Fallimento dell’Agenzia Corona’s: l’imputato era consapevole di commettere irregolarità e, quindi, in malafede (Cass. pen. n. 23772/2013)

Redazione 31/05/13
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Ritenuto in fatto

1. C.F.M., giudicato con rito abbreviato, fu condannato dal GUP presso il tribunale di Milano, con sentenza 24 aprile 2011, alla pena di giustizia, in quanto riconosciuto colpevole dei delitti di cui agli articoli 81 cpv, cp e 2 decreto legislativo 74/2000, nonché di cui agli articoli 223-216 comma primo nn. 1 e 2 e 219 LF (bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale), in relazione al fallimento della S.r.l. Corona’s, dichiarato con sentenza (omissis).
2. La corte d’appello di Milano, con la sentenza di cui in epigrafe, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha assolto C. dall’addebito di natura fiscale perché il fatto non sussiste; ha confermato nel resto la pronuncia di primo grado, rideterminando la pena in quella di anni 3 e mesi 10 di reclusione, oltre pena accessoria, ribadendo la condanna al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, Agenzia delle entrate, e liquidando, in favore della stessa, la somma di Euro 1.800,00 quale rimborso per le spese sostenute per costituzione e difesa nel secondo grado di giudizio.
3. Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato e deduce cinque censure.
4. Prima censura: erronea applicazione della legge penale, in particolare dell’articolo 223, in relazione all’articolo 216 e all’articolo 219 LF, con specifico riferimento all’addebito di bancarotta documentale.
Secondo il capo di accusa, il C. avrebbe sottratto e/o distrutto, in tutto in parte, la documentazione contabile della società o, comunque, l’avrebbe tenuta in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. In merito a tale addebito, la corte d’appello si è sostanzialmente rifatta alla motivazione della sentenza di primo grado, integrandola, tuttavia, come essa stessa scrive, con altre considerazioni. Ne scaturisce una motivazione oggettivamente contraddittoria. Invero il GUP, da un lato, ha affermato che era impossibile la ricostruzione del movimento degli affari, dall’altro, ha sostenuto che detta ricostruzione è stata effettuata sulla base della documentazione bancaria sequestrata dalla polizia giudiziaria e consegnata al curatore. Non si comprende – allora – se detta ricostruzione sia stata possibile oppure no. La sentenza di primo grado esplicitamente afferma che il curatore ha potuto compiere una ricostruzione analitica sulla base della predetta documentazione. Secondo la corte d’appello, poi, la contabilità sarebbe stata tenuta con modalità non solo irregolari, ma anche in maniera confusa, approssimativa e illecita, in quanto non sarebbero state contabilizzate alcune operazioni, atteso che esse sarebbero state compiute “in nero”. Ebbene, la più recente giurisprudenza ha ritenuto che, perché possa parlarsi di bancarotta fraudolenta documentale, deve essere effettivamente impossibile la ricostruzione del giro d’affari e del patrimonio del fallito, ovvero detta ricostruzione deve essere frutto di una tecnica particolarmente raffinata, posta in esecuzione dagli interpreti, in un momento successivo al fallimento. Tale non è il caso in esame, anche in considerazione di quanto la stessa sentenza d’appello attesta, vale a dire che parte della documentazione fiscale fu depositata dal ragionier L. . Anche sulla base di tale documentazione, di fatto, è stata possibile la ricostruzione della contabilità. Sembra quindi evidente che i giudici di merito confondono la impossibilità di ricostruire il patrimonio, con la non immediatezza della ricostruzione stessa; tale seconda ipotesi è quella che si è verificata nel caso di specie e, peraltro, il ritardo non è neanche addebitarle all’imputato, ma ai professionisti (commercialisti) che con lui collaboravano. Quanto al fatto che alcune operazioni sarebbero state compiute “in nero”, nonostante quel che si legge sentenza, C. non ha mai ammesso ciò. In sintesi, il curatore si è semplicemente lamentato delle difficoltà di reperimento della documentazione societaria e contabile, ma non ha mai affermato che la ricostruzione del patrimonio e del giro d’affari fosse impossibile.
