Legittimo il licenziamento della dipendente statale che collabora nell’azienda familiare durante il periodo di malattia (Cass. n. 20857/2012)

Redazione 26/11/12
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Svolgimento del processo

Con sentenza del 29.10.2008, la Corte di Appello di Milano respingeva il gravame proposto da C.L. avverso la sentenza dei Tribunale di Pavia che aveva rigettato il ricorso della predetta inteso ad ottenere la declaratoria dell’illegittimità del licenziamento intimatole il 30.6.2005 dalla Regione Lombardia per violazione del divieto di cumulo di impieghi ed incarichi lavorativi in costanza di rapporto di lavoro subordinato con la P. A., con le conseguenze reintegratorie e risarcitorie di legge. Rilevava la Corte territoriale che, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, che richiamava il disposto del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 60 e ss., la disposizione di incompatibilità prevista nell’interesse del buon andamento dell’amministrazione prescriveva l’esclusività della prestazione resa dal dipendente in favore dell’ente datore di lavoro e che anche il CCNL del personale dipendente Comparto Regione – Autonomie locali prevedeva analogo divieto (art. 23), onde la accertata presenza della C. all’interno del negozio della sorella, intenta a svolgere mansioni di commessa ed attività di vendita, anche durante il normale orario di lavoro in giornate di assenza dal lavoro giustificate dallo stato di malattia, integrava la fattispecie sanzionata. Ciò anche sulla base della considerazione che esisteva analogo precedente disciplinare a carico della dipendente e che non avevano trovato fondamento probatorio le circostanze addotte a sua discolpa (impossibilità di svolgere la prestazione per avvenuta cessazione dell’attività a fine marzo 2005). Non vi era stata alcuna richiesta di autorizzazione in deroga al divieto generale e nessuna delle eccezioni legislativamente previste era riscontrabile, nè i precedenti disciplinari, risalenti ad epoca antecedente il biennio, erano stati richiamati a fondamento di una recidiva, non contestata, ma solo quali indici rivelatori dell’idoneità della condotta a configurare una giusta causa di recesso, nonchè della legittimità ed adeguatezza dello stesso, in una valutazione complessiva del comportamento della lavoratrice.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la C., affidando l’impugnazione a tre motivi Resiste, con controricorso, la Regione, che illustra le proprie difese nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la C. denunzia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per avere la Corte di appello ritenuto non contestati dalla ricorrente i fatti che la Regione Lombardia ha posto a fondamento del licenziamento.

Assume di avere sempre contestato integralmente i fatti posti a base del procedimento disciplinare, osservando di non avere svolto alcuna prestazione lavorativa continuativa remunerata e di essersi recata in alcune occasioni a salutare la sorella, sostando per qualche ora nel negozio in fase di liquidazione, e rileva l’insufficienza della motivazione al riguardo, per non essere stata conferita rilevanza alla negazione dei fatti da parte di essa ricorrente.

Con il secondo motivo, deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., nonchè omessa ed erronea valutazione delle risultanze processuali, per avere la Corte d’appello erroneamente ritenuto provati dalla Regione i fatti contestati nella lettera di licenziamento, laddove incombeva all’amministrazione provare i singoli elementi caratterizzanti i fatti stessi, ossia che la ricorrente svolgesse un’attività nelle date contestate, sulla base di un incarico conferitole a fronte di retribuzione. Aggiunge che le dichiarazioni rese al riguardo da terzi erano prive di riscontri.

Con il terzo motivo, lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 53 e dell’art. 23 del c.c.n.l comparto Regioni ed autonomie Locali, per avere la Corte del merito ritenuto erroneamente sussistenti ed idonei al provvedimento di espulsione i fatti contestati nella lettera di licenziamento.

Rileva che l’obbligo di fedeltà va collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e che la Corte di legittimità ha sempre affermato che è possibile senza autorizzazione la partecipazione in società agricole a conduzione familiare, purchè l’impegno risulti modesto, non abituale o continuato e che solo un’attività caratterizzata da intensità, continuità e professionalità potrebbero turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore ed il prestigio della P. A.. Aggiunge che, peraltro, sul piano procedurale era necessaria una previa diffida prima di addivenire al recesso.

Il ricorso è infondato.

