Legittima la richiesta del lavoratore, ingiustamente licenziato, per il risarcimento del danno ulteriore derivato dal ritardo della reintegra (Cass. n. 18412/2013)

Redazione 01/08/13
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Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Salerno depositato il 10 novembre 2004, S.C. esponeva di aver ottenuto nel 1994, con sentenza confermata nei successivi gradi di giudizio, un ordine di reintegrazione presso la B.N.L. s.p.a., ottemperato da quest’ultima con grave ritardo solo nel 1999, mentre le spettanze conseguenti all’illegittimo licenziamento erano state soddisfatte per la maggior parte addirittura nel 2003, sicchè aveva subito in conseguenza della condotta illecita della Banca danni per complessivi Euro 10.000.000,00. Si costituiva la B.N.L., contestando il ricorso, che veniva rigettato dall’adito Giudice.

Avverso tale decisione il S. proponeva appello, ribadendo la sussistenza dell’illecito e dei danni, chiedendo la riforma della sentenza di primo grado e l’accoglimento delle sue domande.

Con sentenza del 18 marzo 2009-27 gennaio 2011, la Corte d’appello di Salerno, esclusa la dedotta condotta illecita della Banca per la tardiva esecuzione dell’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, ed esclusa ogni responsabilità di ordine patrimoniale e non patrimoniale della stessa derivante da tale condotta, rigettava l’impugnazione.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre S.C. con cinque motivi. Resiste la Banca Nazionale del Lavoro S.p.A. con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso il S., denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 c.c., della L. n. 300 del 1970, art. 18 della L. n. 108 del 1990, art. 1 e dell’art. 11 preleggi (art. 360 c.p.c., n. 3), lamenta che la Corte d’appello abbia erroneamente negato l’illecito commesso dalla BNL per la ritardata esecuzione dell’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro.

Osserva che la sentenza impugnata aveva riconosciuto come veri i fatti dedotti in giudizio, introdotto con ricorso 14 novembre 1988 come costitutivi dei denunciati inadempimenti della BNL, per cui il S. era stato estromesso dal posto di lavoro per gli anni, dal 1988 al 1999, dei quali dal 1994 al 1999 successivi all’ordine giudiziale di reintegrazione, e non aveva percepito alcun introito per il periodo 1988 al 1994 e la maggior parte di quanto dovutogli, (due terzi), dal 1988 al 2003; e, per l’estromissione dal posto di lavoro, la sentenza si era limitata ad affermare che “era in facoltà del datore di lavoro, alla luce della disposizione di cui alla L. n. 108 del 1990, art. 1”, reintegrare il lavoratore solo al passaggio in giudicato nell’ordine di reintegrazione, che invece era provvisoriamente esecutivo e non prevedeva alcuna possibilità di sospensione, peraltro mai chiesta dalla BNL. Osserva ancora che la previsione dalla L. n. 108 del 1990, art. 18, comma 4, novellato non introduce una obbligazione alternativa con la scelta rimessa al datore di lavoro tra la reintegrazione e indennità, ma presuppone solo l’mpossibilità di esecuzione coattiva dell’ordine di reintegrazione, indicando una commisurazione di massima di risarcimento per la mancata esecuzione la cui omissione costituisce inadempimento dell’obbligo di fare.

La sentenza d’appello, quindi, aveva errato escludendo l’obbligo di reintegrazione fino al passaggio in giudicato del relativo ordine e la conseguente responsabilità della BNL per il ritardo dell’inadempimento; inoltre, il licenziamento risaliva al 1988 e, pertanto, non trovava applicazione al caso di specie la L. n. 108 del 1990.

Il motivo non può trovare accoglimento.

Questa Corte ha chiarito che nel regime di tutela reale L. n. 300 del 1970, ex art. 18 avverso i licenziamenti illegittimi, la predeterminazione legale del danno risarcibile in favore del lavoratore (con riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione) non esclude che il lavoratore possa chiedere il risarcimento del danno ulteriore (nel caso, alla professionalità) che gli sia derivato dal ritardo della reintegra, e che il giudice, in presenza della relativa prova – il cui onere incombe sul lavoratore ma che, in presenza di precise allegazioni, può essere soddisfatto mediante il ricorso alla prova presuntiva – possa liquidarlo equitativamente (Cass. n. 15915/2009; Cass. n. 26561/2997, e, più di recente, Cass. n. 9965/2012).

Rileva il Collegio che tale orientamento, cui va prestata adesione, pur avallando la tesi del ricorrente, non conduce, tuttavia, nella specie, al risultato dallo stesso auspicato.