Peraltro, la corte d’appello sostiene che, anche quando la tenuta della contabilità è demandata a professionisti esterni, l’amministratore, non per questo, va esente da responsabilità in caso di irregolari o manchevoli annotazioni, in quanto egli deve – comunque – vigilare. Il principio, nella sua astrattezza, è condivisibile, ma l’imputato deve essere stato nella condizione obiettiva di esercitare tale attività di vigilanza. Ciò è quello che, nel caso in esame, non è stato possibile in quanto C. , per tutt’altre vicende, è stato detenuto per un considerevole periodo di tempo.
Tutte tali considerazioni furono rappresentate a entrambi i giudici di merito, anche allo scopo di prospettare l’alternativa ipotesi della bancarotta documentale semplice, ipotesi che è stata arbitrariamente scartata sia dal giudice di primo, che da quello di secondo grado.
5. Seconda censura: illogicità e contraddittorietà della motivazione con riferimento alle pretese condotte distrattive. Invero:
a) quanto alla registrazione del marchio “I Corona’s”, le due sentenze si contraddicono, in quanto, in primo grado, si afferma che il marchio sarebbe stato ceduto gratuitamente alla S.r.l. ******; in secondo grado si adombra l’ipotesi della dissipazione, sostenendosi che il marchio non fu ceduto ma fu direttamente assunto dalla ****** e tuttavia le spese per la sua elaborazione e registrazione furono sostenute dalla S.r.l. ******. Si tratta di due ipotesi accusatorie completamente diverse e che mal si conciliano; per cui l’intento enunciato dal secondo giudice di voler confermare integralmente, sul punto, la pronuncia di primo grado è oggettivamente e intrinsecamente contraddittorio.
Peraltro si è verificata anche la nullità di cui agli articoli 521-522 cpp, in quanto non sussiste più la correlazione tra la contestazione e la sentenza. Né può sostenersi che la condotta sia comunque stata descritta nel capo d’imputazione, in quanto una cosa è cedere, senza corrispettivo, il marchio, altro è dissipare i fondi necessari per la elaborazione e la registrazione di un marchio, di cui altri si approprierà. È evidente che la linea difensiva, in un caso e nell’altro, non potrà che essere differente;
b) quanto alla distrazione della somma di Euro 1.071.736 in favore della S.r.l. ******, di nuovo si riscontra contraddizione tra la motivazione della sentenza di primo grado e quella di secondo grado. Per il GUP, la S.r.l. Corona’s avrebbe stipulato contratti, avrebbe svolto attività in virtù di detti contratti, non avrebbe però poi incassato i corrispettivi, che viceversa sarebbero stati incassati dalla ******. Per la corte d’appello, invece, detti contratti non sarebbero mai stati stipulati, ma la S.r.l. ****** avrebbe usufruito della clientela e dell’avviamento della S.r.l. Corona’s, senza corrispondere alcunché alla predetta. Vi sarebbe dunque stato, secondo i giudici d’appello, lo sviamento della clientela e/o dell’avviamento. Al proposito, si osserva che, mentre la clientela non può essere oggetto di distrazione, perché essa non rappresenta un bene giuridicamente ed economicamente valutabile, ma una mera aspettativa, l’avviamento, secondo la recente giurisprudenza, neanche può essere oggetto di distrazione o dispersione, in quanto non facente parte del patrimonio materiale dell’imprenditore.
