L’avvocato radiato non ha diritto alle attenuanti ottenute nel patteggiamento (Cass. n. 18701/2012)

Redazione 31/10/12
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Svolgimento del processo

1. Con delibera 21 luglio 2011, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bologna dispose la radiazione dell’avv. C. B. per aver sottratto dalla cancelleria, alterato e tentato di sopprimere un atto giudiziario (verbale di udienza civile), e di aver artefatto una sentenza della corte bolognese.
2. Il Consiglio Nazionale Forense, davanti al quale la B. impugnò la predetta delibera, ha respinto il ricorso, rilevando che i fatti contestati — ammessi e in ogni caso accertati dalla sentenza penale di applicazione della pena su richiesta — erano pacifici, e, quanto al trattamento sanzionatorio, ponendo l’accento sull’assoluta gravità degli stessi, stante l’infondatezza di tutte le considerazioni attenuatrici della responsabilità, svolte dalla ricorrente con riferimento alla sua situazione personale.
3. Per la cassazione di questa decisione, notificata il 27 marzo 2012, ricorre la dottoressa B. con atto notificato il 6 aprile 2012, per tre motivi.

 

Ragioni in fatto e in diritto della decisione

4. Con il primo motivo di ricorso, la dottoressa B. denuncia la violazione degli artt. 444 e 445, comma 1 bis c.p.p. per non aver ritenuto vincolante la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, anche sul piano della valutazione dei requisiti soggettivi ai fini dei benefici e dei trattamenti (attenuanti generiche, regime della continuazione, sospensione condizionale nella previsione che non vi sarebbe stata recidiva).
4.1. Il motivo è infondato. A norma degli artt. 445, comma 1 bis e 653 c.p.p., come modificati dalla legge 27 marzo 2001, n. 97, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (patteggiamento) ha efficacia di giudicato – nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità, e quindi anche in quelli che riguardano gli avvocati — quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato l’ha commesso (Cass. Sez. un. 9 aprile 2008 n. 9166). La sentenza medesima non ha invece alcuna efficacia in ordine alla valutazione dei fatti e della personalità dell’attore dell’illecito sotto il profilo disciplinare, essendo tale valutazione riservata al giudice disciplinare. Coerentemente con il principio appena enunciato, l’art. 5 del Codice deontologico forense (approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 17 aprile 1997 e successivamente più volte modificato), nel prevedere la sottoposizione a procedimento disciplinare dell’avvocato cui sia imputabile un comportamento non colposo che abbia violato la legge penale, fa salva ogni autonoma valutazione sul fatto commesso. Nella fattispecie, il Consiglio nazionale forense ha correttamente valutato in piena autonomia il comportamento dell’incolpata, giudicandone l’offensività in relazione ai “principi supremi di giustizia e lealtà processuale”, alla “dignità, prestigio e decoro” della stessa professionista, e della collega coinvolta nella produzione in giudizio della sentenza falsa, alla lealtà dovuta nel confronti degli altri professionisti (collega codifensore e difensore di controparte), e al “decoro, dignità e correttezza” dell’intera classe professionale. Si tratta di valutazioni attinenti a valori diversi dai beni protetti dalle norme applicate nel giudizio penale, e che non possono pertanto essere censurate con il richiamo a quelle che, sotto profili e a effetti diversi, sono ricavabili dalle statuizioni della sentenza penale.
5. Con il secondo motivo si lamenta l’omessa considerazione delle deduzioni fatte in ordine alla modesta offensività della condotta.
5.1. Il motivo, da ricondurre alla censura per vizio di motivazione, è in larga parte assorbito dalle considerazioni già fatte a proposito del motivo precedente. Sotto il profilo della motivazione è sufficiente osservare che la decisione impugnata contiene una puntuale illustrazione delle ragioni “poste a fondamento della ritenuta gravità del comportamento” dell’incolpata, e soddisfa pertanto il precetto contenuto nell’art. 111 Cost.
