L’accettazione della lettera di licenziamento non vale come acquiescenza (Cass. n. 18731/2013)

Redazione 06/08/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza del 31.12.2010, la Corte di Appello di Catanzaro, in parziale riforma della decisione impugnata, condannava la società Alfa computer a r.l. al pagamento della somma di Euro 29651,58, confermando nel resto la pronunzia di primo grado che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato a ******* e condannato il datore di lavoro al risarcimento dei danni ed al pagamento di Euro 808,80 a titolo di differenze retributive.

Rilevava la Corte territoriale che non poteva trovare accoglimento la domanda relativa al riconoscimento di lavoro straordinario, laddove doveva essere accolto il motivo di gravame che aveva evidenziato l’erronea indicazione della somma dovuta a titolo di differenze retributive, calcolate dal c.t.u. in Euro 29.651,58. Quanto all’appello incidentale della società, rilevava che non poteva ritenersi che il F. avesse prestato acquiescenza al licenziamento, che le buste paga non risultavano sottoscritte per quietanza e che il livello contrattuale era consono alle mansioni espletate. In relazione all’attività concorrenziale asseritamente svolta dal lavoratore, osservava che l’obbligo di non concorrenza aveva vigore solo per la durata del rapporto e che, qualora volesse estendersi lo stesso a periodo successivo, era necessaria apposita pattuizione ai sensi dell’art. 2125 c.c., nella specie non sussistente. Aggiungeva che non era stata provata l’attività concorrenziale in corso di rapporto.

Per la cassazione della decisione ricorre la società, con unico motivo di impugnazione.

Il F. è rimasto intimato.

Motivi della decisione

La Alfa Computer s.r.l. denunzia violazione degli artt. 112 e 116 c.p.c., e dell’art. 1372 c.c., ai sensi dell’ari, art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, rilevando che giudice del gravame aveva erroneamente ritenuto che l’accettazione della lettera di recesso fosse una mera ricevuta, laddove la fattispecie concretava una risoluzione consensuale ex art. 1372 c.c.. Richiama il contenuto di un accordo intercorso tra le parti inteso a fare cessare apparentemente il rapporto per riduzione di personale, al fine di consentire al lavoratore di fruire dell’indennità sostitutiva del preavviso e di altri benefici, mentre nella sostanza si era convenuto di porre fine ad una collaborazione per avere il lavoratore posto in essere un’attività concorrenziale.

Il thema decidendum non era, pertanto, quello della valenza della accettazione della lettera di licenziamento, ma quello della qualificazione della fattispecie quale risoluzione per mutuo consenso. Evidenzia che il lavoratore, in sede di interrogatorio libero, aveva ammesso di avere svolto l’attività di installatore in proprio e che ciò avrebbe legittimato la società ad agire nei suoi confronti, ma che a tale conseguenza non si era pervenuti perchè le parti avevano stabilito di dar luogo solo apparentemente ad un recesso ed alla sua accettazione. La deposizione del teste P. e del ragioniere **. avevano confortato tale ricostruzione, non considerata, invece, adeguatamente nella qualificazione giuridica data alla fattispecie dal giudice, il quale aveva omesso di considerare quanto confessato dal lavoratore in sede di interrogatorio.

Il ricorso è infondato.

Deve osservarsi che la decisione si fonda non solo sulla valenza da conferire alla accettazione della lettera di licenziamento, quanto anche sulla valutazione delle prove acquisite attraverso l’istruttoria orale, che avrebbero fatto emergere l’insussistenza di ogni attività concorrenziale da parte del F. in corso di rapporto, non potendo assumere rilievo, in mancanza di pattuizione tra le parti, quella eventualmente posta in essere nel periodo successivo alla conclusione del rapporto lavorativo. La censura che mira a sostenere la esistenza di una risoluzione per mutuo consenso attraverso il richiamo di deposizioni testimoniali ulteriori che avrebbero confortato l’esistenza di un accordo nel,, senso anzidetto non scalfisce l’impianto motivazionale della decisione impugnata, che si fonda, oltre che sul significato della accettazione da parte del F. della lettera di licenziamento, anche sulla non ravvisabilità di una condotta concorrenziale del predetto, la cui sussistenza avrebbe potuto giustificare la volontà del lavoratore di accettare un licenziamento che nella sostanza si sovrapponesse solo formalmente ad un patto solutorio intervenuto tra le parti.

D’altronde, non emerge che l’appellante incidentale abbia censurato la decisione di primo grado sotto il profilo evidenziato nella presente sede, e non può la ricorrente dolersi del fatto che alcune delle circostanze indicate in ricorso non risultino vagliate dal giudice del gravame, il quale aveva ritenuto assorbente quanto dichiarato dai testi escussi per escludere il comportamento concorrenziale dedotto a giustificazione della cessazione concordata del rapporto.

Nell’ipotesi di controversia in ordine al “quomodo” della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o risoluzione per mutuo consenso) si impone una indagine accurata da parte del giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all’esigenza di rispettare non solo l’art. 2697 c.c., comma 1, relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore, ma anche il comma 2, che pone a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte; regola che risulterebbe violata nel caso di rigetto della domanda basato in sostanza sulla valorizzazione dell’ipotesi di mutuo consenso, privilegiata solo per la ritenuta insufficienza della prova del licenziamento (cfr. Cass. 19.10.2011 n. 21684).

Peraltro, sotto il profilo della valutazione del vizio motivazionale della sentenza impugnata pure dedotto, è sufficiente osservare che, in tema di giudizio di cassazione, la deduzione dello stesso conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).

Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base (v., tra le tante, Cass. 9368/2006, Cass. 2272/2007, Cass. 23218/2006, Cass. 21826/2004, Cass. 15355/2004). Non è questo quanto verificatosi nella specie, in cui la doglianza mira a valorizzare il contenuto di deposizioni che vertono sulla volontà delle parti di addivenire ad un accordo caducatorio del rapporto, che, tuttavia, risulta superato dalla ritenuta insussistenza dei presupposti fattuali che ne avrebbero legittimato l’adozione, e dal dato formale della lettera di licenziamento ritenuta accettata per ricevuta e non come acquiescenza al recesso datoriale.

Alle esposte considerazioni consegue il rigetto del ricorso.

Nulla va statuito sulle spese di lite del presente giudizio, atteso che il F. è rimasto intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 4 giugno 2013.

Redazione