c) quanto alle ipotesi distrattattive individuate nel pagamenti a favore di soggetti giuridici diversi: c/1) per quanto riguarda la somma di Euro 50.000 in favore della Carlo’s, si trattò del pagamento alla ex moglie del C. per compensi che le spettavano per l’attività professionale svolta. Arbitrariamente la corte d’appello sostiene che tale affermazione non è riscontrata, mentre, già in primo grado, si dimostrò documentalmente il contrario. E il fatto che in contabilità non sia stato inserito tale pagamento non può, di per sé, rendere non credibili le affermazioni della M. (ex coniuge dell’imputato), c/2) per quel che riguarda le pretese distrazioni in favore di S.r.l. HDI ed S.r.l. L&B, anche in questo caso i giudici di merito si pongono in contrasto con le risultanze processuali, in quanto è rimasto provato che le due società erano fornitrici della Corona’s e, a fronte di tali dati oggettivi, non si comprende la posizione dei giudicanti, c/3) per quel che riguarda la somma di 280.000 Euro, prelevata dai conti della fallita, ancora una volta la giustificazione risulta dai dati oggettivi e documentali, vale a dire dai “mastrini” relativi all’anno 2007 e dal bilancio del 2006, dai quali si evince che le somme furono regolarmente percepite dall’amministratore, c/4) per quel che riguarda la pretesa distrazione dell’autovettura Smart, ancora una volta, la motivazione è illogica, in quanto, nel momento in cui si sarebbe verificata la pretesa distrazione, l’auto non era più nella disponibilità della S.r.l., essendo stato risolto dal contratto di leasing. Peraltro, sostenere che l’uso dell’autovettura non sia inerente all’oggetto sociale è una pura assurdità.
6. Terza censura: illogicità e contraddittorietà della motivazione quanto all’elemento psicologico del delitto di bancarotta per distrazione; invero la sentenza motiva in maniera del tutto apodittica, limitandosi ad affermare che è sufficiente il dolo generico. Tale acquisizione non è ignota alla difesa, essendo consolidato il principio in base al quale è sufficiente la consapevolezza e la volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa, rispetto alle finalità dell’impresa, ovvero di compiere atti che possano cagionare danno ai creditori. Ma è proprio su tale consapevolezza e sulla corrispondente volontà da parte dell’imputato che la corte non motiva, dando per scontati entrambi tali elementi. Peraltro viene completamente ignorato il fatto, già anticipato, che il ricorrente fu detenuto per la cosiddetta “Vallettopoli”, proprio nel periodo di interesse.
7. Quarta e quinta censura, inerenti al trattamento sanzionatorio, atteso il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’articolo 62 numero 6 cp e la mancata prevalenza delle già concesse attenuanti generiche.
Invero, il C. pose a disposizione la somma di Euro 1.373.815,60 e prestò il proprio assenso all’erogazione in favore della procedura fallimentare dell’ulteriore somma di Euro 200.000. Si chiarì poi che il danno vantato dall’Agenzia delle entrate poteva essere solo quello di natura morale. La scelta di destinare l’intera somma alla curatela fallimentare, che ha poi conseguentemente revocato la costituzione di parte civile, non può essere addebitata al ricorrente, al quale -tuttavia- i giudici di merito rimproverano di non aver offerto nulla alla predetta Agenzia. Sta di fatto, viceversa, che il C. ha fatto quanto possibile per risarcire il preteso danno e ciò, in base alla recente giurisprudenza di legittimità, è quanto basta per meritare l’attenuante in questione, poiché essa ha natura soggettiva e deve ritenersi sufficientemente integrata quando l’imputato abbia comunque reso una tangibile manifestazione di ravvedimento in favore del danneggiato.
Discorso non dissimile va fatto per l’attenuante di cui all’articolo 62 bis cp e alla non corretta applicazione dell’articolo 69 dello stesso codice. Per negare la prevalenza delle attenuanti generiche, i giudici di secondo grado fanno riferimento a pretese giacenze finanziarie del C. all’estero. Di ciò però non vi è alcuna traccia in atti e gli unici fondi esteri consistono in quelli depositati presso le banche di San Marino, il cui rientro è stato oggettivamente facilitato dal C. . In sintesi, l’imputato ha tenuto una condotta processuale corretta e una condotta extra processuale concretamente riparatoria, che avrebbero meritato una ben più benevola considerazione da parte dei giudici del merito.

