Porto armi e libere professioni: TAR Lazio, Sez. I bis, n. 5652/2016

Redazione 12/05/16
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PORTO ARMI – requisiti psicofisici – accertamento – riservato strutture pubbliche-

LIBERE PROFESSIONI – requisiti psicofisici per psicofisici – accertamento – da parte di medici in regime privato- esclusione

PERENZIONE – EFFICACIA ORDINANZA SOSPENSIVA- cessazione effetti

REGOLAMENTO DI COMPENTENZA – EFFICACIA ORDINANZA SOSPENSIVA emessa da giudice incompetente in caso di competenza funzionale – ultraefficacia – esclusione

REGOLAMENTI E ATTI GENERALI – annullamento o sospensione in sede giurisdizionale – differente ambito di operatività

LIMITI SOGGETTIVI GIUDICATO CAUTELARE – efficacia erga omnes – esclusione

 

 

Con il ricorso in esame, proveniente dal TAR Veneto – che aveva concesso la sospensione dell’atto impugnato con ordinanza sospensiva n. 1217/1998 – giusta regolamento di competenza definito con sentenza del Consiglio di Stato n. 1276/1999, l’Ufficiale medico ricorrente impugna il decreto del 28.4.1998 – unitamente alla circolare interpretativa dell’Aeronautica Militare Ispettorato Logistico V reparto dell’.8.7.1998 con cui venivano diramate le nuove disposizioni – con cui viene stabilito che i medici militari in servizio non possono svolgere attività certificativa in relazione al rilascio di certificazioni di idoneità alla licenza di porto d’armi.

Il ricorso è affidato ai seguenti motivi: Violazione dei principi fondamentali in materia ricavabili dal combinato disposto degli artt. 161 par. 712 e ss. RD 17.11.1932 Regolamento del servizio Sanitario territoriale Militare, nonché dell’art. 3, 17 e 18 della legge 113/54 TU 393/59; 4 L 118/88; 119 D.lvo 285/92; Eccesso di potere per contraddittorietà tra atti.

Nelle more del giudizio il ricorso è stato dichiarato perento con decreto presidenziale n. 7909 del 17.4.2014; poi revocato a seguito di deposito da parte del ricorrente della dichiarazione di interesse ai sensi dell’art. 1 co 2 all. 3 norme transitorie CPA, e – reiscritto a ruolo con decreto 21604 del 22.12.2014.

Con motivi aggiunti viene impugnato altresì il provvedimento dell’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. IGESAN/PS-14/X (115) dell’8.10.2014 – diramato con nota del Servizio Sanitario Comando Logistico dell’Aeronautica Militare prot. M_D_ARM 003 0107697 del 10.10.2014 e comunicata altresì con mail dello stesso servizio 14.10.2014 – con cui, sulla base del parere legale dell’Ufficio Generale Affari Giuridici dello Stato Maggiore Difesa –anch’esso impugnato, sebbene al buio, quale atto presupposto, di estremi ignoti, si preclude ai medici militari di svolgere attività certificativa medico-legale per il rilascio della licenza di porto d’armi e si dispone la non autorizzabilità della medesima da parte degli Uffici di Appartenenza.

Il ricorso per motivi aggiunti è affidato ai seguenti motivi: Violazione degli artt. 21 septies legge 241/90 e 114 co 4 CPA; illegittimità derivata; inconferenza del richiamo al decreto di perenzione del 16.4.2014 (con conseguente persistente efficacia dell’ordinanza sospensiva del TAR Veneto, n. 1219/1998; mancata considerazione della manifestazione di interesse sul ricorso n. 11501/1999).

Si è costituito in giudizio, per difendersi, il Ministero della Sanità chiedendo con memoria scritta il rigetto del gravame in quanto infondato. Non si sono costituiti in giudizio né il Ministero dell’Interno, né il Ministero della Difesa.

Con ordinanza n. 587/2015 è stata rigettata l’istanza di sospensiva.

Con memoria depositata in vista della trattazione del merito l’Amministrazione resistente ha rappresentato le ragioni che hanno indotto la modifica della disciplina in contestazione.

Con memoria di replica il ricorrente ha contestato le ragioni addotte dalla PA evidenziando che l’art. 35 del TULPS non prevede visite collegiali e che comunque pure presso le ASL la certificazione in parola è affidata ad un medico monocratico.

All’udienza pubblica odierna la causa è stata trattenuta in decisione.

Costituisce oggetto di impugnativa il Decreto del Ministero della Sanità del 28.4.98 (pubblicato sulla GU n. 143 del 22.6.1998) – che detta la disciplina per l’accertamento dei requisiti psicofisici minimi per il rilascio e rinnovo dell’autorizzazione al porto d’armi per uso difesa personale – nella parte in cui, all’art. 3 co. 1, stabilisce che “L’accertamento dei requisiti psicofisici è effettuato dagli uffici medico-legali o dai distretti sanitari delle unità sanitarie locali o dalle strutture sanitarie militari e della Polizia di Stato” in tal modo modificando il previgente DM del 14.9 1994 mediante l’eliminazione del passaggio che prevedeva altresì: “o da singoli medici del ruolo professionale dei sanitari della ps o da medici militari in servizio permanente e in attività di servizio” .