Va infatti osservato che, nonostante l’affermazione della non illiceità della contestata condotta della società, entrambi i Giudici di merito hanno tenuto, comunque, a chiarire che il lavoratore non aveva fornito la prova del dedotto danno in presenza di un’unica certificazione medica del (omissis), attestante uno stato ansioso-depressivo, non particolarmente significativa sia perchè riferibile ad un’epoca in cui il S. era già risultato vittorioso nel giudizio, in primo grado (sentenza del Pretore di Salerno dell’11.4.94) e in secondo grado (sentenza del Tribunale di Salerno del 14.1.97) e percepiva la retribuzione mensile, sia perchè “i tratti salienti della pretesa patologia sembrano costituire uno stato di disagio psico-fisico che non è dato comprendere se sia correlato ad una situazione di alterazione organica ovvero ad una situazione di conflittualità ed emarginazione vissuti a causa della situazione lavorativa”.

Nessuna rigorosa prova, ad eccezione di un generico riferimento ad “un importante disturbo comportamentale” (tendenza a rifiutare e sottostimare le prove e nell’adottare un atteggiamento apatico ed oppositivo) e ad “una sindrome ansiosa depressiva”, era stata, infatti, fornita dal S. in merito ai lamentati danni non patrimoniali (danno biologico ed esistenziale), sicchè correttamente -ad avviso della Corte d’appello – il Giudice di primo grado aveva rigettato la domanda di riconoscimento, in suo favore, del maggior danno, subito alla salute, a seguito del licenziamento, attesa l’infondatezza della pretesa, dal momento che essa non risultava affatto provata e, comunque, idoneamente raggiunta, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, la prova dell’esistenza di un atteggiamento psicologico, doloso o colposo, del datore di lavoro, necessario per fondare la sua responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c..

Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 18 lamenta che la Corte di Salerno abbia negato l’illecito contrattuale costituito dal licenziamento illegittimo e dal ritardato pagamento delle somme dovute al ricorrente.

Più in dattaglio sostiene che erroneamente la sentenza ha negato l’illecito contrattuale, consistente nel non aver corrisposto al ricorrente alcun introito per sei anni dal licenziamento del 1988 fino al 1994 e la maggior parte, due terzi, di quanto dovuto per illegittimo licenziamento per quindici anni, dei quali nove successivi alla condanna giudiziale del 1994.

Sul punto la sentenza – sempre secondo il ricorrente – si limiterebbe ad affermare che subito dopo la sentenza di primo grado del 1994, era stato corrisposto al S. l’importo di L. 180.234.303 e che non rileverebbe che l’integrale risarcimento fosse stato corrisposto al S. solo nel dicembre 2003 a seguito del contenzioso insorto tra le parti sui criteri di calcolo della retribuzione globale di fatto.

E, così argomentando, la Corte territoriale non avrebbe considerato che il ritardo nell’adempimento costituisce fonte di responsabilità contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c., e che il licenziamento illegittimo obbliga il datore di lavoro a risarcire i danni ulteriori rispetto a quello commisurato alle retribuzioni perdute e quindi anche il danno per la mancata integrale disponibilità di queste.

Anche questo motivo non può trovare accoglimento.

Invero, la Corte territoriale ha considerato che la Banca corrispose al S., secondo quanto disposto dalla sentenza del Pretore notificatale il 20.4.1994, in data 31.5.1994, cioè qualche settimana dopo, la somma di L. 180.224.303, nonchè le indennità sostitutive della retribuzione per i mesi di aprile (L. 1.008.426) e maggio (L. 1.586.291) e la retribuzione globale di fatto (L. 2.493.525 lorde mensili) fino al marzo 1999, data in cui il S. venne reintegrato in servizio.

Ed ha ritenuto, condividendo quanto dedotto dal primo Giudice, che tale “fatto esclude in radice la configurabilità dei dedotti danni patrimoniali scaturiti, si assume, dal ritardo nell’adempimento di quanto disposto dalla sentenza, non essendo ravvisabili perdita o mancati guadagni, atteso che l’esecuzione della sentenza di 1 grado… era stata immediata”.

Si tratta di una motivazione esauriente e coerente che riguarda il merito della controversia e come tale, non censurabile in questa sede, così come incensurabile risulta quanto affermato dalla sentenza in relazione al dedotto obbligo di risarcimento di danno patrimoniale e non patrimoniale, incluso il danno per la mancata integrale disponibilità delle somme.

Con il terzo mezzo di impugnazione il ricorrente, denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 Cost., degli artt. 1218 e 1223 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 18 oltre che insufficiente e contraddittoria motivazione, lamenta che la Corte d’appello abbia erroneamente negato la ricorrenza del nesso causale tra l’inadempimento della BNL al risarcimento retributivo e il mutuo stipulato dal S..