Considerato in diritto

1. La prima censura è inammissibile per manifesta infondatezza.
1.1. Va innanzitutto premesso, che, come la sentenza di secondo grado non manca di evidenziare, lo stesso C. ha ammesso di avere emesso fatture “gonfiate” o addirittura per operazioni inesistenti. Ne consegue, inevitabilmente, che le annotazioni contabili non possono che essere rimaste alterate da tale condotta, in quanto, evidentemente, esse si riferiscono a importi non veritieri, o perché completamente simulati, o perché comunque indicati in misura maggiore rispetto a quella reale. Se a ciò si aggiunge il fatto che la stessa sentenza afferma che il C. ha ammesso di avere a volte operato “in nero”, ne consegue, ulteriormente, che le annotazioni contabili certamente non rispecchiano la realtà degli acquisti, delle vendite e comunque dei movimenti finanziari relativi alla S.r.l.. È vero che, nel ricorso, si sostiene che C. non ha mai ammesso di aver eseguito tal tipo di operazioni, ma l’assunto è contraddetto da quanto si legge in sentenza e precisamente all’ultimo rigo di fol. 9. Al proposito, non può certamente bastare la generica smentita affidata alla pur autorevole penna del difensore.
1.2, D’altra parte, anche S.M. (che ha definito la sua posizione ai sensi dell’articolo 444 cpp) ebbe a dichiarare (cfr. fol 4 della sentenza di secondo grado) che il C. gli chiedeva spesso di influire sulle fatturazioni, esigendo poi la restituzione del 30% della somma. Tal tipo di operazioni il *********, in questo confortato dalle dichiarazioni di tal F.E. , afferma aver costituito il 90% delle transazioni commerciali avute con il C. . D’altra parte, i giudici di appello non hanno mancato di evidenziare che l’imputato non fece mai pervenire al curatore neanche l’elenco completo dei debitori e dei creditori della società (cfr. fol. 9). Cosa certa è che il curatore non ebbe a disposizione se non parte trascurabile della documentazione contabile e dei libri. Il fatto che, nel corso del procedimento, il ragionier L. abbia poi consegnato alcune scritture e che, comunque, il curatore, principalmente sulla base della documentazione bancaria recuperata dalla Guardia di Finanza, sia riuscito a ricostruire approssimativamente la consistenza patrimoniale della S.r.l. e il suo giro d’affari, certamente non vale a far ritenere insussistente il delitto contestato. Ciò si dice, sia perché lo stesso curatore nella sua relazione afferma di aver, con approssimazione, ricostruito gli eventi contabili della S.r.l. (egli scrive di una ricostruzione “il più possibile precisa” cfr. ricorso fol. 3), sia perché costituisce giurisprudenza costante di questa sezione (da ultimo ASN 201021588-RV 24796S) il principio in base al quale sussiste il reato di bancarotta fraudolenta documentale non solo quando la ricostruzione del patrimonio si renda impossibile per il modo in cui le scritture contabili sono state tenute, ma anche quando gli accertamenti, da parte degli organi fallimentari, siano stati ostacolati da difficoltà superabili solo con particolare diligenza.
1.3. Che poi non si possa parlare di bancarotta documentale semplice deriva dalle stesse modalità con le quali le alterazioni, ovvero le omissioni contabili, sono state portate a esecuzione, in quanto, come correttamente osservano i giudici di secondo grado, il ricorso a operazioni “in nero” e a operazioni fittizie – rispecchiate da fatture per operazioni inesistenti – sta chiaramente a provare la malafede dell’agente e la sua piena consapevolezza della irregolarità, formale e sostanziale, della sua condotta.
