Diffamazione a mezzo stampa: la Suprema Corte ha condannato tanto l’intervistato, quanto l’intervistatore per le domande poste in modo allusivo (Cass. n. 15112/2013)

Redazione 17/06/13
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Svolgimento del processo

1. Per il carattere diffamatorio un articolo – sotto forma di intervista – pubblicato il (omissis) sul settimanale “(omissis)” ed il (omissis) sul quotidiano “(omissis)”, dai rispettivi titoli “Guarda quanto sono civili quelli del Pool” e ” B. ed i suoi amici, giudici e parti in causa, lavano le offese con un mucchio di bigliettoni”, i magistrati B.F.S., Bo.Il., D.P., C.G. e G.F. convennero dinanzi al tribunale di Milano l’intervistato prof. V.R., l’intervistatore M.A. e le rispettive editrici Arnoldo Mondadori Editore spa e la “srl il Foglio Quotidiano”, per sentirli condannare al risarcimento dei danni da loro patiti per la ritenuta diffamazione.

In sostanza ed in estrema sintesi, nel detto articolo si prospettava – tra l’altro – una massiccia “campagna risarcitoria” degli attori, che avevano scelto, sia pure esercitando una legittima facoltà (consentita da una norma inopportuna, tanto da essere significativamente modificata di lì a poco), di agire in sede civile – e per di più dinanzi ad una particolare sede giudiziaria piuttosto che ad altra, prospettata come più sensibile alle tesi dei medesimi attori – per conseguire cospicui risarcimenti pecuniari per le pretese diffamazioni quanto al loro operato quali pubblici ministeri in procedimenti penali – di grande rilevanza mediatica – il cui esito avrebbe influenzato l’accoglimento delle medesime domande risarcitorie, generando il sospetto di aver piegato ad un interesse privato l’esercizio della loro pubblica funzione.

Il tribunale di Milano – con sentenza 21.11.02, n. 14180 dichiarò i convenuti responsabili della prospettata diffamazione a mezzo stampa e li condannò al risarcimento del danno morale subito dagli attori, quantificandolo in totali Euro 25.000 (oltre interessi legali dalla sentenza al saldo), nonchè alla riparazione pecuniaria di Euro 2.500 ex lege n. 47 del 1948 (oltre interessi legali dalla sentenza al saldo) ed alla pubblicazione del dispositivo della sentenza sul settimanale e sul quotidiano suddetti, abilitando gli attori a provvedervi, in caso di inottemperanza, a loro cura e con diritto alla ripetizione delle spese.

Per gli stessi fatti il V. ed il M., su querela degli attori, erano stati in primo grado condannati per il delitto di diffamazione dal tribunale di Brescia, competente ai sensi dell’art. 11 cod. proc. pen..

Impugnò la sentenza del tribunale ambrosiano il V., al quale, resistendo gli attori in primo grado, seguì pure l’incidentale gravame del M. e della Arnoldo Mondadori Editore spa: ma, nelle more assolti in secondo grado gli imputati dal reato di diffamazione per il ritenuto esercizio del diritto di critica, la corte di appello del capoluogo lombardo respinse l’uno e l’altro gravame, condannando gli appellanti alle spese del grado, con sentenza 5.7.06, n. 1739.

Per la cassazione di quest’ultima ricorre il V., affidandosi a cinque motivi; resistono con controricorso il B., la Bo., il D., il C. e il G.; dispiegano, con ulteriore controricorso, ricorso incidentale – articolato anch’esso su cinque motivi – il M. e la Arnoldo Mondadori Editore spa (d’ora innanzi, per brevità, anche solo “Mondadori”). E, per la pubblica udienza del 29.5.13, tutte le parti depositano memorie ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione

2. In via preliminare, i due ricorsi, siccome proposti contro la medesima sentenza, vanno riuniti, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ..

Ciò posto, va premesso che, essendo la sentenza impugnata stata pubblicata tra il 2.3.06 ed il 4.7.09, alla fattispecie continua ad applicarsi, nonostante la sua abrogazione (ed in virtù della disciplina transitoria di cui alla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, comma 5) l’art. 366-bis cod. proc. civ. e, di tale norma, la rigorosa interpretazione elaborata da questa Corte (Cass. 27 gennaio 2012, n. 1194; Cass. 24 luglio 2012, n. 12887; Cass. 8 febbraio 2013, n. 3079). Pertanto:

2.1. i motivi riconducibili all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 vanno corredati, a pena di inammissibilità, da quesiti che devono compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie (tra le molte, v.: Cass. Sez. Un., ord. 5 febbraio 2008, n. 2658; Cass., ord. 17 luglio 2008, n. 19769, Cass. 25 marzo 2009, n. 7197; Cass., ord. 8 novembre 2010, n. 22704); d) questioni pertinenti alla ratio decidendi, perchè, in contrario, difetterebbero di decisività (sull’indispensabilità della pertinenza del quesito, per tutte, v.: Cass. Sez. Un., 18 novembre 2008, n. 27347; Cass., ord. 19 febbraio 2009, n. 4044; Cass. 28 settembre 2011, n. 19792; Cass. 21 dicembre 2011, n. 27901);

2.2. a corredo dei motivi di vizio motivazionale vanno formulati momenti di sintesi o di riepilogo, che devono consistere in uno specifico e separato passaggio espositivo del ricorso, il quale indichi in modo sintetico, evidente ed autonomo rispetto al tenore testuale del motivo, chiaramente il fatto controverso in riferimento al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, come pure -se non soprattutto – le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione (Cass. 18 luglio 2007, ord. n. 16002; Cass. Sez. Un., 1 ottobre 2007, n. 20603; Cass. 30 dicembre 2009, ord. n. 27680);

2.3. infine, è consentita la contemporanea formulazione, nel medesimo quesito, di doglianze di violazione di norme di diritto e di vizio motivazionale, ma soltanto alla imprescindibile condizione che ciascuna sia accompagnata dai rispettivi quesiti e momenti di sintesi (per tutte: Cass. sez. un., 31 marzo 2009, n. 7770; Cass. 20 dicembre 2011, n. 27649).

Tutto ciò posto, occorre esaminare partitamente i singoli motivi di impugnazione.

3. La prima questione da affrontare riguarda le prerogative in campo giurisdizionale correlate allo status di Giudice costituzionale, ove tale ufficio sia assunto da una delle parti del processo civile nel corso di quest’ultimo e successivamente al suo inizio (e, quindi, ai fatti oggetto di causa): problematica sulla quale la Corte territoriale effettivamente non si è pronunciata.

3.1. In particolare, con il primo motivo il ricorrente principale si duole di “violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, dell’art. 112 c.p.c.; nonchè della ******** n. 1948, art. 3, comma 2, (con rinvio recettizio all’art. 68 Cost., comma 2, Cost. nel testo anteriore alla riforma disposta dalla L. Cost. n. 3 del 1993), ovvero ed in via gradata, della L. Cost. n. 1 del 1948, art. 3, comma 2, dell’art. 68 Cost. testo vigente e della L. n. 140 del 2003, dell’art. 3, comma 3; nonchè dell’art. 112 c.p.c.”.

3.1.1. Al riguardo, il ricorrente principale: evidenzia di avere ricoperto la carica di Giudice costituzionale dall’aprile 2002 fino al maggio 2007 e di avere addotto tale circostanza fin dall’udienza del 20.4.04; qualifica come materiale e recettizio il rinvio, operato dalla L. Cost. 9 febbraio 1948, n. 1, art. 3, comma 2, all’art. 68 Cost. e, cioè, al testo originario di tale ultima norma, che prevedeva, prima della riforma di cui alla L. Cost. n. 3 del 1993, l’autorizzazione a procedere per i parlamentari; nega che tale ultima riforma possa estendersi ai Giudici costituzionali, per la non assimilabilità degli status di costoro e dei singoli parlamentari; evidenzia che l’applicazione del testo riformato dell’art. 68 Cost. – con obbligo di trasmissione degli atti del giudizio alla Corte perchè si pronunci sulla proseguibilità – condurrebbe ad un conflitto di attribuzioni tra autorità giudiziaria ordinaria e Corte costituzionale, nel quale quest’ultima giudicherebbe su se stessa. In subordine, per il caso in cui potesse giungersi a qualificare mobile il rinvio all’art. 68 Cost. e quindi applicabile anche ai Giudici costituzionali il testo novellato di questo, il ricorrente principale evidenzia che in ogni caso il processo avrebbe dovuto sospendersi, per la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la deliberazione sull’insindacabilità.

E conclude con tre quesiti di diritto, l’ultimo dei quali subordinato ai primi due.

3.1.2. Dichiarano di aderire, senza svilupparle, a tali specifiche censure del ricorrente principale i ricorrenti incidentali.

3.1.3. Sul punto, i controricorrenti B., Bo., D., C. e G., evidenziata per ciascuna delle due ipotesi l’anteriorità dei fatti per cui è causa rispetto all’assunzione della carica di Giudice costituzionale, negano la natura materiale o recettizia del rinvio all’art. 68 Cost., sostenendo applicarsi ai Giudici costituzionali il testo novellato di quest’ultima norma, per evitare interpretazioni incostituzionali della disciplina della L. Cost. n. 1 del 1948, art. 3 cpv..