Secondo il ricorrente il DM impugnato si pone in contrasto con i principi posti dalla normativa di rango primario che era chiamato ad attuare (legge 89/1987) in quanto questa demandava al Ministro di Sanità unicamente di determinare i criteri per l’accertamento dei requisiti psicofisici senza individuare soggetti competenti al rilascio della predetta certificazione. Siccome si tratta di emissione di atti che integrano l’esercizio di una pubblica funzione la materia poteva essere disciplinata solo da norma di fonte primaria, ma la legge 89/1987 nulla dispone in merito alla competenza al rilascio dei certificati in parola. Quindi il DM impugnato avrebbe dovuto ispirarsi ai principi desumibili dalla disciplina delle competenze dei medici militari definita dall’art. 161 par. 712 e ss. RD 17.11.1932 (Regolamento del Servizio Sanitario Militare Territoriale), che prevede alcune funzioni estranee ai compiti istituzionali dei medici militari; tra cui la possibilità di effettuare visite fiscali a compenso (legge n. 122/1965), la possibilità di rilasciare certificati di idoneità per il conseguimento della patente di guida di autoveicoli e della patente nautica prevista (vedi artt. 3, 17 e 18 della legge 113/54 TU 393/59; 4 L 118/88; 119 D.lvo 285/92). Dall’insieme di norme richiamate il ricorrente desume la spettanza al Medico Militare di un generale potere di svolgere attività sanitaria in regime libero professionale all’esterno della struttura militare e di esercitare, nell’ambito di essa, il relativo potere certificatorio.

Il ricorso introduttivo risulta infondato in quanto l’art. 3 dell’impugnato DM 28.4.1998 nel ridisciplinare le modalità di accertamento dei requisiti psicofisici per il rilascio ed il rinnovo del porto d’armi – in virtù della previsione legislativa introdotta dalla legge n. 89/1987 – s’è limitato a modificare quanto disposto dal DM 14.9.1994 (sicchè, è con quest’ultimo che semmai il DM impugnato si pone in contrasto, piuttosto che con la legge-fonte, che nulla prevedeva riguardo il regime delle competenze) – che aveva riconosciuto tale potere certificatorio anche al singolo medico militare – ripristinando l’originario assetto di competenze sancito dal previgente DM 4.12.1991 che attribuiva il potere certificatorio solo a strutture della sanità pubblica civile e militare. La ratio della restituzione al regime “pubblicistico” di relativi controlli è insita nel grave rischio per la sicurezza pubblica di affidare ad un singolo sanitario operante come libero professionista nel libero mercato la delicata e complessa valutazione dell’idoneità del soggetto che richiede di girare armato (anche a seguito della fallacia delle valutazioni prognostiche sul rischio di abuso evidenziate da ripetuti fatti di cronaca) e della necessità di disporre di una struttura in cui assoggettare i richiedenti a controlli più efficaci e penetranti – che investono non solo la sfera psichica, ma anche tutta una serie di requisiti fisici (uditivi, visivi, motori, etc.) per scongiurare il rischio di incidenti ed abusi nell’uso delle armi.

L’attività certificativa relativa alla licenza disciplinata dal DM 1998 si fonda infatti sulla valutazione complessiva dell’idoneità fisico-psichica dell’istante e, proprio per la sua maggiore complessità, si distingue da quella prevista per il rilascio del nulla osta all’acquisto di armi dall’art. 35 del R.D. 18/06/1931, n. 773 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) – titolo limitato dalla validità temporale limitata e che viene ritirato dall’armiere al momento della vendita – che riguarda il solo aspetto mentale dell’istante.

La scarna disciplina del TULPS è stata successivamente integrata da ulteriori misure volte ad assicurare una maggiore tutela alla generalità dei consociati richiedendo ulteriori attestati, quali l’idoneità al maneggio di armi, finalizzati ad accertare che chi domanda il permesso di girare armato abbia sufficientemente dimestichezza con l’arma (legge 287 del 28.5.1981).

Infine con l’art. 1 della legge 6.3.1987 N. 89, si introduce l’ulteriore onere di aggiungere alla documentazione richiesta per ottenere la licenza di porto d’armi l’apposito certificato medico di idoneità di cui si discute, rinviando, per quanto riguarda i “criteri tecnici generali per l’accertamento dei requisiti psico-fisici minimi per ottenere il certificato medico dell’idoneità al porto delle armi”. Tale legge, tuttavia, non specificava quali fossero tali requisiti, né disciplinava direttamente gli aspetti organizzativi della procedura o individuare gli enti o soggetti deputati al rilascio di tale certificato, demandandone, in tal modo, la disciplina ad un emanando Decreto del Ministero della Sanità.

Come riconosciuto dallo stesso ricorrente, ciò ha determinato “una produzione regolamentare ondivaga” che ha alternativamente attribuito il potere certificatorio talvolta solo a strutture della sanità pubblica civile e militare (DM 4.12.1991) e talaltra l’ha riconosciuto anche ai medici militari operanti individualmente ed al di fuori di tali organizzazioni (come previsto dal previgente DM 14.9.1994) e, da ultimo, con il decreto del 1998 escludendo nuovamente dal potere certificatorio il medico militare operante come singolo.

Secondo il ricorrente tuttavia solo la soluzione del 1994 era legittima in quanto “nel silenzio della legge-fonte” il DM non avrebbe potuto modificare la “naturale” competenza del medico militare a rilasciare certificazioni in regime libero-professionale derivata da un principio generale ricavabile sulla base di alcune specifiche e puntuali previsioni normative (che consentono al medico militare di attestare il possesso di determinati requisiti psicofici per svariate finalità: guida di autoveicoli, esonero dalle lezioni di ginnastica etc.).