Il vizio di motivazione deducibile in via d’impugnazione delle decisioni del Consiglio nazionale forense, perché sia censurabile a norma della norma appena citata, deve tradursi in omissioni, lacune o contraddizioni incidenti su punti decisivi, dedotti dalle parti o rilevabili d’ufficio (Cass. Sez. un. 4 febbraio 2009 n. 2637), e non può consistere nella contrapposizione agli argomenti valorizzati dal giudice disciplinare di elementi diversi, che giustificherebbero un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché alla Corte di Cassazione non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento (Cass. Sez. un. 11 giugno 1998 n. 5802).
6. Con il terzo motivo si denuncia l’errore di diritto commesso equivocando sul rapporto di gravità tra radiazione e cancellazione. Si censura l’affermazione del giudice disciplinare, che la radiazione assume nei fatti il connotato di sanzione meno grave della cancellazione dall’albo, dal momento che consentirebbe al professionista una reinscrizione all’albo professionale; e si richiama la giurisprudenza di questa corte, per la quale la reinscrizione nell’albo, nel caso della cancellazione, è possibile anche prima del decorso del termine di cinque anni richiesto nel caso della radiazione, che e sanzione più grave. Se ne deduce che sarebbe ingiustificata l’irrogazione della sanzione della radiazione a carico dell’avv. B. sul presupposto di una sua minore gravità rispetto alla cancellazione.
6.1. Il motivo, erroneamente rubricato anche come “violazione e falsa applicazione” della legge n. 17 febbraio 1971 n. 91 (ma il giudice disciplinare non ha fatto applicazione di quella legge, né in particolare doveva decidere sul termine per la reinscrizione dell’avvocato all’albo), è apprezzabile solo sotto il profilo del vizio di motivazione. Esso è infondato.
E’ vero, infatti, che la decisione è incorsa in un errore di diritto, affermando che la radiazione produrrebbe, di fatto, conseguenze meno gravi della cancellazione, perché non impedisce la reinscrizione nell’albo. Ma, l’errore non ha avuto alcuna incidenza sulla decisione. Il giudice disciplinare, infatti, ha inteso applicare la sanzione più grave, e nella stessa affermazione censurata mostra di essere ben consapevole del fatto che la radiazione “in linea di diritto rappresenta la più grave delle sanzioni”. Di tale decisione il testo del provvedimento offre una diffusa motivazione. Valutando tutti i fatti oggetto d’incolpazione, il Consiglio nazionale li giudica,infatti, altamente indicativi della protervia con la quale l’incolpata aveva perseguito le sue finalità, e dimostrativi della fermezza e persistenza della sua “volontà delinquenziale”; osserva che le condotte contestate avevano avuto per oggetto la violazione del “principi supremi di giustizia e lealtà processuale”, e ne deduce che esse devono pertanto essere considerate “massimamente gravi”. L’applicazione della più grave delle sanzioni, in base a queste premesse, era dunque certamente “adeguata”, e sulla volontà del giudice disciplinare di confermare l’applicabilità della radiazione quale sanzione più grave, come sulle ragioni di tale convincimento non possono esservi dubbi. L’affermazione censurata non costituiva la ragione della scelta della sanzione, dell’irrogazione, e laddove ricorda che la radiazione non esclude la reinscrizione nell’albo non è neppure sbagliata, l’errore di diritto commesso essendo costituito piuttosto all’assunto che la cancellazione — pur riconosciuta sanzione meno grave “in linea di diritto” — non consentirebbe la reinscrizione nell’albo, laddove essa la consente, e non esige neppure il decorso di un termine minimo (che è tuttavia apprezzabile autonomamente sotto il profilo della condotta specchiatissima e illibata Cass. Sez. un. 12 maggio 2008 n. 11653). L’errore di diritto deve dunque essere corretto da questa corte, in applicazione dell’art. 384 ult. co., ma non giustificherebbe la cassazione, chiara e ben motivata essendo la decisione del giudice disciplinare di irrogare la sanzione più grave, ed essendo la decisione medesima in sé immune da censure di legittimità.
7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

 

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso
Così deciso a Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite della Corte suprema di cassazione, il giorno 9 ottobre 2012.

Redazione