3.2. Possono, preliminarmente, tralasciarsi i dubbi sull’astratta configurabilità di un’omessa pronunzia, rilevante ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., su di una questione che la parte stessa deduce non avere formalmente sollevato, essendosi limitata a prospettare i fatti su cui quella si basa: invero, è giurisprudenza ormai consolidata di questo Supremo Collegio che sia legittimo e doveroso, in caso sia effettivamente mancata la pronuncia invocata, esaminare la doglianza prospettata come pretermessa, ove essa possa poi essere qualificata infondata (tra le più recenti: Cass. 1 febbraio 2010, n. 2313; Cass. 3 maggio 2011, n. 9695; Cass. 25 novembre 2011, n. 24914; Cass., ord. 11 aprile 2012, n. 5729; Cass. 14 giugno 2012, n. 9735; Cass., ord. 30 gennaio 2013, n. 2240).

In sostanza, lo iato esistente tra pronuncia di rigetto e mancato esame del motivo per cui l’annullamento è stato domandato va colmato dalla Corte di cassazione attraverso l’impiego del potere di correzione della motivazione (art. 384 c.p.c., comma 2), integrando la decisione di rigetto pronunciata dal giudice del merito mediante l’enunciazione delle ragioni che la giustificano in diritto, senza necessità di rimettere al giudice di rinvio il compito di dichiarare infondato in diritto il motivo non esaminato.

Al riguardo, si configura un potere della Corte di cassazione di correzione della motivazione della sentenza impugnata anche in relazione ad un error in procedendo, fermi beninteso restando i limiti della non necessità di indagini di fatto e del rispetto del principio dispositivo; potere che si fonda sulla ricostruzione della potestà di decisione nel merito come estesa – pur prima della formale modifica della norma di cui al D.Lgs. 40 del 2006, che ha solo consacrato normativamente una tendenza interpretativa già sviluppata in precedenza – anche ai casi di violazione di norme processuali. E tanto secondo un’interpretazione dell’art. 384 cod. proc. civ. costituzionalmente orientata al principio della ragionevole durata del processo e dell’esclusione della legittimità di attività processuali ulteriori irrilevanti od inutili ai fini dell’effettiva estrinsecazione del diritto di difesa delle parti.

3.3. Ora, lo status di Giudice costituzionale è tuttora regolato, in relazione alla materia in esame, dalla L. Cost. 9 febbraio 1948, n. 1, art. 3 (norme sul giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte Costituzionale) e, più in particolare, dal suo unico comma rimasto in vigore (corrispondente all’originario capoverso, per essere stato l’originario comma 1 abrogato dalla L. Cost. 22 novembre 1967, n. 2, art. 7, comma 1), il quale prevede che, “finchè durano in carica, i giudici della Corte costituzionale godono dell’immunità accordata nell’art. 68 Cost., comma 2 ai membri delle due Camere”, pure stabilendo (con la seconda proposizione del medesimo comma) che, in tal caso, l’autorizzazione è data dalla Corte costituzionale.

Nonostante la disputa in dottrina sulla natura formale o materiale di tale rinvio, ritiene il Collegio non necessario affrontare e risolvere la questione, atteso che, nella specie, si tratta di procedimento civile per fatti anteriori all’assunzione della carica di Giudice costituzionale da parte del ricorrente odierno: nell’uno e nell’altro caso, infatti, tale specifica circostanza costituirebbe un argomento dirimente ed idoneo ad escludere l’immunità invocata.

3.3.1. L’estensione di un regime, quand’anche diversificato, di esenzione da responsabilità per il componente dell’Organo costituzionale pure alle controversie civili non può seriamente dubitarsi.

Esso è oggi espressamente previsto dalla L. 20 giugno 2003, n. 140, art. 3, recante disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 Cost. nonchè in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato: tale norma, ai suoi commi 3 e 4, prevede che, nel caso di procedimenti civili, il giudice pronuncia con sentenza ogni provvedimento necessario alla loro definizione, previ immediato invito alla precisazione delle conclusioni e fissazione dei termini ex art. 190 cod. proc. civ. in misura ridotta (e quindi con celere avvio alla decisione), per poi pronunciare, se non ritenga di accogliere la specifica eccezione di applicabilità del primo comma dell’art. 68 Cost., ordinanza di rimessione alla Camera (un autentico interpello), cui appartiene il parlamentare, per le determinazioni di competenza in ordine all’insindacabilità delle condotte oggetto di causa.

3.3.2. Quanto al regime previgente, di cui all’art. 68 Cost. nel testo originario, a dispetto del tenore testuale di tale disposizione, che escludeva che i parlamentari potessero essere “perseguiti” (così riferendosi evidentemente in modo espresso ai soli procedimenti penali), la dottrina pressochè concorde aveva esteso l’usbergo da tale norma previsto anche al campo civile ed amministrativo.

La prassi parlamentare, fondata soprattutto sugli artt. 18 e 143 del Regolamento della Camera, adattò la normativa, pensata obiettivamente per i procedimenti penali, anche a quelli civili, prevedendo una segnalazione dell’interessato e la relazione della Giunta all’Assemblea sulla riconducibilità o meno dei fatti oggetto del procedimento nell’ambito di applicazione della prerogativa costituzionale.

La stessa Corte costituzionale (Corte cost. 29 dicembre 1988, n. 1150) intese poi l’istituto dell’insindacabilità come esteso anche alle controversie civili, come attributivo alla Camera di appartenenza del potere di valutare la condotta addebitata a un proprio membro, con l’effetto, qualora fosse qualificata come esercizio delle funzioni parlamentari, di inibire in ordine ad essa una difforme pronuncia giudiziale di responsabilità, sempre che il potere fosse stato correttamente esercitato: e tanto per la ratio delle immunità in esame, riconducibile al principio più generale dell’indipendenza ed autonomia delle Camere verso gli altri organi e poteri dello Stato; ma senza pregiudizio della possibilità di sollevare conflitto di attribuzione, a norma dell’art. 134 Cost. e L. n. 87 del 1953, art. 37, circoscritto ai vizi che incidevano, comprimendola, sulla sfera di attribuzioni dell’autorità giudiziaria.

3.4. E tuttavia ritiene il Collegio che nè sotto il regime previgente, nè sotto quello vigente a seguito della legge costituzionale n. 3 del 1993, possa operare alcuna immunità od esenzione in relazione ad un processo civile per fatti commessi prima dell’assunzione dell’Ufficio di Membro del Parlamento o, comunque e per quel che qui interessa (in virtù del richiamo del capoverso dell’art. 3 della richiamata L. Cost. n. 1 del 1948, in qualunque senso inteso), di Giudice costituzionale.

3.5. Già potrebbe osservarsi, quanto al regime previgente, come l’improseguibilità del processo penale nei confronti di chi nelle more fosse stato eletto parlamentare fosse giustificata dalla giurisprudenza penale di questa Corte (Cass. Sez. Un. Pen., 18- 6/24.7.91, n. 7708, ******) con la cessazione, in dipendenza di quest’ultimo evento, della possibilità di perseguire, in assenza di autorizzazione a procedere, il giudizio nei suoi confronti, così restando preclusa qualsiasi pronuncia giurisdizionale (di condanna o meno), perchè ogni pronuncia implicava comunque l’esercizio della giurisdizione penale nei confronti di un Membro di una Camera in un tempo in cui egli rivestiva tale funzione. E ben si poteva sostenere che l’esercizio della giurisdizione avrebbe finito con l’interferire, condizionandolo indebitamente, con l’espletamento di una funzione costituzionale primaria; ed una tale impostazione era stata ribadita, a contrario, dal rilievo del suo superamento con la riforma della legge costituzionale del 1993 (Cass. pen. 28-10/24.11.99, n. 13484, ********* ed altro).

Del resto, era soltanto il capoverso dell’art. 68 Cost., esplicitamente dettato per il procedimento penale, a fondare l’immunità del Membro del Parlamento dalla giurisdizione penale e ad imporre la conclusione di una improseguibilità assoluta, in difetto di autorizzazione a procedere, di qualsiasi azione penale nei suoi confronti, quand’anche già iniziata o pendente e quindi per fatti commessi prima dell’assunzione di quell’Ufficio.

In altri termini, solo dal procedimento penale il parlamentare – e gli altri organi costituzionali a lui equiparati – era concretamente del tutto immune per il solo fatto di rivestire tale funzione, anche se l’assunzione di essa fosse sopravvenuta ai fatti per cui si procedeva.

3.6. In via dirimente, deve però osservarsi che, per i procedimenti diversi da quelli penali, non può scindersi, dinanzi alla lettera delle disposizioni vigenti prima e dopo la novella del 1993/2003, la norma sull’immunità dalla ratio che la sorregge: e cioè quella di assicurare il libero svolgimento della funzione di fronte a eventuali e indebite pressioni provenienti dall’esterno, ovvero di preservare la genuinità delle manifestazioni degli organi rappresentativi della sovranità popolare o degli altri organi costituzionali espressamente previsti, quale strumento complementare ma necessario per il libero e non condizionabile espletamento di funzioni ed uffici di così rilevante importanza.