2. Per quel che riguarda la cosiddetta distrazione del marchio (seconda censura sub a), va innanzitutto premesso che il giudice d’appello, in ragione del principio devolutivo, ben può conoscere della condotta dell’imputato nella sua materialità, secondo quanto prospettato nei motivi di impugnazione ed è certamente libero di ricondurre detta condotta a una diversa fattispecie incriminatrice, salvo il limite del divieto della reformatiio in pejus.
In proposito comunque la corte d’appello rileva che La Fenice certamente non avrebbe potuto correttamente registrare a suo nome un marchio prima della sua stessa costituzione. Secondo la teste Ma. , poi, C. registrò il marchio a suo nome. Resta il fatto, comunque, che del marchio si avvalse La Fenice, ma che le spese per la sua elaborazione e la registrazione furono sostenute da *******s.
Tale condotta è stata chiaramente contestata al ricorrente nel capo d’imputazione, nel quale si legge che la somma di Euro 65.000 fu erogata dalla società fallita, vale a dire da Corona’s alla S.r.l. Margherita. Non si è dunque verificata alcuna nullità per mancata correlazione tra contestazione condanna.
Ne consegue che tale primo aspetto della seconda censura è inammissibile per manifesta infondatezza.
3. Quanto alla seconda censura sub b), richiamando quanto detto sopra circa i poteri del giudice d’appello, va chiarito, che,come emerge dalle parole della teste Ma. , la S.r.l. La Fenice fu costituita dallo stesso C. , che ne era il reale dominus (amministratrice di diritto figurando la madre dell’Imputato), proprio allo scopo di trasferire nella nuova S.r.l. tutte le attività della vecchia società, ormai avviata verso il fallimento.
Dunque, più che di cessione della clientela e/o dell’avviamento, si deve parlare di trasferimento di tutti i beni e di tutte le attività da Corona’s a ******, come chiaramente illustrato nella sentenza d’appello a fol. 12. In pratica, secondo un collaudato schema truffaldino, nella società destinata al fallimento si sono lasciate tutte le passività, mentre i beni, le attrezzature, il know how e persino il personale sono stati trasferiti alla nuova società (S.r.l. La Fenice), “sorta dalle ceneri” della vecchia (cfr. dichiarazioni della teste Ma. , del teste B. e, in parte, dello stesso C. ).
La Fenice non aveva un suo patrimonio, tanto che non aveva neanche un archivio fotografico e le fu ceduto quello di Corona’s (teste Ma. ) e la cessione avvenne a titolo gratuito.
Dunque, anche se impropriamente si legge nella sentenza d’appello che sarebbe stato trasferito l’avviamento da una società all’altra, ciò che è stato trasferito è (certamente anche) la struttura produttiva e la forza lavoro; in altre parole S.r.l. Corona’s è stata “svuotata” a vantaggio di S.r.l. ******. Tale condotta è stata chiaramente contestata all’imputato, il quale risulta essersi difeso sul punto.
Ne consegue che tale particolare aspetto della seconda censura è infondato.
4. Per quel che riguarda le censure su c/1), c/2), c/3), la sentenza chiarisce come, a fronte di annotazioni contabili inesistenti, imprecise o di dubbia interpretazione, l’imputato abbia fornito giustificazioni oscillanti, sposando ora ****, ora l’altra versione dei fatti. A ciò la sentenza contrappone, ancora una volta, le precise dichiarazioni della Ma. , la quale ebbe ad affermare che non le risultava che mai la S.r.l. Corona’s avesse usufruito di consulenze (e quindi le avesse dovute pagare): si tratta delle distrazioni in favore di S.r.l. HDI ed S.r.l. L&B. Per quel che riguarda specificamente la distrazione la somma di Euro 50.000 in favore dell’ex coniuge del ricorrente, lo stesso C. non ha saputo chiarire se si trattava di un compenso per consulenze, non meglio precisate, o di somma erogata a fronte di un’opera di ristrutturazione di un immobile. Fatto sta, come premesso, che tutte tali operazioni non hanno riscontro contabile adeguato.