La prospettazione del ricorrente non merita condivisione. Dall’insieme delle norme invocate dall’interessato, e dal loro carattere speciale e dalla loro natura tassativa, si deve escludere la configurabilità del principio generale invocato, il quale non trova alcun fondamento nella normativa in materia, dalla quale si desume, invece, proprio il contrario e cioè che, al di fuori delle ipotesi espressamente previste non sia consentito al medico militare di rilasciare certificati (sicchè non è possibile configurare un potere certificatorio in regime libero professionale dei medici che operino al di fuori delle strutture sanitarie militari). Infatti la normativa in materia è chiaramente indicativa della tassatività di tali competenze, come espressamente sancito dall’art. 209 co. 4 del D.lvo n. 66/2010 che vieta di eseguire visite e redigere certificati al di fuori dei casi previsti e della previa autorizzazione del Ministero della Difesa (riproducendo quanto già disposto dal r.d. n. 2410/1926 e dal r.d. 17.11.1932, facendo salvi i casi in cui l’attività era già consentita, o per legge, o per autorizzazione ministeriale, come appunto quella certificatoria relativa alla patente di guida e alla patente nautica; alle visite fiscali contemplate dalla legge n. 122/1965).

Ne consegue che non si può ravvisare alcun contrasto né con la legge-fonte (legge n. 89/1987), né con la normativa in materia di autorizzazione all’attività extramoenia soprarichiamata, del DM impugnato il quale, nell’ambito di disciplina ad esso demandato, ha legittimamente introdotto una misura necessaria a scongiurare il grave rischio per la sicurezza e l’incolumità dei consociati di affidare ad un singolo sanitario, operante in regime di libera professione, presso strutture esterne (studi privati, etc.) la delicata e complessa valutazione dell’idoneità del soggetto-cliente che richiede di girare armato.

Si tratta pertanto di misure organizzative chiaramente ispirate alle finalità precauzionali e necessarie per salvaguardare superiori interessi di sicurezza pubblica che, assumendo rango primario, sono stati considerati in modo del tutto ragionevole come prevalenti rispetto all’interesse meramente economico dei medici militari a poter svolgere l’attività libero-professionale di rilascio a pagamento, nell’attività privata, dei relativi certificati.

Ed è proprio la stessa delicatezza del complesso compito valutativo e dell’importante impatto sulla sicurezza pubblica dell’attività certificatoria in parola che giustifica la riserva del loro rilascio agli uffici medico-legali delle strutture pubbliche – sottraendolo all’ambito privato delle certificazioni con conseguente ritorno al regime pubblicistico (come d’altronde già sancito dal DM 4.12.1991) – che, oltre a disporre delle diverse professionalità medico-legali e di professionisti dotati di specifiche competenze (psichiatriche, oculistiche, etc.) necessarie ad una valutazione “interdisciplinare” dell’attitudine complessiva del soggetto a girare armato, comporta un differente e più severo regime giuridico rispetto alle certificazioni relative ad altri titoli abilitativi (alla guida di autoveicoli, patenti nautiche), etc., che incidono principalmente sulla sicurezza alla circolazione dei veicoli e dei natanti – e quindi solo indirettamente ed occasionalmente sulla sicurezza delle persone – ed implicano verifiche dei requisiti psico-fisici meno complesse e meno suscettibili di errore di valutazione (quali sono invece quelle relative alla personalità e capacità di controllo degli impulsi del richiedente il porto d’armi).

Né vale, in senso contrario, l’osservazione, contenuta nella memoria di replica dal ricorrente, che il medico militare avrebbe sufficiente competenza derivantagli dall’esperienza dell’esame quotidiano – sempre monocratico – del personale militare che ha maneggio delle armi. Al riguardo è sufficiente rilevare che un conto è valutare la salute psico-fisica dei militari professionali (che hanno già superato rigorosi accertamenti dei requisiti psico-fisici ed attitudinali) ed altro conto è valutare la personalità ed il rischio di abuso di armi del soggetto che richiede il porto d’armi, visitato in poco tempo in un ambulatorio privato e “garantito” nell’anamnesi da un solo foglio prestampato compilato dallo stesso interessato e controfirmato dal medico di famiglia.

Quanto infine al richiamo – contenuto nella precedente memoria depositata dal ricorrente in vista della trattazione del merito – alle norme sopravvenute ed in particolare al Decreto Legislativo 26.10.2010 n. 204, che, nel modificare l’art. 35 del R.D. n. 773/1931 introducendo l’obbligo del titolare di comunicare il nulla osta all’acquisto delle armi ai conviventi, anche diversi dai familiari, dell’interessato, ha mantenuto il potere certificativo del medico militare in ordine al rilascio del nulla osta ivi previsto, va osservato che la novella invocata dal ricorrente non giova alla sua causa. Ed infatti la legge in parola tiene ben ferma la distinzione tra il nulla osta all’acquisto, previsto appunto dall’art. 35 del RD 773/1931, ed il porto d’armi, che è il titolo autorizzatorio necessario per circolare con l’arma carica, previsto dal successivo art. 42 dal medesimo 773/1931, per il rilascio del quale la legge n. 89/1987 – che costituisce norma speciale che integra le previsioni del TULPS – ha previsto un diverso certificato, la cui disciplina non è stata modificata al Decreto Legislativo 26.10.2010 n. 204, che si limita a ribadire, anche per quest’ultimo titolo, il medesimo obbligo di comunicazione ai conviventi previsto per il nulla osta all’acquisto.