3.6.1. Già prima della riforma del 1993, il Giudice delle Leggi statuì che la guarentigia “delle opinioni espresse e dei voti dati” dai beneficiari dell’immunità è funzionale alla tutela delle più elevate funzioni della politica, in primis la funzione legislativa, volendosi garantire da qualsiasi interferenza di altri poteri il libero processo di formazione della volontà politica; la giustificazione razionale della guarentigia poggia, pertanto, sulla corrispondenza fra il livello costituzionale della guarentigia stessa, ed il livello costituzionale del tipo di funzioni il cui esercizio si è eccezionalmente ritenuto opportuno sottrarre al controllo giudiziario.

Quello che la Costituzione ha inteso proteggere, con disposizioni derogatorie rispetto al comune regime di responsabilità, è un modello funzionale che essa stessa ha delineato ed appunto perciò ha potuto valutare meritevole di una tale eccezionale protezione (Corte cost. 20 marzo 1985, n. 69).

In altri termini, dovevano considerarsi coperti da immunità non tutti i comportamenti dei membri delle Camere, ma solo quelli strettamente funzionali all’esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere legislativo, mentre ricadono sotto il dominio delle regole del diritto comune i comportamenti estranei alla ratio giustificativa dell’autonomia costituzionale delle Camere.

Nella giurisprudenza costituzionale questa sfera di libertà non si atteggia come privilegio di un ceto, nè solo come garanzia individuale dei membri delle Camere, ma pure come tutela della autonomia delle istituzioni parlamentari, orientata a sua volta alla protezione di un’area di libertà della rappresentanza politica: e non a caso la difesa di questa prerogativa non è rimessa al solo interessato, ma appartiene alle Camere come attribuzione propria (da ultimo, Corte cost. 2 novembre 1996, n. 379) e quindi come spettante al detto organo costituzionale in sè considerato.

3.6.2. Rimaneva pertanto valida la complessiva ricostruzione dell’istituto, a termini della quale (Cass. 27 giugno 2000, n. 8734):

– la prerogativa di cui all’art. 68 Cost., comma 1 non copre tutte le opinioni espresse dal parlamentare nello svolgimento della sua attività politica, ma solo quelle legate da “nesso funzionale” con le attività svolte “nella qualità” di membro delle Camere (Corte cost.: sent. n. 375 del 1997, n. 289 del 1998, n. 329 e 417 del 1999; 20 marzo 2000, n. 82; 15 febbraio 2000, n. 58; 15 febbraio 2000 n. 56); è necessario un collegamento funzionale tra la manifestazione dell’opinione e la funzione parlamentare stessa, affinchè l’immunità non si trasformi da esenzione di responsabilità, legata alla funzione, in privilegio personale;

– non è possibile ricondurre nella sfera della funzione parlamentare l’intera attività politica dei membri delle camere, perchè tale interpretazione allargata finirebbe per vanificare il requisito stesso del nesso funzionale, trasformando la prerogativa in un privilegio personale” (Corte Cost. 14.7.1999, n. 329);

– per definire più specificamente il nesso funzionale (Corte Cost. 17 gennaio 2000 n. 10 ed 11; ma i principi sono stati ribaditi anche dalle successive sentenze, n. 56, 58 ed 82 del 2000), la linea di confine tra la tutela dell’autonomia e della libertà delle Camere, e, a tal fine, della libertà di espressione dei loro membri, da un lato, e la tutela dei diritti e degli interessi, costituzionalmente protetti, suscettibili di essere lesi dall’espressioni di opinioni, dall’altro, è fissata dalla Costituzione attraverso la delimitazione funzionale dell’ambito della prerogativa; senza questa delimitazione, l’applicazione della prerogativa la trasformerebbe in un privilegio personale (cfr. Corte cost. n. 375 del 1997), finendo per conferire ai parlamentari una sorta di statuto personale di favore, quanto all’ambito ed ai limiti della loro libertà di manifestazione del pensiero; nè si può accettare, senza vanificare tale delimitazione, una definizione della “funzione” del parlamentare così generica da ricomprendervi l’attività politica che egli svolga in qualsiasi sede, e nella quale la sua qualità di membro delle camere sia irrilevante.

3.6.3. Ma pure dopo la novella del 1993 e la sua normativa di attuazione di dieci anni dopo, ciò che rileva, ai fini dell’insindacabilità, è il collegamento necessario con le “funzioni” dell’Organo costituzionale, cioè l’ambito funzionale entro cui la condotta del suo Membro si iscrive, a prescindere dal suo contenuto comunicativo, che può essere il più vario, ma che in ogni caso deve essere tale da rappresentare esercizio in concreto delle funzioni proprie dei componenti di quell’Organo, anche se attuato in forma “innominata” sul piano regolamentare.

Sotto questo profilo non c’è perciò una sorta di automatica equivalenza tra l’atto non previsto dai regolamenti parlamentari e l’atto estraneo alla funzione parlamentare, giacchè, come detto, deve essere accertato in concreto se esista un nesso che permetta di identificare l’atto in questione come “espressione di attività parlamentare” (Corte cost. 21 aprile 2004, n. 120).

Pertanto, le norme processuali di cui alla L. n. 140 del 2003, art. 3 non reintroducono ipotesi di autorizzazione a procedere, ma delimitano entro brevi termini perentori l’esercizio delle diverse prerogative e dei differenziati poteri da parte dei diretti interessati, del giudice e dell’Organo costituzionale di appartenenza (Corte Cost. n. 46/2008; v. pure Corte Cost. n. 149/2007).

3.7. Come, ancor più di recente, è stato già puntualizzato da questa Corte (Cass. Sez. Un., 12 aprile 2012, n. 5756):

– la prerogativa dell’insindacabilità dei voti e delle opinioni dei parlamentari fissata nell’art. 68 Cost. (il cui comma 2 non attribuisce più alle Camere un potere autorizzativo condizionante l’esplicazione della funzione giurisdizionale) configura, sul piano sostanziale, una causa di esonero dalla responsabilità dell’autore delle dichiarazioni contestate, e correlativamente si traduce sul piano formale in una preclusione per l’autorità giudiziaria a superare la delibera parlamentare che riconosca l’attinenza delle dichiarazioni stesse all’esercizio della funzione, salva restando la sola possibilità di provocare, attraverso il conflitto fra poteri, il controllo della Corte Costituzionale sulla “correttezza” di detta delibera;

– ciò sta a significare che non ci si trova di fronte ad una garanzia di natura esclusivamente processuale intesa come sottrazione assoluta alla giurisdizione, quanto invece e piuttosto ad una causa personale di esclusione della responsabilità, il cui accertamento non concerne pertanto una questione di ripartizione della giurisdizione fra giudici di diversi ordini o di individuazione dei confini della medesima in relazione all’esercizio di potestà amministrative, ma una questione di limiti interni della giurisdizione ordinaria; in termini analoghi s’era già espressa la Corte costituzionale con sentenza n. 265/1997, escludendo che l’autorità giudiziaria, di fronte ad una questione di sindacabilità dell’opinione espressa da un parlamentare, fosse carente di giurisdizione in mancanza di una previa deliberazione della Camera di appartenenza del parlamentare in ordine alla valutazione se la fattispecie concreta rientrasse o meno nell’ipotesi di cui all’art. 68 Cost.; una tale prospettazione infatti ricostruirebbe impropriamente il sistema nei termini di una sorta di “pregiudizialità parlamentare”, che si imporrebbe in tutti i giudizi in cui si controverta di ipotetiche responsabilità di un membro delle Camere, suscettibili di essere ricondotte ad una sua manifestazione di opinione, purchè collegabile all’esplicazione del mandato; e, in definitiva, condurrebbe a restaurare una sorta di “autorizzazione a procedere” della Camera di appartenenza, in assenza della quale non potrebbe essere esercitata la funzione giurisdizionale.

3.9. In definitiva, va ribadito tuttora (con Corte cost. 23 febbraio 2012, n. 39) che, per l’esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e l’espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento – al quale è subordinata la prerogativa dell’insindacabilità di cui all’art. 68 Cost., comma 1, è necessario che tali dichiarazioni possano essere identificate come espressione dell’esercizio di attività parlamentare (ex multis, sentenze n. 98 e n. 96 del 2011, n. 330 e n. 135 del 2008); tanto che, mutatis mutandis, l’analoga prerogativa dei Giudici costituzionali presuppone un nesso funzionale tra i fatti per cui si procede e l’espletamento dell’esercizio di quella funzione.

Identico nesso funzionale era del resto necessario quanto all’immunità prevista dall’art. 68 Cost. anteriormente alla novella del 1993, se non altro per i giudizi diversi da quelli penali (riguardo ai quali operava di certo l’improseguibilità assoluta ai sensi dei capoversi dell’art. 68 Cost. nel testo originario), o comunque e per quel che qui rileva, per quelli civili.