Più in dettaglio, il ricorrente censura la sentenza per aver ritenuto che la stipulazione del mutuo per l’ammontare di L. 190.00.000 nell’aprile 2001 non fosse la conseguenza del ritardo della BNL nell’adempimento degli obblighi, senza considerare che il risarcimento retributivo dovuto per il licenziamento illegittimo “soddisfa per definizione esigenze alimentari del lavoratore”. E deduce a sostegno che, se il lavoratore rimane privo di introiti per sei anni dal 1988 al 1994 e di due terzi del risarcimento dovutogli per altri nove anni dal 1994 al 2003, deve ritenersi per certo il nesso di causalità tra il licenziamento illegittimo e il ritardo del risarcimento e l’accensione di un mutuo nel 2001 dopo ben 13 anni di mancata disponibilità di due terzi della retribuzione, che non può essere compensata dalla reintegrazione in servizio del 1999 e dai pagamenti precedenti e successivi.

E pertanto, conclude che la sentenza viola palesemente l’art. 36 Cost. e l’art. 18 quando nega il nesso causale tra il ritardo nell’adempimento e l’accensione del mutuo e risulta per le stesse ragioni affetta da un vizio gravissimo di insufficienza e contraddittorietà della motivazione.

Ma, come ha ritenuto la sentenza di appello sulla base di una motivazione esauriente e coerente, “il mutuo venne acceso dal S. in data 20 aprile 2001 allorchè il medesimo era già stato reintegrato in servizio (da marzo 1999) e percepiva regolarmente la retribuzione (che, d’altra parte quale retribuzione globale di fatto, in ragione di lire 2.493.525 lorde mensili percepiva già dal giugno 1994) sicchè la necessità di ricorrere al mutuo non è in alcun modo ricollegabile, con nesso di causalità, all’assunta mancata percezione di reddito”, e non rileva sotto questo profilo che il S. abbia ottenuto solo nel dicembre 2003 l’integrale risarcimento retributivo.

Si tratta di argomentazioni e valutazioni di merito che non possono essere censurate nel giudizio di legittimità e che si sottraggono ad ogni censura di vizio della motivazione anche in relazione al disposto dell’art. 36 Cost., in mancanza di elementi che, in concreto, ne facciano supporre una incidenza sulla determinazione assunta dal S..

Con il quarto mezzo di impugnazione si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost., della L. n. 300 del 1970, art. 18 degli artt. 1218 e 1223 c.c. e degli artt. 61 e 115 c.p.c., in cui sarebbe incorsa la sentenza per aver negato il nesso causale tra gli inadempimenti della BNL e la patologia del ricorrente, senza ammettere la richiesta c.t.u., oltre alla insufficiente motivazione sul punto. In particolare, il ricorrente evidenzia come fosse stato licenziato illegittimamente nel 1998 con gravi accuse, ritenute infondate nei tre gradi di giudizio; e, come, nonostante l’ordine di reintegrazione del 1994, nel 1998 non fosse ancora stato reintegrato in servizio.

Non poteva essere condivisa – sempre secondo il ricorrente – l’affermazione della sentenza, secondo la quale il nesso causale, tra l’asserito torto commesso dalla Banca e il danno subito, era da escludere quando nel 1998 egli aveva superato il doppio grado del giudizio di merito e percepito parte di quanto dovuto, e dal 1998 aveva subito e continuava a subire una decennale mortificazione per l’ingiusta estromissione dal posto di lavoro, motivata da gravi accuse; la sentenza di appello avrebbe, cioè, ridotto la materia del contendere ad una questione economica, mentre la statuizione nell’ordine di reintegrazione, ex art. 18, indica l’opposto, in considerazione dei beni personali lesi dall’ingiusto licenziamento; in ogni caso, la Corte d’appello avrebbe violato il disposto degli artt. 61 e 115 c.p.c. per avere, senza alcuna motivazione, negato la richiesta c.t.u..

Il motivo è privo di fondamento alla luce delle considerazioni poste a base del rigetto del primo ordine di censure sopra esaminato.

Analogamente va rigettato il quinto motivo con cui si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 e degli artt. 1218 e 2043 c.c., per avere l’impugnata sentenza erroneamente affermato che la responsabilità per licenziamento illegittimo e da inottemperanza all’ordine di reintegrazione sarebbe di natura aquiliana ex art. 2043 c.c., con la necessità di provare un atteggiamento, doloso o colposo, del datore di lavoro. Trattasi, infatti, di un argomento che non incide sulla valutazione della sentenza impugnata, che ha ritenuto, con corretta motivazione, che il comportamento della Banca non aveva cagionato al S. un danno biologico ed esistenziale.

Non ravvisandosi nell’iter argomentativo della impugnata decisione le violazioni ed i vizi denunciati dal ricorrente, ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi ed in Euro 10.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 10 aprile 2013.

Redazione