In conclusione, alla luce delle considerazioni soprasvolte, il ricorso introduttivo va respinto in quanto infondato.

Si passa ad esaminare il ricorso per motivi aggiunti con cui viene impugnato anche il provvedimento dell’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. 9563 del 5.9.2014 – diramato con nota del Servizio Sanitario Comando Logistico dell’Aeronautica Militare prot. M_D_ARM 003 0107697 del 10.10.2014 e comunicata altresì con mail dello stesso servizio 14.10.2014 – con cui, sulla base del parere legale dell’Ufficio Generale Affari Giuridici dello Stato Maggiore Difesa –anch’esso impugnato, quale atto presupposto, di estremi ignoti, si preclude ai medici militari di svolgere attività certificativa medico-legale per il rilascio della licenza di porto d’armi e si dispone la non autorizzabilità della medesima da parte degli Uffici di Appartenenza.

Anche il ricorso per motivi aggiunti risulta infondato.

Il ricorrente sostiene che illegittimamente la PA fa rivivere il DM 1998 sulla sola base dell’intervenuta perenzione del ricorso dallo stesso presentato, pronunciata con DP n. 7907 del 17.4.2014 senza tener conto dei persistenti effetti dell’ordinanza sospensiva del TAR Veneto, Sez. II, n. 1219/1998 concessa dal medesimo tribunale sul ricorso proposto dal Collega ******** che era stato riassunto davanti al TAR Lazio con ricorso n. 1704/1999 e che è stato dichiarato perento con decreto presidenziale n. 16558 del 29.9.2014 in epoca successiva all’adozione degli atti impugnati con motivi aggiunti e quindi in tal modo incorrendo nella violazione del giudicato cautelare formatosi sull’ordinanza sospensiva resa sul ricorso ********.

Inoltre, sempre secondo il ricorrente, l’efficacia della pronuncia cautelare favorevole non può essere travolta dal decreto presidenziale dichiarativo della perenzione ai sensi dell’art. 1 co 2 all. 3 norme transitorie CPA in quanto – a suo avviso – questa, a differenza della perenzione ordinaria di cui all’art. 81 CPA – che opera in via automatica ed istantanea – costituisce una sorta di fattispecie a formazione progressiva che nel decreto presidenziale trova solo il momento di avsdfsvio per poi entrare in “una situazione di latenza che perdura fino allo scoccare del termine di 180 gg dalla comunicazione del decreto”; pertanto, siccome in tale “periodo bianco” la perenzione non opera, non poteva ritenersi travolta l’efficacia della misura cautelare.

Il ricorrente sostiene inoltre che nel suo caso la fattispecie non si sarebbe nemmeno completata in quanto egli non aveva ricevuto alcuna comunicazione del decreto di perenzione del ricorso da lui proposto, sicchè essendo maturato quest’ultimo requisito successivamente all’adozione dell’atto impugnato, sussisterebbe un ulteriore profilo di inoperatività del decreto (e di conseguente illegittimità del provvedimento impugnato con motivi aggiunti adottato successivamente alla conclusione della fattispecie “a formazione progressiva”).

Va innanzitutto disattesa la ricostruzione dell’operatività dell’istituto della perenzione proposta dal ricorrente in quanto non solo non trova alcun fondamento normativo, ma stride chiaramente già con la lettera – oltre che con la ratio – dell’art. 1 co 2 all. 3 norme transitorie CPA che invece configura la perenzione come ad effetti immediati, tant’è che, la dichiarazione di interesse, lungi dal rappresentare l’ultimo elemento costitutivo di una fattispecie complessa, costituisce invece il presupposto per l’adozione dell’ulteriore provvedimento di revoca del decreto di perenzione già perfettamente efficace ed operante; assumendo la comunicazione all’interessato rilievo al diverso e solo fine processuale del calcolo del termine per presentare opposizione. Ne consegue che, sulla base di quest’ultima considerazione, risulta complessivamente infondata l’intera ricostruzione del ricorrente.

Ma ancor prima è la ricostruzione del ricorrente (mutuata dai provvedimenti impugnati) che non può essere condivisa nella parte in cui fa dipendere la cessazione degli effetti dell’ordinanza sospensiva concessa dal giudice veneto, incompetente (a pronunciarsi sul DM impugnato), dal decreto di perenzione, anziché dalla mancata riproposizione, in sede di riassunzione, dell’istanza cautelare davanti al questo TAR, giudice competente, dell’istanza di sospensiva. Al riguardo va ricordato che il rapporto tra regolamento di competenza e tutela cautelare è stato approfonditamente esaminato da dottrina e giurisprudenza con riferimento al potere/dovere del giudice di assicurare adeguata tutela interinale nelle more dell’individuazione del giudice competente.