Conseguenza coerente e rigorosa di quanto fin qui argomentato è che il regime di esenzione da responsabilità civile, finalizzato alla tutela della funzione, possa operare quando sia verificato come sussistente il presupposto, assolutamente insuscettibile – per la sua oggettiva rilevanza e l’evidenza della sua riscontrabilità – di diverso apprezzamento discrezionale, che la funzione sia in atto e in concreto svolta al momento della condotta che si assume fonte di responsabilità civile: non potrebbe neppure in rerum natura sussistere un nesso tra un atto umano consapevole compiuto in un determinato tempo ed una condizione o uno status personali futuri, assolutamente imprevedibili ed appartenenti quindi al novero delle infinite ed indeterminabili potenzialità dello sviluppo degli eventi correnti, secondo innumerevoli ed indipendenti sequenze causali.

E’ del tutto evidente, con assoluta immediatezza e senza alcuna possibilità di diversa interpretazione, che il nesso manca in radice in ordine a fatti temporalmente anteriori alla stessa assunzione della carica, semplicemente essendo assurdo ipotizzare la funzionalizzazione dei primi alla libera estrinsecazione della seconda, ancora non solo non in atto ed in concreto non svolta, ma dalla sussistenza neppure obiettivamente prevedibile ad alcun effetto.

Mentre, quindi, l’interpello si rivela indispensabile non appena verificato il presupposto di fatto che l’autore della condotta rivesta una delle cariche costituzionali presidiate, perchè già tale circostanza devolverebbe al titolare della prerogativa la potestà di valutare in concreto il rapporto tra condotta e funzione, il meccanismo processuale dell’interpello dell’Organo costituzionale di appartenenza – sull’insindacabilità da discrezionale valutazione di sussistenza di quel nesso – non può neppure attivarsi quando manca in radice il presupposto della sussistenza della carica al momento della condotta.

Dinanzi a tale ultimo fatto storico, oggettivo ed indubitabile, non vi è alcuna possibilità di attivare quel meccanismo processuale, nè di trasmettere gli atti all’Organo costituzionale di appartenenza per valutare la sussistenza di un nesso di oggettivamente impossibile materiale configurabilità: ed il giudice civile correttamente e doverosamente omette l’inutile attività processuale di coinvolgere l’Organo costituzionale sulla vicenda, naturaliter estranea alle funzioni di quest’ultimo e dei suoi Membri per l’anteriorità dei fatti rispetto all’inizio dell’esercizio di quelle funzioni.

Deve pertanto concludersi nel senso che l’operatività della prerogativa costituzionale dell’art. 68 Cost. presuppone, sia prima che dopo la riforma del 1993 e – per quel che qui rileva – se non altro quanto ai giudizi civili, un indissolubile nesso tra l’espletamento della funzione, in vista della quale quella è concessa, ed i fatti per cui è causa. Pertanto, non opera in favore del Giudice costituzionale alcuna delle prerogative previste dalla L. Cost. 9 febbraio 1948, n. 1, art. 3, in un giudizio civile per fatti anteriori all’assunzione del relativo Ufficio, nè è necessario alcun previo interpello della Corte costituzionale sulla sussistenza di un nesso tra una condotta pregressa ed il successivo espletamento della funzione.

Il primo motivo di ricorso principale è, perciò, infondato sotto entrambi gli aspetti sviluppati.

4. La seconda questione da affrontare riguarda l’ambito di un eventuale giudicato di assoluzione in sede penale di coloro contro cui si sia intrapresa azione civile per il risarcimento del danno stesso, in tempo anteriore all’avvio del procedimento penale. La questione è posta dal secondo motivo di ricorso principale e dal primo motivo di ricorso incidentale, i quali, per la loro intima connessione, possono essere quindi congiuntamente esaminati. La stessa questione è approfondita nelle memorie depositate ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. dal ricorrente principale e da quelli incidentali.

4.1. Ora, col secondo motivo il ricorrente principale si duole, in via subordinata rispetto alla doglianza di cui al primo motivo, di “violazione e falsa applicazione dell’art. 652 c.p.p., artt. 324, 116 e 295 c.p.c., art. 2909 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nullità della sentenza e del procedimento, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”.

4.1.1. In particolare, egli ricorda di avere prodotto, nel corso del giudizio di appello, la sentenza – n. 1229/04 – con cui la Corte di appello di Brescia ha definitivamente assolto lui ed il M. dal reato di diffamazione, “perchè il fatto non costituisce reato”.

Adduce poi che, ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen., il giudicato penale di assoluzione ha efficacia diretta nel giudizio civile per i danni dal medesimo reato, quando il danneggiato ha avuto modo di costituirsi nel processo civile, ma ha deliberatamente scelto di non farlo: dovendo leggersi in senso restrittivo il richiamo alla norma dell’art. 75 cod. proc. pen. e, pertanto, ritenersi esclusa l’efficacia nel solo caso in cui l’azione civile sia iniziata quando non era più ammessa la costituzione di parte civile.

E conclude, formulato un quesito di diritto, censurando l’opposta conclusione della Corte di merito.

4.1.2. Si dolgono, con il primo motivo del loro ricorso incidentale, il M. e la Mondadori di “violazione e falsa applicazione dell’art. 652 c.p.p. e art. 75 c.p.p., comma 2, art. 1306 c.c., comma 2, e art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, per aver la Corte territoriale escluso l’efficacia di giudicato in favore di Arnoldo Mondadori Editori e del dr. M. della sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata sulla medesima vicenda dalla Corte penale d’appello di Brescia”.

Sul punto, essi sviluppano argomenti analoghi a quelli articolati a sostegno del secondo motivo di ricorso principale, adducendo, nella trattazione di quello, ma non anche nel quesito a suo corredo, estendersi il giudicato anche alla Arnoldo Mondadori Editore “ex art. 1306 c.c.”.

4.1.3. Sul punto, i controricorrenti B., Bo., D., C. e G. richiamano la giurisprudenza di legittimità sull’art. 652 cod. proc. pen., in linea con la dottrina preminente, per la quale l’abbandono del principio di unità della giurisdizione – con quello, connesso, della prevalenza del giudizio penale su quello civile – comporta sempre che il giudice civile debba compiere un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità civile nel processo di cognizione, non essendo mai vincolato dalle soluzioni e dalle qualificazioni del giudice penale.

4.2. Il primo motivo di ricorso incidentale è inammissibile quanto alla Arnoldo Mondadori Editore spa, visto che il quesito a corredo di quello non indica, con specifico riferimento ad essa, le ragioni di diritto malamente applicate all’editore, soffermandosi su quelle del solo autore dell’articolo ritenuto diffamatorio, che sia stato assolto definitivamente in sede penale. La relativa questione non è stata quindi in alcun modo proposta con il quesito a corredo del motivo in cui – sia pur sommariamente – era stata sollevata.

4.3. Il secondo motivo di ricorso principale ed il corrispondente primo motivo di ricorso incidentale – almeno quanto al M. – sono poi infondati nel merito.

La questione dei presupposti dell’efficacia diretta del giudicato penale di assoluzione nel giudizio civile avente ad oggetto i danni dal medesimo reato si fonda sull’esegesi dell’art. 652 cod. proc. pen., a mente del quale un tale giudicato non si estende al giudizio civile, ove l’azione civile sia stata esercitata “a norma dell’art. 75 c.p.p., comma 2”; norma, quest’ultima, che prevede la prosecuzione dell’azione civile in sede civile se non è trasferita nel processo penale o se la prima è stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile.

La questione deve però ritenersi risolta alla stregua dell’orientamento della giurisprudenza di questa Corte, inaugurato da Cass. 9 marzo 2004, n. 4775 – già richiamata dalla Corte territoriale – e come confermato ed interpretato dalle successive Cass. 17 febbraio 2010, n. 3820 e Cass. 9 gennaio 2013, n. 319.

Infatti, mentre il previgente sistema si fondava sul principio della prevalenza del processo penale su quello civile, l’attuale impostazione normativa è – al contrario – nel senso che l’inizio o la prosecuzione del procedimento penale non producono effetti sul giudizio civile pendente, il quale è sospeso – risultando quindi pregiudicato in senso tecnico da quello penale – esclusivamente se il danneggiato dal reato si sia tempestivamente costituito parte civile, se ancora in termini: e tanto quale chiara estrinsecazione della preferenza del legislatore verso l’autonoma iniziativa in ambito esclusivamente civilistico da parte del pretendente al risarcimento del danno.

La pure evidente possibilità di un sostanziale contrasto tra il giudicato civile e quello penale – ben potendo una persona essere assolta in sede penale per non aver commesso il fatto ed in sede di giudizio civile essere ritenuta responsabile del danno causato quale autore del comportamento la cui sussistenza è stata negata dal giudice penale – non può bastare ad inficiare la validità di tale principio, che obiettivamente risponde ad una scelta di fondo del codificatore del 1988 e comporta appunto il diritto all’immediato ed autonomo ricorso al giudice civile, svincolando il giudizio davanti a lui dall’esito di quello penale sullo stesso fatto.

L’art. 652 cod. proc. pen., insomma, estende sì il giudicato penale di assoluzione – quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato commesso nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima – al giudizio civile o amministrativo per il risarcimento del danno promosso dal danneggiato dal reato, alla imprescindibile condizione, però, che questi sia stato posto in grado di costituirsi parte civile e salvo che egli abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75 cod. proc. pen., comma 2.