4.1. Quanto ai prelievi “diretti” per un totale di 280.000 Euro, detti prelievi saranno pure stati annotati nei relativi “mastrini”, ma sta di fatto che, come mette in evidenza la sentenza impugnata, essi non furono autorizzati, vale a dire che mancano le rispettive delibera, che non solo avrebbero potuto chiarire la legittimità dei prelievi, ma anche rendere ragione della loro consistenza. Peraltro, la sentenza della corte d’appello, a fol. 14, pone in evidenza che detti prelievi sono avvenuti a far tempo dal mese di luglio 2007, vale a dire quando l’attività della S.r.l. Corona’s era già cessata.
4.2. Quanto infine alla distrazione dell’autovettura Smart, si deve rilevare, innanzitutto, come si legge in sentenza, che l’imputato ha dichiarato che la macchina fu presa in leasing per soddisfare le esigenze di un suo amico d’infanzia. Dunque è lo stesso C. ad ammettere che l’uso della autovettura nulla aveva a che fare con le esigenze aziendali. Quanto al fatto che il contratto di leasing sarebbe stato risolto prima della distrazione della auto, sta di fatto che, non essendo state pagate le precedenti rate, la società titolare della vettura si è insinuata nel fallimento; ciò prova che, perlomeno in parte, la distrazione è avvenuta quando il bene era di pertinenza della società.
Detta censura dunque è, anch’essa, inammissibile per manifesta infondatezza.
5. La terza censura è manifestamente infondata e dunque inammissibile.
Come già anticipato, C. costituì la S.r.l. Fenice proprio allo scopo di travasare in essa beni, attività, quadri dirigenti e personale della S.r.l. Corona’s, ormai avviata al dissesto e al fallimento. Esiste dunque – ed è stato ricostruito nelle sentenze di merito – un preciso disegno di spoliazione della “vecchia” struttura produttiva. Da ciò, certo non illogicamente, i giudici di primo e secondo grado traggono ragionevolmente la conclusione della malafede dell’imputato e dunque della sua piena consapevolezza di stare operando in danno dei creditori. D’altra parte, il solo fatto di aver compiuto operazioni “in nero” e di aver simulato esborsi maggiori, con fatture “gonfiate” o per operazioni addirittura inesistenti, non può non aver comportato un’alterazione della prospettata situazione contabile, con conseguente dissimulazione di attività; il tutto non può che essersi risolto in danno dei creditori.
6. Inammissibili per manifesta infondatezza sono anche le censure relative al trattamento sanzionatorio.
Quanto al preteso risarcimento del danno in favore dell’Agenzia delle entrate, non si comprende perché detto ente avrebbe dovuto subire un danno solo di natura morale, quando, come nello stesso ricorso si mette in evidenza, l’insinuazione è avvenuta per 7 milioni di Euro. La somma messa a disposizione dal ricorrente (poco meno di Euro 1.400.000) ovviamente è risultata insufficiente per coprire i crediti vantati, tanto dalla predetta agenzia, quanto dalla curatela fallimentare.
Per quel che riguarda il giudizio di equivalenza delle già concesse attenuanti generiche, è da dire che la corte d’appello ha sufficientemente motivato In merito, principalmente con riferimento alla individuata personalità del C. .
Invero viene tracciato un quadro personologico relativo a un individuo abituato a (e convinto di poter) vivere legibus solutus e, come tale, bisognevole di adeguata risposta rieducativa, ma, innanzitutto, di reazione repressiva da parte dell’ordinamento, risposta sulla quale possa essere edificato un concreto paradigma comportamentale, tendente alla risocializzazione dell’imputato, secondo schemi e valori di inequivoca valenza costituzionale.
7. Conclusivamente il ricorso merita rigetto e il ricorrente va condannato le spese del grado; lo stesso va anche condannato al ristoro delle spese sostenute in questa fase di giudizio dalla parte civile, spese che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, liquidate in complessivi Euro 1.800, oltre accessori come per legge.

Redazione