Il primo motivo deve essere disatteso in relazione alla sussistenza di articolata e pertinente motivazione adottata dal giudice del gravame in ordine all’avvenuto accertamento della presenza della C. all’interno dell’esercizio commerciale di proprietà della sorella, sia in orario lavorativo, che extralavorativo, ed alla ritenuta irrilevanza della percezione di un compenso continuativo da parte della stessa per l’attività di collaborazione alla vendita di merce prestata. In realtà, ciò che la ricorrente assume di avere sempre contestato non è la circostanza di avere effettivamente dato una mano alla sorella nella gestione del negozio in fase di liquidazione, ma lo svolgimento di attività lavorativa continuativa e retribuita. Tuttavia, il rilievo si rivela inconferente ai fini considerati, atteso che sia l’art. 23 del c.c.n.l. per il personale dipendente del comparto Regioni ed autonomie Locali, alla lettera g) pone il divieto di attendere ad occupazioni estranee al servizio, sia il Testo Unico n. 3 del 1957, art. 60, relativo alla disciplina delle incompatibilità, richiamato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 1 (“Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dal testo unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, artt. 60 e ss.”), prevede che l’impiegato non possa esercitare il commercio, l’industria, nè alcuna professione, senza alcun riferimento ad attività retribuita, onde il divieto deve ritenersi assoluto, a prescindere dalla sussistenza o meno di una remunerazione, ovvero di una continuità della prestazione lavorativa diversa da quella espletata alle dipendenze della P.A.. Al riguardo, a fronte delle prove menzionate in sentenza a supporto della ritenuta integrazione della condotta sanzionata, nulla ha dedotto la ricorrente se non di avere contestato i detti requisiti della remunerazione e della continuità, che, per quanto osservato, non assumono rilevanza ai fini di causa, non rientrando l’attività esercitata neanche in alcuna di quelle costituenti deroga al divieto e per le quali non occorreva autorizzazione.

La infondatezza del motivo discende, poi, dalla mancanza di decisività delle ragioni poste a fondamento della censura, analogamente a quanto deve dirsi per quelle formulate nel secondo e terzo motivo di impugnazione, le quali vertono anch’esse sulla necessità di prova, da parte dell’amministrazione, del conferimento di un incarico retribuito e sulla mancata attribuzione di rilevanza a tale elemento da parte della Corte del merito.

Peraltro, l’idoneità dei fatti ad integrare gli estremi della condotta sanzionata con l’espulsione, negata dalla ricorrente, rientra nella autonomia di valutazione del giudice del merito, sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. in tali termini, da ultimo, Cass. 26.4.2012 n. 6498, conf. a Cass 5095/2011, nonchè Cass. 9299/2004). Una denunzia di tal genere non è contenuta nel motivo di ricorso, vertendo, piuttosto, la doglianza sulla prospettazione di una diversa ricostruzione e valutazione delle circostanze di fatto emerse in istruttoria, senza che si evidenzino vizi logici o elementi di contraddittorietà aventi carattere di decisività ai fini di una diversa soluzione della controversia, sicchè ogni altro motivo di ricorso va disatteso per la inidoneità a determinare la necessità di un nuovo esame dei fatti alla luce di criteri logico giuridici, che nella specie risultano già correttamente applicati e posti in maniera coerente a sostegno della decisione oggetto di impugnazione.

Infine, neanche assume rilievo l’assunto che sul piano procedurale era necessaria una previa diffida dell’amministrazione, stante l’inderogabilità del divieto sancito dalle norme richiamate, così come irrilevante è il richiamo ai principi di buona fede e correttezza, invocati in modo affatto generico ed in relazione alla assimilazione, tutt’altro che pertinente, della fattispecie ad ipotesi esaminata dalla S.C. di partecipazione del dipendente pubblico in società agricole a condizione familiare con apporto lavorativo modesto e non abituale, che non muta i termini della questione e le considerazioni svolte in merito alla inderogabilità del divieto sancito dalla normativa menzionata.

Alla stregua di tali osservazioni, il ricorso deve essere respinto e la ricorrente va condannata, in applicazione della regola della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, nella misura liquidata in dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte così provvede:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 40,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 (tremilacinquecento) per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Redazione