Ora, tale ultima disposizione prevede che l’azione civile prosegue in sede civile se non è trasferita nel processo penale o se è stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile: tanto che il comma 3 della citata norma impone la sospensione del processo civile ove l’azione sia stata proposta dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado (salvo alcune ipotesi, che però qui non rilevano).

Lo stesso art. 75 cod. proc. pen., al primo comma, configura però il trasferimento in sede penale dell’azione già iniziata in sede civile come una facoltà (“l’esercizio di tale facoltà”) e configura quindi in capo al danneggiato, con un evidente e condivisibile favor per la sua tutela, un vero e proprio potere di opzione per la sede nella quale proseguire la sua azione di risarcimento del danno, in vista delle verosimili legittime rispettive aspettative di successo: tra le quali, plausibilmente e a mero titolo di esempio, quelle indotte dal più agevole regime probatorio del giudizio penale rispetto a quello civile, ma, in compenso, dal diverso regime in tema di nesso causale, notoriamente diversificato in modo sensibile – e sostanzialmente a favore del danneggiato – nel processo civile rispetto a quello penale (per tutte, v. Cass. Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 576).

4.4. Se il danneggiato ha la facoltà, in senso proprio e tecnico, di trasferire l’azione civile già pendente, non può allora configurarsi in capo a lui quello che la tesi sostenuta dai ricorrenti finirebbe con l’integrare un autentico onere di costituzione di parte civile: tanto comporterebbe una limitazione delle garanzie del diritto di azione che – non solo – il codice del 1988 ripudia, ma che soprattutto – sarebbe priva di qualsiasi razionale giustificazione e certamente non conforme ai precetti dell’art. 24 Cost. e art. 111 Cost., comma 1.

Ed anche la prospettazione della necessità, benchè articolata su argomenti rigorosamente sviluppati, di una interpretazione restrittiva delle facoltà del danneggiato si infrange contro il richiamato principio dell’abolizione di qualunque preferenza o prevalenza del giudizio penale rispetto a quello civile per i danni da reato: tanto che, comunque, in presenza di più ipotesi ricostruttive, entrambe egualmente sostenibili o tali da offrire differenti ordini di aporie interpretative, va privilegiata quella da cui consegue la maggior tutela possibile del diritto di azione del soggetto (e, nel caso di specie, del soggetto leso dalla condotta prospettata come illecita) e non quella che, senza alcuna ragione giustificatrice se non quella derivante da imprecisi o ambigui riferimenti testuali, finirebbe anche solo con il limitarla.

In sostanza, il sistema dei rapporti tra giudizi penali e civili in ordine al risarcimento del danno da reato risponde a ragioni organizzative processuali, valutate discrezionalmente dal legislatore – sulla conclamata premessa dell’abbandono dell’originaria prevalenza di quelli penali – come espressione della preferenza, ai fini del risarcimento del danno patito dal soggetto leso da un reato, per il giudizio che rimane in vita: e tanto, con tutta evidenza, al fine di garantire la più ampia possibile tutela al leso.

Ne deve conseguire che l’esito assolutorio – quand’anche definitivo – del giudizio penale non ha alcuna influenza nel giudizio civile di danno se quest’ultimo è iniziato prima della sentenza penale di primo grado e l’azione non è stata trasferita, nell’esercizio di una libera facoltà del danneggiato, nel giudizio penale; del resto, proprio in considerazione della totale separatezza dei due giudizi – e quindi dell’ininfluenza dell’esito di quello penale sul giudizio civile – in tale caso il secondo non deve essere sospeso, come invece deve avvenire ove l’azione civile sia proposta dopo la costituzione di parte civile o dopo la sentenza penale di primo grado.

Solamente in tale ultimo caso si versa nella situazione in cui, in virtù del richiamato disposto dell’art. 652 c.p.p., comma 1, vi è necessaria interferenza del giudicato penale nel giudizio di danno, che dunque non può pervenire anticipatamente ad un esito in ipotesi difforme da quello penale circa la sussistenza di uno o più dei comuni presupposti di fatto.

4.5. Ciò posto, poichè è pacifico in atti che il giudizio civile è iniziato prima della pronuncia della sentenza penale di primo grado e che nello stesso non hanno assunto il ruolo di parte civile gli originari attori (danneggiati dal reato), nessuna influenza vincolante può riconoscersi alla sentenza penale assolutoria pronunciata dalla Corte d’appello di Brescia, la cui efficacia di giudicato è stata invece invocata coi motivi in esame.

Ed i motivi in esame sono quindi da disattendere.

5. La terza questione da affrontare riguarda il ruolo dell’accertamento in sede penale nel giudizio civile per i danni derivanti dal reato escluso in quella sede; ed essa è posta dal terzo motivo di ricorso principale e dal secondo motivo di ricorso incidentale, i quali, per la loro intima connessione, possono essere quindi congiuntamente esaminati. La stessa questione è approfondita, dai ricorrenti principale e incidentali, nelle memorie depositate ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., con richiamo anche alla recente pronuncia di questa Corte, n. 2661 del 5 febbraio 2013, a mente della quale il giudice di merito, al quale venga sottoposta la sentenza, resa in sede penale e che non costituisca giudicato nel giudizio civile, non può non tenerne conto, ma deve sottoporla alla sua libera valutazione, anche in relazione agli altri elementi di giudizio rinvenibili negli atti di causa: sicchè l’omesso esame di tale elemento di prova documentale è idoneo ad integrare il vizio motivazionale.

5.1. Orbene, con il terzo mezzo di censura il ricorrente principale si duole di “motivazione omessa o insufficiente e sotto altro profilo, comunque contraddittoria sul fatto decisivo, rappresentato dall’accertamento contenuto nella sentenza penale e dalla dichiarazione resa in sede penale dall’imputato, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5; violazione dell’art. 2734 cod. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

5.1.1. In particolare, egli lamenta avere la corte territoriale del tutto ignorato l’accertamento comunque compiuto dai giudici penali in ordine agli stessi fatti oggetto del giudizio civile, in quanto prospettati a fondamento della pretesa civile come integranti il reato di diffamazione.

Ancora, egli censura pure l’incongruità, dinanzi alla scelta di tralasciare quell’accertamento nel suo complesso, della valorizzazione, operata dalla corte territoriale e per di più in modo errato, di una sola dichiarazione da lui rilasciata, riportata nella sentenza penale, con una non ammissibile atomistica considerazione dei singoli elementi ricavabili da quest’ultima.

Inoltre, egli rimarca la carenza di motivazione sulla valutazione della pretesa confessione resa da esso ricorrente davanti al P.M. in sede penale soltanto nella parte a lui favorevole, senza adeguata considerazione del complessivo contesto e quindi della sua recisa esclusione della pronuncia delle espressioni diffamatorie. E formula un momento di sintesi ed un quesito di diritto.

5.1.2. Svolgono argomenti in parte analoghi, a sostegno del terzo motivo del loro ricorso incidentale, il M. e la Mondadori, dolendosi di “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per aver la sentenza impugnata ritenuto diffamatoria l’intervista del prof. V., ignorando del tutto la prova contraria rappresentata dal diverso accertamento contenuto nella sentenza penale di assoluzione pronunciata dalla Corte d’Appello di Brescia”.

5.1.3. Sul punto, i controricorrenti B., Bo., D., C. e G. argomentano per l’insussistenza di un obbligo del giudice civile di esame delle risultanze probatorie del giudizio penale, avendo al contrario egli la facoltà di utilizzare, ai fini della decisione, elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in sede penale, con un esame diretto degli atti del processo, sentenza compresa.

E comunque sottolineano, quanto alla seconda doglianza del ricorrente principale, che la corte territoriale ha motivato sulla confessione resa in sede penale solo a titolo di argomento di rincalzo di una tesi già altrimenti dimostrata.

5.2. Al riguardo, in applicazione del principio della pressochè completa autonomia e separazione tra giudizio penale e giudizio civile, quale principio generale del nuovo codice di procedura penale, questa Corte ha già statuito non solo che il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità (civile) con pienezza di cognizione, non essendo vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale (Cass. 18 gennaio 2007, n. 1095), ma soprattutto che quello può legittimamente utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata in cosa giudicata e di fondare la decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine a diretto esame del contenuto del materiale probatorio ovvero ricavandoli dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo processo in modo da accertare esattamente i fatti materiali sottoponendoli al proprio vaglio critico; e tale possibilità non comporta però anche un obbligo per il giudice civile – in presenza di un giudicato penale – di esaminare e valutare le prove e le risultanze acquisite nel processo penale (Cass. 25 marzo 2005, n. 6478; Cass. 29 dicembre 2009, n. 27494).

In sostanza, queste ultime costituiscono elementi o argomenti di prova nel processo civile, in quanto raccolti “con le garanzie di legge” nel giudizio penale: ma proprio tale loro equiparazione ad un qualsiasi altro elemento probatorio valutabile lascia intatti i poteri del giudice civile al riguardo anche con riferimento a ciascuna delle risultanze acclarate od all’accertamento nel suo complesso operato dal giudice penale.