Per quanto invece riguarda la fase successiva, l’unico precedente che affronti il problema della sorte dell’ordinanza sospensiva del giudice a quo riconosciuto incompetente è costituito – a quanto consta al Collegio – dalla decisione del Cons.St., Sez. VI n. 669 del 21.6.1977 davanti al quale era stata posta dal contro interessato la questione della nullità dell’ordinanza di sospensione emessa dal giudice incompetente. Nella richiamata pronuncia il Supremo Consesso pur ritenendo che la richiesta di dare atto sic et simpliciter dell’intervenuta cessazione dell’efficacia dell’ordinanza cautelare del giudice a quo quale conseguenza della dichiarata incompetenza, tuttavia rilevava che tale soluzione, pur corretta sotto il profilo giuridico formale, comportava, sul piano sostanziale, una soluzione di continuità della tutela cautelare con gravi conseguenze (di pregiudizio o vantaggio delle parti interessate). Pertanto il Supremo Consesso riteneva preferibile l’avviso che la scomparsa dal mondo giuridico dell’ordinanza de qua debba avvenire alla scadenza del termine di 30 gg dalla notifica della decisione sul regolamento di competenza. Tale soluzione era considerata un giusto punto di equilibrio in quanto, come precisato nelle conclusioni della decisione, “In tal modo, ove la controversia non abbia ad estinguersi per la mancata riassunzione del ricorso viene assicurato da parte del giudice competente ogni ulteriore provvedimento sulla controversia, senza che abbiano a temersi nell’attuale fase, alterazioni nella situazione non validamente motivate” (Cons.St., Sez. VI n. 669 del 21.6.1977). In tal modo pertanto veniva assicurava senza soluzione di continuità la tutela cautelare offerta dal giudice a quo, senza però privare del potere cautelare ad esso spettante il giudice competente, il quale, appunto, è chiamato ad assumere i provvedimenti cautelari a seguito di riproposizione del ricorso e della correlata istanza incidentale di sospensiva. Considerazione che assume valore decisivo nel caso, come quello in esame, in cui si tratta di verificare la legittimità di regolamenti ed atti generali che rientrano nella competenza funzionale del TAR centrale – e non di mera competenza territoriale come erroneamente ritenuto dal ricorrente nella memoria conclusionale – sicchè la lacuna dell’art. 31 l.tar. va colmata facendo applicazione analogica dell’art. 50 cpc come chiarito dal Consiglio di Stato, sez. VI n. 3696/2009).

L’opposta soluzione propugnata dal ricorrente, volta ad assicurare l’ulteriore ultrattività del provvedimento cautelare adottato dal giudice a quo anche dopo che ne sia stata affermata l’incompetenza funzionale da parte del Consiglio di Stato, non può essere condivisa. Infatti gli effetti conservativi degli atti processuali anteriori conseguenti alla (tempestiva) riassunzione – effetti che si giustificano con il fatto che la riassunzione non costituisce l’instaurazione di un nuovo rapporto processuale, ma la mera continuazione di quello originario – non comportano la possibilità di mantenere in vita anche il provvedimento cautelare adottato dal giudice a quo. Detto provvedimento resta un atto viziato da incompetenza e la riassunzione non produce alcun effetto sanante avendo solo l’effetto di investire il giudice ad quem del potere/dovere di decidere sull’istanza incidentale di sospensione dell’atto impugnato (ove ovviamente questa sia stata riproposta in sede di riassunzione). Non vi sarebbe peraltro alcuna ragione per riconoscere efficacia all’ordinanza cautelare pronunciata dal giudice incompetente una volta che il ricorso sia stato riassunto davanti al giudice competente che è dotato di potestas decidendi sia in ordine alla controversia sia per la tutela cautelare, sia per quella di merito – trattandosi “competenze che – in linea di principio – devono ritenersi intimamente connesse, scindibili in casi del tutto eccezionali ed solo al fine di assicurare una tutela interinale immediata e provvisoria” (Corte Costituzionale, 02/03/2005, n. 82). Un simile effetto ultrattivo dell’ordinanza sospensiva resa dal giudice funzionalmente incompetente, preteso da parte ricorrente, peraltro comporterebbe il rischio di un contrasto di pronunce cautelari tra i diversi TAR territoriali sul medesimo atto generale o normativo.

E ciò consente di tornare all’argomentazione difensiva principale alla quale sono affidati i motivi aggiunti in esame, con cui si denuncia la violazione del giudicato cautelare formatosi a favore del collega ********, al quale il TAR Veneto aveva concesso tutela cautelare con ordinanza n. 1219/1998 che, secondo il ricorrente, continuerebbe a tutt’oggi a produrre effetti, anche nei suoi confronti.

Anche sotto tale profilo la prospettazione attorea non può essere seguita.

Il ricorrente dà per scontato che l’ordinanza sospensiva di un regolamento o di atti amministrativi generali “indivisibili” avrebbe efficacia erga omnes, al pari della sentenza che lo annulli. La soluzione da lui propugnata tuttavia non è affatto pacifica. Si tratta di una questione molto complessa, che scaturisce dalla mancata previsione, nel nostro ordinamento, di un apposito ricorso contro gli atti amministrativi generali ed i regolamenti – e che pone problemi delicati investendo, più alla radice, il problema dell’oggetto del processo e la scelta fondamentale tra un modello di giurisdizione di diritto oggettiva oppure soggettivo – che non ha ancora trovato una soluzione, nonostante le diverse proposte di riforma del processo amministrativo (quali il ddl del 12 ottobre 1989), nemmeno nel codice del processo amministrativo di recente approvato.

Anche se la giurisprudenza concorda sulle “ragioni” che giustificano l’efficacia erga omnes del giudicato di annullamento degli atti amministrativi generali o normativi – rimarcando che “un atto sostanzialmente e strutturalmente unitario non può esistere per taluni e non esistere per altri” – tuttavia non è pacifico in cosa consista tale carattere di “indivisibilità” dell’atto impugnato (talvolta ravvisato nel contenuto o negli effetti dell’atto oppure ricondotto al vizio che ne abbia determinato l’annullamento ovvero alla posizione giuridica del soggetto coinvolto nel “rapporto amministrativo” in contestazione piuttosto che all’esercizio del potere che ha trovato espressione nell’atto impugnato).

