessa del contratto di appalto, che non consente, di norma, alcuna ingerenza da parte dell’appaltante nell’attività dell’appaltatore. Si è così osservato come il committente non abbia alcun potere giuridico di impedire l’evento del reato di abusiva gestione dei rifiuti commesso dall’appaltatore, poiché ha diritto di controllare lo svolgimento dei lavori nel suo interesse ai sensi dell’articolo 1662 cod. civ., ad esempio verificando la conformità dei materiali utilizzati a quelli pattuiti o l’esecuzione delle opere a regola d’arte, ma non gli è consentito di interferire sullo svolgimento dei lavori a tutela degli interessi ambientali, salvo nel caso in cui questi coincidano col suo interesse contrattuale. Ha la facoltà di controllare la qualità dei materiali utilizzati per il riempimento del terreno, ma non il potere (e non certamente l’obbligo) di chiedere all’appaltatore se è abilitato allo smaltimento dei rifiuti e, tanto meno, di impedire all’appaltatore non autorizzato di smaltire i rifiuti che lui utilizza per lo svolgimento dell’appalto. Conclusioni analoghe sono state tratte nel caso in cui il committente dei lavori sia anche proprietario dell’area su cui i lavori sono eseguiti, poiché come tale egli non ha alcun potere giuridico specifico verso l’appaltatore, posto che i rapporti reciproci sono regolati soltanto dal contratto di appalto (così, Sez. 3, n. 40618 del 22/9/2004, *****, cit.).
4. Alla luce di tali condivisibili principi può, dunque, osservarsi che l’appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, che lo vincola al compimento di un opera o alla prestazione di un servizio, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio è, di regola, il produttore del rifiuto; su di lui gravano, quindi, i relativi oneri, pur potendosi verificare casi in cui, per la particolarità dell’obbligazione assunta o per la condotta del committente, concretatasi in ingerenza o controllo diretto sull’attività dell’appaltatore, detti oneri si estendono anche a tale ultimo soggetto.
La verifica delle singole posizioni costituisce, peraltro, un accertamento in fatto demandato al giudice del merito.
5. Nella fattispecie, tuttavia, tale necessaria verifica non risulta essere stata effettuata, poiché il giudice del merito, pur avendo esplicitamente escluso la sussistenza di un deliberato accordo, tra committente ed appaltante, finalizzato alla collocazione dei rifiuti nell’area, si è limitato ad indicare una generica negligenza nel controllo dei lavori da parte dell’imputata, peraltro ipotizzando che l’appaltatore ne abbia approfittato per smaltire dolosamente i rifiuti, senza approfondire adeguatamente i termini e le condizioni del rapporto intercorrente tra i due imputati né il suo concreto sviluppo.
La necessità di un nuovo esame impone, pertanto, l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Foggia.

(Omissis)

Redazione