5.3. Ora, si ricordi che è consolidato orientamento di questa Corte che è istituzionalmente rimessa al giudice del merito la valutazione degli elementi probatori – la quale non è sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (tra le molte, v. Cass. 17 novembre 2005, n. 23286, oppure Cass. 18 maggio 2006, n. 11670, oppure Cass. 9 agosto 2007, n. 17477; Cass. 23 dicembre 2009, n. 27162; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288) – e la scelta delle fonti del suo convincimento, mediante la ponderazione delle prove, il controllo dell’attendibilità e della concludenza, nonchè la scelta, tra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dando prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (giurisprudenza fermissima; per tutte: Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. sez. un., 21 dicembre 2009, n. 26825; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197).

In sostanza, il giudice del merito, salvo il solo visto limite dell’incongruità della motivazione, può bene scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle, tra esse, ritenute più idonee a sorreggere la motivazione: tanto integrando un tipico apprezzamento di fatto, riservato in via esclusiva al giudice del merito. Questi, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza peraltro essere tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva (tra le moltissime: Cass. 20 aprile 2012, n. 6260).

5.4. Non contraddice tale impostazione la recente pronuncia, richiamata tanto dal ricorrente principale che da quelli incidentali, di Cass. 2661/13, se non altro con riferimento alle peculiarità del caso di specie.

Infatti, nella presente fattispecie la corte territoriale, pur avendo omesso un formale richiamo agli specifici accertamenti ed alle analitiche argomentazioni della corte di appello in sede penale, ha comunque rivalutato autonomamente ciascuna delle risultanze di causa rilevanti (se non altro e per quanto interessa agli odierni ricorrenti, in ordine alla sussistenza della scriminante dell’esercizio del diritto di critica) e, quindi, operato in via completa ed autonoma la sua propria – e ad essa istituzionalmente riservata – riconsiderazione di quelle.

Essa non era tenuta a prendere in considerazione ognuno dei passaggi argomentativi del giudice penale, nè l’esito finale del suo giudizio, visto che ha ripercorso ab imis fundamentis la vicenda, prendendo in considerazione – sia pur non menzionandole espressamente per come risultanti dalla sentenza penale e senza esplicito riferimento a quest’ultima – le stesse risultanze e le medesime conclusioni oggettivamente già valutate e raggiunte dalla corte di appello penale (nella parte, oltretutto, in cui esse coincidono significativamente con le argomentazioni dei ricorrenti).

Pertanto, da un lato è insindacabile la scelta della corte territoriale di non menzionare espressamente o di non valutare esplicitamente argomenti e conclusioni del giudice penale e, comunque, dall’altro lato gli uni e le altre sono stati in concreto, sia pure senza un’espressa menzione o un’analitica confutazione, presi complessivamente in considerazione ai fini di un autonomo e rinnovato giudizio in sede civile.

5.5. Quanto, infine, alla doglianza – specificamente sollevata dal ricorrente principale – dell’omessa complessiva valutazione delle risposte da lui date nel corso del procedimento penale, corretta è la replica dei controricorrenti circa il ruolo meramente accessorio dell’argomento desunto dalla proposizione coinvolta, al terzo ed ultimo periodo dell’ultimo capoverso del punto 2 della motivazione della gravata sentenza. In questo passaggio il riferimento alle prefigurate ammissioni è, con tutta evidenza, ulteriore o non decisivo riguardo al convincimento della corte territoriale, fondato da un lato sulla specifica cultura e preparazione del ricorrente principale (penultimo capoverso del medesimo punto) e, dall’altro, sulla necessaria consapevolezza della portata diffamatoria del solo sospetto così indotto (primo periodo dell’ultimo capoverso) e però presentato come intollerabile e percepibile come sostanziale certezza (secondo periodo dell’ultimo capoverso), in dipendenza della pacifica sovraesposizione mediatica dei magistrati che ne erano stati fatti segno. E senza considerare che, in disparte i dubbi sulla configurabilità di una confessione anche in ordine all’adduzione di elementi a sè favorevoli, la smentita dinanzi al P.M. è stata ritenuta irrilevante sia – per implicito – dinanzi all’articolato accertamento del tenore testuale dell’intervista (perfino riprodotta nella sua interezza), sia – espressamente – per la mancanza di una qualsiasi successiva coerente condotta di smentita o di conferma di un tale eventuale disconoscimento.

Il motivo è, pertanto, infondato.

6. Va, a questo punto, affrontata la questione centrale di merito, vale a dire quella relativa alla sussistenza o meno dell’esimente del diritto di critica nell’intervista per cui è causa: questione posta dal quarto motivo di ricorso principale e dal terzo e dal quarto motivo di ricorso incidentale. E questi, per la loro connessione, possono essere quindi congiuntamente esaminati.

6.1. Col quarto motivo il ricorrente principale lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 21 Cost., art. 51 c.p., artt. 2043 e 2059 c.c. e art. 595 c.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

6.1.1. In particolare, egli contesta l’argomento della corte territoriale sul difetto del requisito della c.d. verità nelle sue dichiarazioni e nell’individuazione in esse di un fatto ulteriore e nuovo, per la finale insinuazione consistente nell’attribuzione ai magistrati attori di un “avvenuto asservimento da parte dei predetti magistrati della pubblica funzione svolta a fini economici privati”.

Al riguardo, invoca l’applicazione dei canoni del diritto di critica – su precedenti fatti di cronaca – e non già di quelli del diritto di cronaca, avendo egli riportato i fatti ed espresso la valutazione negativa della scelta, ad opera di controparte, di agire in sede civile, aggravata da un contesto normativo che consentiva la relativa azione nel medesimo ufficio giudiziario.

Pertanto, egli sostiene di avere soltanto espresso un ragionamento motivato, a critico commento di fatti storici indubbiamente veri e di rilevanza pubblica conclamata, in quanto tale sottratto al canone della verità.

E conclude con un quesito di diritto.

6.1.2. Argomenti simili sviluppano i ricorrenti incidentali con il loro terzo mezzo di censura, lamentando “violazione e falsa applicazione dell’art. 21 Cost., artt. 595 e 51 c.p., art. 2043 c.c. in relazione all’art. 360, nn. 3, per avere la Corte territoriale applicato i più rigorosi criteri del diritto di cronaca, in luogo di quelli più ampi del diritto di critica, a dichiarazione in cui si accostano fatti ed opinioni”. In particolare, essi rimarcano come la gravata sentenza abbia applicato alla sua condotta, indicata in un “accostamento di fatti e opinioni”, i principi in tema di diritto di cronaca (che esigono il rispetto del requisito di verità obiettiva), in luogo di quelli del diritto di critica (rilevanza sociale dell’argomento e continenza), senz’altro meno rigorosi ed anzi sussistenti, quali concrete esimenti, nel caso di specie, perfino secondo l’opinione della corte territoriale.

E concludono con un quesito di diritto.

6.1.3. Gli stessi ricorrenti incidentali prospettano in modo espresso ed autonomo un ulteriore profilo al riguardo, con il loro quarto mezzo di censura, rubricato “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per aver la sentenza impugnata affermato che dallo accostamento di fatti ed opinioni possa derivare un fatto ulteriore, ancorchè tale fatto ulteriore non risulti dalle parole formalmente pronunciate”: contestando la stessa possibilità di ravvisare, nell’espressione di un’opinione, l’attribuzione di un fatto diverso e, così, l’applicazione ad essa dei più rigorosi canoni in tema di diritto di critica.

6.1.4. Dal canto loro, i controricorrenti B., Bo., D., C. e G. rimarcano l’incensurabilità in Cassazione della valutazione di sussistenza dei presupposti per l’esercizio del diritto di critica ovvero di cronaca, non mancando tuttavia di sottolineare come, in concreto, neppure potrebbe sussistere l’esimente in cui consiste il primo, per il contenuto delle espressioni adoperate (nuovamente riportate), concretanti un’autentica aggressione all’onore ed alla reputazione dei magistrati.