La complessità di tale problematica, ovviamente, si riflette anche sulla (diversa) questione dell’individuazione dell’ambito soggettivo della pronuncia cautelare: qui la tematica viene ad essere ulteriormente complicata dalle diatribe sull’oggetto del giudizio cautelare e dall’esigenza di “compatibilizzare” la soluzione “tradizionale” dell’annullamento con effetto erga omnes soprarichiamata con il carattere interinale, la funzione strumentale e l’esigenza di assicurare l’effettività della tutela anche mediante misure “anticipatorie” degli effetti della sentenza di merito (e talvolta addirittura anticipatorie “di ciò che può essere assicurato solo in sede di ottemperanza” come nel caso della sospensione di certi tipi di atti di diniego)

Così la giurisprudenza riconosce che “sui limiti soggettivi dei provvedimenti cautelari si registrano orientamenti contrastanti” (TAR Sicilia Palermo, Sez. III, n. 2274/2010) ed ammette che si tratta di un tema “innegabilmente complesso e controvertibile, in quanto (…) un conto è il giudicato di annullamento di un provvedimento generale, che, in ragione della sua portata caducatoria, eliminando dal mondo giuridico l’atto impugnato, ha naturalmente effetto erga omnes, altro conto è la sospensione dell’efficacia dell’atto impugnato, la quale non può che avere contenutisticamente effetto inter partes” (TAR Puglia, Bari, Sez. I n. 24/2001).

Tanto precisato, una parte della giurisprudenza afferma l’efficacia generale dell’ordinanza sospensiva in base al principio di effettività della tutela e di strumentalità della tutela cautelare (vedi, TAR Puglia, Bari, Sez. I n. 24/2001: “ravvisandosi la strumentalità essenzialmente nel mantenere una situazione di fatto integra, sì che la decisione di merito possa risultare concretamente efficace, derivandosi da ciò l’affermazione che nel caso di atti generali anche l’ordinanza di sospensione, per simmetria, ha efficacia generale, estesa dunque a coloro che non siano parti del giudizio) che opera in funzione anticipatoria degli effetti della sentenza per prevenire il danno che il ricorrente subirebbe dal ritardo nella decisione del ricorso (TAR Campania, Napoli, Sez. I, n. 6586/2007; TAR Sicilia Palermo, Sez. III, n. 2274/2010: considerata “la sua funzione potenzialmente anticipatoria degli effetti della decisione sul merito, l’ordinanza cautelare (…) pur essendo provvisoria e temporanea, allo stato priva di efficacia ex tunc l’atto impugnato con conseguenze corrispondenti a quelle proprie delle pronunce d’annullamento; perciò, ogni qual volta gli effetti demolitori della sentenza di annullamento sono destinati a prodursi erga omnes per la natura dell’atto caducato, anche la sospensione, in via cautelare, dei suoi effetti opera non limitatamente alle parti del giudizio, ma nei confronti della generalità dei consociati”).

Si pone in tal modo un parallelismo tra l’efficacia dell’ordinanza sospensiva di un regolamento o di un atto generale e gli effetti erga omnes della sentenza di annullamento sulla base della considerazione che “del suddetto regime non possono non essere partecipi anche i provvedimenti di sospensione che, impedendo temporaneamente, e con efficacia “ex nunc”, la possibilità di portare l’ atto ad ulteriore esecuzione, hanno natura strumentale ed esplicano una funzione cautelativa del tutto provvisoria, in quanto volti ad evitare che la futura pronuncia del giudice possa restare pregiudicata nel tempo necessario per ottenerla (Tar Calabria, Catanzaro 1388/2004) . Viene pertanto riconosciuta efficacia erga omnes all’ordinanza di sospensione di una prescrizione regolamentare sulla distanza minima dalle abitazioni degli impianti di telefonia mobile ribadendo che “l’annullamento di un atto amministrativo a contenuto normativo ha efficacia “erga omnes”, per la sua ontologica indivisibilità. Non estendere il principio suindicato alle ordinanze cautelari comporterebbe una incomprensibile aporia (…)” (Cons. St., sez. VI, 06/09/2010 n. 6473).

Si tratta di un orientamento dichiaratamente ispirato – in un’impostazione di giurisdizione di diritto oggettivo – all’esigenza di evitare che gli atti viziati possano seguitare a produrre effetti “ad ampio raggio” (TAR Abruzzo, Pescara, n. 855 /05 che evidenzia che, altrimenti, l’Amministrazione “continuerebbe ad applicare delle norme o degli atti generali indivisibili, già dichiarati illegittimi, con evidente violazione di ogni regola di buona amministrazione”). In quest’ultima prospettiva è stato perciò affermato che “il tema dell’efficacia della pronuncia cautelare su atti a contenuto generale, di certo complesso, poiché la pronuncia è per sua funzione limitata alle parti del giudizio, per la connessione con il periculum in mora dedotto dal ricorrente; sicchè pur ribadendo l’efficacia inter partes della sospensiva, in quanto misura concessa in base al danno (personale) paventato dall’interessato, si ritiene che essa possa avere effetto generale ove essa sia “resa a motivo della lesione di un interesse collettivo” (Cons. stato, Sez. VI, n. 4074/2009). Tale soluzione risponde anche ad esigenza di certezza giuridica “atteso che la natura unitaria del regolamento impedisce che esso trovi applicazione, nonostante esso sia dichiarato illegittimo ovvero sospeso cautelarmente, in relazione solo ad alcuni destinatari dell’atto che non hanno preso parte al procedimento” (TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, n. 161/2016).