6.2. Al riguardo, va ricordato che, in tema di diritto di critica (tra le ultime: Cass. Sez. Un. 27 dicembre 2011, n. 28813; Cass. 22 marzo 2013, n. 7274):

6.2.1. i presupposti, per il legittimo esercizio di un tale diritto, quale scriminante della responsabilità penale, civile e disciplinare, allo stesso modo del diritto di cronaca, rispetto al quale consente l’uso di un linguaggio più pungente ed incisivo, sono:

a) l’interesse al racconto, ravvisabile anche quando non si tratti di interesse della generalità dei cittadini, ma di quello generale della categoria di soggetti ai quali, in particolare, si indirizza la comunicazione;

b) la correttezza formale e sostanziale dell’esposizione dei fatti, nel che propriamente si sostanzia la c.d. continenza, nel senso che l’informazione non deve assumere contenuto lesivo dell’immagine e del decoro;

c) la corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti (Cass. civ. 18 ottobre 2005, n. 20140);

6.2.2. diverso è poi il punto per cui la critica, cioè la valutazione, l’interpretazione e le considerazioni in merito a tali fatti veri, possa non essere obiettiva nè esatta, ma anzi presentare connotazioni soggettive opinabili o non condivisibili; la critica (anche relativa alla gestione della cosa pubblica) può anche tradursi in valutazioni e commenti tipicamente “di parte”, cioè non necessariamente obiettivi, purchè fondata sull’attribuzione di fatti veri, posto che nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne sia investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica, quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti opposta alla verità;

6.2.3. sennonchè, proprio per il bilanciamento di interessi su cui tale scriminante si fonda, occorre che le espressioni di critica usate non costituiscano un attacco offensivo della persona, trasmodando in argumenta ad hominem e, quindi in pura contumelia (Cass. 27 giugno 2000, n. 8733; Cass. pen., 16 novembre 2005, n. 44395);

6.2.4. è vero che l’esigenza di ricorrere al diritto di critica come scriminante, anzichè come criterio per l’accertamento della stessa esistenza di un’offesa, si pone nei casi in cui l’espressione della critica comporti valutazioni negative circa le qualità morali o intellettuali o psichiche del destinatario; ma, in questi casi, l’inevitabilità del collegamento alla critica scrimina l’offesa soltanto quando essa sia indispensabile per l’esercizio del diritto costituzionalmente garantito, mentre restano punibili le espressioni gratuite, cioè non necessarie all’esercizio del diritto, in quanto inutilmente volgari o umilianti o dileggianti od offensive;

6.2.5. il limite all’esercizio del diritto deve, così, intendersi superato quando l’agente “trascenda ad attacchi personali, diretti a colpire, su un piano individuale, senza alcuna finalità di pubblico interesse, la figura morale del soggetto criticato, posto che, in tal caso, l’esercizio del diritto, lungi dal rimanere nell’ambito di una critica misurata ed obiettiva, trascende nel campo dell’aggressione alla sfera morale altrui, penalmente protetta” (Cass. pen., 20 gennaio 1984, *******);

6.2.6. e, in definitiva, va affermato che trascende il diritto di critica l’aggressione del contraddittore, sebbene compiuta in clima di accesa polemica, risoltasi nell’accusa di perpetrazione di veri e propri delitti o comunque di condotte infamanti, in rapporto alla dimensione personale, sociale o professionale del destinatario.

6.3. Se tanto è vero, la tesi del ricorrente principale e di quelli incidentali, in base alla quale le espressioni adoperate durante l’intervista sarebbero scriminate dall’esercizio del diritto di critica, non sarebbe comunque idonea ad inficiare la conclusione dell’inesistenza di scriminanti, perchè il diritto di critica non potrebbe operare nella fattispecie, sulla base degli stessi elementi di fatto già esaminati ed ampiamente considerati dalla corte territoriale.

Infatti, le espressioni adoperate sono state – con valutazione di fatto, spettante istituzionalmente al giudice del merito e manifestamente non implausibile ritenute evidentemente suggestive anche per le modalità di esternazione e la loro reiterazione, nonostante la formale prospettazione di un mero dubbio o sospetto: pertanto, ciò che viene attribuito ai magistrati del c.d. **** (omissis) è di aver piegato l’esercizio delle funzioni ad un interesse privato e di lavorare soltanto per quest’ultimo, facendo affidamento sulla (presunta) minore sensibilità del tribunale di Milano (conclusioni del punto 3 della motivazione della gravata sentenza), perfino architettando una macchinazione volta a tal fine.

Ma, per quanto ricordato sub 6.2, tanto violerebbe perfino l’ambito – pure ampio – scriminante del diritto di critica, risolvendosi nell’attribuzione di una condotta particolarmente infamante per un magistrato, quale quella di ordire macchinazioni per piegare la funzione, sua istituzionale, del rispetto della legge al perseguimento di fini patrimoniali personali e quindi ad essa criminosamente contrarii resa ancor più negativa dall’indicazione di un intenzionale ed anzi organizzato approfittamento di condizioni per cosi dire ambientali – la presunta minore sensibilità degli uffici giudiziari aditi in Milano – e di una situazione ordinamentale assolutamente legittima (quale la possibilità, al momento dei fatti sussistente, per il magistrato di adire il giudice civile anche dello stesso distretto in cui il primo esercita le sue funzioni).

6.4. Pertanto, malamente invocano il ricorrente principale e quelli incidentali un’esimente più ampia di quella in concreto concessa e ritenuta non operante, perchè a sua volta la prima non potrebbe operare a loro vantaggio, se interpretata in conformità alla giurisprudenza di questa Corte.

Già per queste ragioni la sentenza gravata si sottrae alle critiche mossele.

Ma vi è di più: la prospettazione di una macchinazione -in altri termini, un autentico complotto, coincidendo le accezioni dei due lemmi sia da un punto di vista semantico che nell’odierno sentimento collettivo – articolata su di una serie di premeditati stravolgimenti del fine istituzionale di ciascuna azione penale, attribuita nella veste insinuante e capziosa del grave sospetto proveniente da persona di grande autorevolezza nel campo giuridico – e con le prescelte specifiche modalità di descrizione dei fatti, opera un deciso salto di qualità dalla prospettazione di un’opinione, per trasmodare nella configurazione di un fatto oggettivamente diverso, quale l’esistenza di un disegno – tecnicamente, definibile come criminale, oltre che incommensurabilmente immorale per la professione svolta dai sospettati – che avvince le singole condotte, non più atomisticamente considerate, tanto da configurarsi come un quid pluris rispetto ad esse, descritte come estrinsecazione dell’ancora più infamante progetto di dar corso – perfino deliberatamente – a processi di enorme impatto mediatico per conseguire ingentissimi profitti patrimoniali personali.

Pertanto, nessuna esimente scrimina gli originari convenuti per il tenore concreto dell’articolo che essi vi hanno inteso attribuire: ed i relativi motivi di doglianza sono pertanto infondati.

7. Deve, ora, valutarsi il ruolo, ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’intervistatore e dell’intervistato, nell’avvenuta ripubblicazione, ad opera di diverso organo di stampa (ed il cui editore pacificamente non risulta avere impugnato neppure la condanna in primo grado), della resa intervista.

7.1. Infatti, col quinto motivo il ricorrente principale deduce “omessa valutazione del motivo d’appello subordinato, relativo alla (ri)pubblicazione dell’intervista su “(omissis)” e violazione degli artt. 112 e 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4; motivazione inesistente su tale fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5″.

7.1.1. In particolare, egli lamenta la totale pretermissione, ad opera della corte territoriale, del motivo di appello con cui si era doluto dell’avvenuto addebito, anche a lui stesso, della ripubblicazione della sua intervista, resa esclusivamente al settimanale “(omissis)”, sul quotidiano “(omissis)”:

alla quale ripubblicazione egli non poteva in alcun modo neppure solo contribuito a dar luogo. Ed evidenzia come il risarcimento avrebbe potuto o dovuto essere diverso e minore, ove la circostanza fosse stata adeguatamente tenuta in considerazione.

7.1.2. Non sviluppano argomenti sul punto, al di là della generica e preliminare dichiarazione di adesione ai motivi di ricorso principale, i ricorrenti incidentali. Ma tanto non consente, in difetto, oltretutto, di formulazione del relativo quesito, di configurare come dispiegata anche da parte loro una formale impugnazione del relativo capo di sentenza.

7.1.3. Neppure i controricorrenti paiono prendere espressa posizione al riguardo, se non altro prima della memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.: nella quale poi si dolgono dell’inammissibilità della doglianza e, comunque, della sua infondatezza, per la presenza – nella gravata sentenza – di una sia pur sommaria motivazione sulla riconducibilità all’intervistato della pubblicazione anche successiva.

7.2. In disparte i dubbi sull’ammissibilità del motivo (quanto alla conformità del quesito di diritto, privo di riferimento al caso concreto e di prospettazione delle conseguenze dell’applicazione della regula iuris invocata come pretermessa, nonchè all’omessa riproduzione in ricorso non solo dei passaggi testuali dell’atto di appello relativi al motivo indicato come tralasciato, ma soprattutto dei passaggi motivazionali della sentenza di primo grado dai quali ricavare che la condanna del ricorrente principale era stata in concreto fondata anche sull’attribuzione del fatto – obiettivamente diverso dal rilascio dell’intervista al settimanale “(omissis)” – della ripubblicazione dell’intervista su altro organo di stampa), il motivo è infondato.

La circostanza della ripubblicazione di un’intervista, chiaramente rilasciata a fini di sua divulgazione, rientra infatti – nella normale sequenza causale prevedibile dall’agente quanto alla sorte della divulgazione stessa: non si tratta, cioè di un fatto diverso, ma di uno sviluppo normale e prevedibile del fatto originario.

Nel momento in cui l’intervistato rilascia l’intervista, egli naturalmente sa ed accetta che le sue dichiarazioni, destinate appunto alla diffusione al pubblico, entrino a far parte della massa di dati normalmente fruibili nel sistema delle comunicazioni di massa, caratterizzato dalla diffusività potenzialmente incontrollata e spesso incontrollabile dei dati immessi, come una sorta di moderno automatismo di propagazione del dato stesso, priva essendo quest’ultima di autonomia o identità dal punto di vista fattuale e giuridico.