A tale corrente si oppone, però, una diversa giurisprudenza che rileva che “un conto è l’efficacia generale dell’atto impugnato ed altro è l’efficacia generale della misura cautelare che quello sospenda” e pertanto esclude che si possa, in via generale, attribuire una “efficacia generalizzata” all’ordinanza sospensiva di un atto generale data la “inerenza alla situazione specifica del ricorrente e segnatamente al periculum da questi denunciato” della misura cautelare .

In tale prospettiva viene esclusa la possibilità di operare un automatico parallelismo tra gli effetti della sentenza e quelli della pronuncia cautelare e si sottolinea che: “se è vero che l’efficacia erga omnes caratterizza il giudizio di annullamento del provvedimento amministrativo, non potendo logicamente l’atto annullato non esistere per alcuni soggetti ed esistere per altri, è anche vero che non sussistono ostacoli logici e giuridici a concepire la ‘sospensione dell’esecuzione’…di un atto (sia pure a contenuto generale) come naturaliter limitata tra le parti in causa ed a beneficio soltanto di alcuni soggetti e cioè di quelli che l’abbiano richiesta, e che tale è la (limitata) funzione che si deve riconoscere in linea di principio alle ordinanze sospensive” (TAR Calabria, sent. n. 340 del 22.7.1987).

In un’ottica funzionale si obietta che la validità ultra partes dell’ordinanza sospensiva di un atto normativo o generale non si giustifica con la funzione della pronuncia cautelare dato che la misura cautelare non risponde all’esigenza di adeguare l’ordinamento ad una certezza legale e di restaurare la legalità violata dal regolamento illegittimo (funzione che semmai deve essere assicurata dal giudicato), bensì di assicurare che, nelle more della conclusione del giudizio, non si producano gli effetti (giuridici o materiali) di un atto che non potrebbero essere riparati da una decisione di merito intempestiva.

E proprio sulla base della valorizzazione dell’interesse “sostanziale” del ricorrente, la questione della determinazione del contenuto e dell’ambito oggettivo e soggettivo della pronuncia cautelare è stata affrontata in modo pragmatico ricorrendo alla “modulazione” della tutela cautelare, secondo la “logica dell’azione finalizzata”, dando luogo ad una svariata tipologia di ordinanze “atipiche”, di accoglimenti ad tempus, con riserva, parziali, etc.,

L’ambito soggettivo dell’ordinanza sospensiva di un atto generale o normativo è stato pertanto individuato tenendo conto delle specifiche circostanze del caso, in corrispondenza alla situazione contingente di pericolo da fronteggiare ed alla concreta esigenza di protezione della posizione giuridica del ricorrente, modulando l’efficacia della pronuncia, accogliendo l’istanza cautelare nella misura che a tal fine risultava necessaria, senza necessariamente anticipare tutti gli effetti della (futura ed eventuale) sentenza di annullamento, ma solo (e comunque tutti) quelli che risultassero necessari per prevenire il danno incombente e comunque, come espressamente precisato con svariate formule, solo “nei limiti dell’interesse del ricorrente” (per chiarire che essa non giova a soggetti terzi, esplicando i propri effetti in ambito circoscritto al solo giudizio nel quale sono emesse e non anche rispetto a giudizi differenti (cfr. Cons. Stato, VI, n. 49/1982; TAR Lazio, I, n. 1168/1985; Cons. Stato, V, n. 548/1986 ord. TAR Lombardia, Milano, n. 326/1987; nonché TAR Campania, Salerno, n. 3/2009 che rigetta la pretesa del ricorrente di avvalersi della sospensiva concessa in altro giudizio osservando che “la cautela giurisdizionale accordata in altro giudizio, anche se riguardante un atto generale, non può assumere rilevanza al di fuori del giudizio in cui è accordata, tenuto conto del suo carattere provvisorio e della sua portata limitata al profilo d’interesse (di tipo cautelare) riconoscibile al ricorrente che l’ha chiesta”). E ciò è stato affermato anche qualora si tratti di atti con valenza generale e indivisibile ed persino qualora il vizio comporterebbe l’annullamento dell’atto impugnato in sede di merito (TAR Lazio, sez. I, n. 1188/1985).

A quest’ultimo riguardo va osservato peraltro che l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “nel processo amministrativo, quale processo di parti, la latitudine dell’annullamento giurisdizionale risulta strettamente circoscritta dall’ampiezza dell’interesse di cui si invoca la tutela, a meno che i vizi denunciati e riconosciuti dal giudice non investano aspetti indivisibili del provvedimento impugnato” (Cons. St., Sez. IV, n. 450/1993) può risultare di difficile applicazione nel caso in cui l’ordinanza sospensiva risulti priva di motivazione. Nel caso – come quello in esame- in cui sono imperscrutabili le ragioni che hanno indotto il giudice cautelare a ritenere sussistente il fumus boni iuris e non si riesce ad individuare quali dei vizi dedotti dal ricorrente siano stati ritenuti sussistenti dal giudicante, non risulta possibile stabilire se la portata della pronuncia debba essere circoscritta al ricorrente oppure possa essere estesa a terzi sulla base del criterio della “indivisibilità del vizio”.