Ne consegue che la percepibilità della diffusività del dato diventa indipendente dalla sua destinazione originaria e che gli effetti di propagazione si producono all’interno di un sistema capillare solo in virtù della struttura di quest’ultimo: una tale possibilità di fruizione è data ad un pubblico potenzialmente indeterminato, compreso quello che le dichiarazioni stesse intenda riprendere o amplificare o riportare, sia pur venendo allora a condividere, con la sua autonoma e successiva condotta di ripubblicazione, la responsabilità con l’autore originario. E, in base ai principi generali in tema di responsabilità, l’elisione di un nesso tra condotta ed evento potrebbe aversi – cosa che non avviene nel caso di specie – soltanto nel caso in cui l’intervistato provi che l’evento successivo sia avvenuto contro la sua volontà e nonostante la necessaria consapevolezza della diffusività degli effetti della sua condotta.

Pertanto, una volta rilasciata un’intervista connotata da contenuti diffamatori, l’intervistato, a meno che non provi di avere validamente tentato di impedire il fatto o che esso sia accaduto contro la sua volontà, risponde anche della ripubblicazione ad opera di terzi delle sue dichiarazioni, attese le caratteristiche di attitudine all’incontrollata diffusione dei dati coscientemente immessi nell’odierno sistema o circuito dei mezzi di comunicazione di massa.

Il motivo di doglianza è, quindi, infondato.

8. Infine, va esaminata la questione dell’autonoma valenza diffamatoria dell’apporto, nello sviluppo della resa intervista, dell’intervistatore.

8.1. Con il quinto motivo, i ricorrenti incidentali si dolgono di “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per aver la sentenza impugnata ritenuto che il giornalista M. sia stato dissimulato coautore ovvero strumento consapevole delle affermazioni diffamatorie del prof. V., escludendo così l’applicazione in favore del dr. M. e della Arnoldo Mondadori Editore dell’esimente del diritto di cronaca in materia di intervista giornalistica”.

8.1.1. In particolare, essi negano rilevanza alla personale premessa ed alle domande e conclusioni dell’intervistatore, lamentando pure il carattere apodittico della valutazione della corte territoriale circa l’adesione di quegli alle tesi dell’intervistato (e, in particolare, al “legittimo dubbio” sulle iniziative giudiziarie in sede civile dei magistrati del cd. Pool di Milano), ovvero sul carattere allusivo, suggestivo e provocatorio delle domande, in vista di ben determinate risposte, nonchè sul carattere diffamatorio della conclusione circa l’avvio di una campagna risarcitoria massiccia, priva di nesso logico con la tesi del deliberato contrasto delle iniziative giudiziarie – a tutela del loro nome – dei magistrati del Pool con la realizzazione dei fini istituzionali di giustizia propri della funzione di magistrato.

8.1.2. In merito, i controricorrenti B., Bo., D., C. e G. rimarcano come conclamata la mancanza di obiettività da parte dell’intervistatore, per l’evidente strumentante delle domande alle risposte diffamatorie ed il carattere oggettivamente lesivo anche degli interventi riferibili esclusivamente all’intervistatore, alla stregua della giurisprudenza di questa Corte.

8.2. Va premesso che, in tema di risarcimento del danno a causa di diffamazione a mezzo stampa, non solo la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, la considerazione di circostanze oggetto di altri provvedimenti giudiziali (quand’anche non costituenti cosa giudicata) o l’esclusione dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica, ma anche il concreto apprezzamento delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, costituiscono accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da adeguata motivazione, esente da vizi logici e da errori di diritto (Cass. 7 luglio 2006, n. 15510; Cass. 16 maggio 2007, n. 11259; Cass. 15 gennaio 2013, n. 800).

Ancora, il “diffusore mediatico” delle dichiarazioni di contenuto ingiurioso o diffamatorio non può ritenersi responsabile del contenuto di queste, ma solo ove esse siano riportate fedelmente in un’intervista condotta in modo imparziale (cfr. Cass. pen. Sez. Un., 30 maggio 2001, n. 37140; Cass. 15 gennaio 2013, n. 800).

Infatti, per invocare la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca, il cronista che riporti fedelmente le dichiarazioni ingiuriose rese da un terzo ha il dovere di mettere bene in evidenza che la verità asserita non si estende al contenuto del racconto, ma si limita a registrare il fatto storico in sè considerato (Cass. 19 gennaio 2007, n. 1205; Cass. 4 ottobre 2011, n. 20285).

Tanto si è talvolta riportato, nella giurisprudenza di questa Corte, alla necessaria “neutralità” dell’apporto personale dell’intervistatore (Cass. 17 marzo 2010, n. 6490), ovvero ad una sorta di imparzialità o di equidistanza di quest’ultimo; ma un tale concetto è sicuramente ambiguo, insuscettibile di essere riempito di contenuti affidabili ed univoci, implicando serie difficoltà di ricostruzione sistematica.

In particolare, ritiene il Collegio non potersi pretendere, dal singolo operatore della stampa (intesa in senso lato ed onnicomprensivo) e comunque da chiunque manifesti il suo pensiero su organi di diffusione di quest’ultimo, di tener conto necessariamente delle tesi contrapposte o di darvi spazio, oppure di mantenere un atteggiamento asettico e sterile dinanzi a quanto riportato, quasi di semplice trascrittore delle risposte altrui: opinare diversamente comporterebbe un’inammissibile serie di limitazioni alla manifestazione del pensiero, se non proprio atteggiamenti francamente censori.

Della giurisprudenza di questa Corte va allora mantenuto, superando l’ambiguo concetto di neutralità od imparzialità di questi, il costante insegnamento per il quale l’intervistatore ha l’onere, per andare esente da (cor-)responsabilità nell’intervista ad un’altra persona, di non concorrere a dar luogo alla valenza o portata diffamatoria dell’intervista, complessivamente considerata come prodotto giornalistico e quindi come interazione tra due persone: e tanto in relazione al tenore delle singole domande poste, o del loro complessivo contesto, od ai commenti od alle premesse alle medesime od alle modalità stesse della loro formulazione o struttura.

La consecuzione, la suggestività, l’articolazione di artifici dialettici o retorici nella formulazione delle domande o delle premesse o dei commenti possono essere, a seconda dei casi, valutate – con un apprezzamento di fatto, che sfugge, se congruamente motivato, ad ogni sindacato di legittimità – dal giudice del merito come concause della lesione dell’altrui onore e reputazione, quando non perfino come fatti idonei di per sè solo a determinarla.

In tal modo, l’intervistatore diviene un coautore a pieno titolo del contenuto complessivo dell’articolo, condividendone in buona sostanza le tesi ed anzi contribuendo con la sua condotta al consolidamento del risultato o del contenuto diffamatorio, ovvero, se non aderendovi in modo espresso, contribuendo scientemente con la sua condotta alla percezione del senso impressovi dall’intervistato.

8.3. In applicazione dei suddetti principi alla fattispecie, il carattere diffamatorio dell’opera dell’intervistatore M. è ravvisato dalla corte territoriale non soltanto nel fatto materiale della riproduzione dell’intervista o nella formulazione di domande (“allusive, suggestive e provocatorie”) che abbiano indirizzato il contenuto delle risposte, ma anche in personali valutazioni, analiticamente riportate, definite:

– una prima, non vera, quanto alla mancata reazione dei magistrati del Pool in sede penale;

– le altre, comunque non neutrali rispetto al potenziale diffamatorio delle risposte dell’intervistato: quanto all’opzione della sede civile per la tutela del proprio onore, con sottolineatura iniziale del vantaggio patrimoniale che essi avrebbero dall’accoglimento dell’azione e dell’esclusione di una destinazione del risarcimento ad opere di beneficenza, nonchè con conclusione del carattere massiccio di quanto viene indicato come “campagna risarcitoria” e, in quanto tale, idoneo a dare l’immagine di un piano preordinato e ragionato.

8.4. Osserva il Collegio che non vi è alcuna rituale censura avverso la prima di dette ragioni del decidere e che, quanto alla seconda, le doglianze dei ricorrenti incidentali si appuntano contro una tipica valutazione di fatto, obiettivamente non implausibile, cui perviene, in estrinsecazione della discrezionalità ad essa istituzionalmente riservata, la corte territoriale nell’apprezzamento della valenza delle espressioni adoperate.

Pertanto, non essendo censurato almeno un argomento posto a base della decisione e comunque essendo insindacabili in questa sede gli altri a sostegno della ritenuta autonoma responsabilità del giornalista (e dell’editore), il motivo in esame va respinto.

9. In conclusione, entrambi i ricorsi, tra loro riuniti, vanno rigettati ed i soccombenti ricorrenti, principale ed incidentali e tra loro in solido per la sostanziale coincidenza delle loro posizioni processuali, condannati alle spese anche del giudizio di legittimità, in favore dei controricorrenti, anch’essi tra loro in solido l’evidente comunanza di interesse in causa.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi riuniti; condanna V.R., M.A. e la Arnoldo Mondadori Editore spa, in pers. del leg. rappr.nte p.t., tra loro in solido, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore di B.F.S., Bo.Il., D.P., C.G. e G.F., tra loro in solido, liquidate in Euro 3.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della terza sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 29 maggio 2013.

Redazione