In conclusione l’orientamento “restrittivo” soprarichiamato, ad avviso del Collegio, merita ancor oggi piena condivisione in quanto tiene adeguatamente conto del proprium del processo cautelare e della natura e della funzione dell’ordinanza sospensiva – in particolare della sua “inerenza alla situazione specifica del ricorrente e segnatamente al periculum da questi denunciato” per cui tale pronuncia costituisce misura cautelare concessa “ad personam” (a parità di circostanze oggettive di fatto, il danno può prospettarsi in grado di gravità diverso a seconda delle specifiche condizioni soggettive) – e della conseguente esigenza di “modulare” l’intensità della tutela cautelare (e di conseguenza del contenuto e degli effetti dell’ordinanza sospensiva) e di proporzionare la determinazione dell’ambito soggettivo ed oggettivo di efficacia della relativa pronuncia “a seconda delle specifiche circostanze del caso sottoposto all’attenzione del giudice” in modo da pervenire ad un “equo contemperamento” dei diversi interessi in gioco che rischiano di essere pregiudicati nelle more della definizione del giudizio. Ed in tal modo si evita anche il drammatico scollamento che altrimenti si determinerebbe tra l’ambito soggettivo di coloro che sono necessariamente chiamati in giudizio (dato che nel ricorso contro regolamenti e atti generali non sono configurabili contro interessati) e coloro che sono destinatari delle conseguenze di una pronuncia resa in un processo al quale non sono stati messi in grado di partecipare.

Tale soluzione, peraltro, si pone in linea con le recenti evoluzioni di un’autorevole corrente giurisprudenziale che, nella prospettiva “sostanzialistica” sopraindicata, ha ammesso una modulazione della tutela – addirittura prospettando la possibilità di soprassedere all’annullamento dell’atto illegittimo in considerazione del danno sociale che ne deriverebbe da un eventuale annullamento (Cons. Stato, Sez. V ord. 284/2015) – limitandosi a disporre il solo effetto conformativo ove esigenze di effettività della tutela giurisdizionale lo impongano (come nel caso di materia ambientale in cui il determinarsi di un vuoto di tutela potrebbe risultare ancor più pregiudizievole, per gli interessi presidiati, di un provvedimento illegittimo, vedi Cons. Stato, Sez. VI, n. 2755/2011) e ad ammettere la possibilità di una “flessibilità degli effetti della sentenza di annullamento” (cfr. AP 4/2015 determinando “in relazione ai motivi sollevati e riscontrati e all’interesse del ricorrente “la portata dell’annullamento, con formule ben note alla prassi giurisprudenziale, come l’annullamento parziale, nella parte in cui prevede> o non prevede, oppure nei limiti di interesse del ricorrente e così via) oltre che con il crescente affermarsi, nei giudizi contro i regolamenti, dell’orientamento volto a preferire la disapplicazione all’annullamento degli stessi (vedi da ultimo Cons. St., sez. IV ord. n. 3791/2015 con cui è stata sospesa dal giudice d’appello la sentenza gravata, nella parte in cui annullava, anziché limitarsi a meramente disapplicarlo, il regolamento che prescriveva limiti di altezza minima per gli aspiranti militari)

Il crescente favor giurisprudenziale per la disapplicazione in luogo dell’annullamento, in sede di decisione di merito, costituisce un’ulteriore conferma della necessità di escludere l’automatica validità erga omnes dell’ordinanza sospensiva di atti normativi anche al fine di evitare che il giudice cautelare possa interferire nell’esercizio del potere regolamentare mediante decisioni assunte in Camera di Consiglio, in base a sommaria cognitio, senza una visione completa dell’intera problematica che si intende “regolare” e senza alcuna legittimazione democratica per sostituirsi alla PA nell’assetto degli interessi in gioco che solo a questa spetta stabilire. E sotto tale profilo, è stata da tempo evidenziata la natura “latu sensu politica” dei regolamenti e degli atti generali.

Quest’ultima considerazione ben si attaglia al caso in esame, in cui il DM impugnato non contiene solo “norme tecniche”, ma costituisce l’espressione di precise scelte in merito all’ordine ed al valore dei vari interessi in gioco. I soggetti che vengono interessati dalla sospensione dell’atto impugnato, infatti, non sono solo i medici militari ai quali viene precluso lo svolgimento in regime libero professionale della redditizia attività certificativa del possesso dei requisiti necessari per ottenere il porto d’armi (che quindi fanno valere un interesse di tipo economico-corporativo), ma anche i cittadini che sono “contro interessati” ad evitare che vadano in circolazione soggetti armati di cui non sia stata accertata adeguatamente (mediante strutture pubbliche indipendenti e non soggette a pressioni) la capacità psico-fisica necessaria ad escludere incidenti. In questo quadro la soluzione dell’efficacia erga omnes della sospensiva resa dal giudice territoriale veneto (incompetente) in un giudizio promosso tra altri soggetti (e peraltro estinto) non sarebbe neppure giustificato con il rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere tra l’esigenza di tutela dell’interesse del ricorrente e l’ambito di operatività della misura ed avrebbe l’effetto di espandere (senza alcuna ragione) la platea dei beneficiari o comunque dei destinatari di una previsione regolamentare alterando (con effetti in larga parte irreversibili) le reciproche posizioni di vantaggio/svantaggio.

Alla luce delle considerazioni soprasvolte anche il ricorso per motivi aggiunti risulta infondato e va pertanto respinto.

Sussistono tuttavia giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis) respinge il ricorso introduttivo ed i motivi aggiunti.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 8 gennaio 2016, 16 marzo 2016, con l’intervento dei magistrati:

*******************, Presidente FF

***************, Consigliere

*****************, ***********, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA del 12/05/2016

Redazione