Danno da concorrenza sleale (Cass. n. 16294/2012)

Redazione 25/09/12
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Svolgimento del processo

P..P., già concessionario di vendita in alcune zone delle province di Alessandria, Pavia, Asti e Genova delle macchine agricole prodotte dalla L. s.p.a., conveniva quest’ultima in giudizio, innanzi al Tribunale di Roma per sentirla condannare al risarcimento dei danni conseguenti a condotte, asseritamente contrarie a buona fede, poste in essere dalla società concedente in occasione del recesso dal rapporto.

Nel resistere in giudizio la società attrice proponeva domanda riconvenzionale per il pagamento della somma di lire 55 milioni rimasta a suo credito all’esito dei conteggi di dare-avere.

Il Tribunale rigettava la domanda principale e ometteva la pronuncia su quella riconvenzionale.

La Corte d’appello di Roma rigettava l’impugnazione principale di P..P. e accoglieva quella incidentale della L. s.p.a..

La Corte capitolina riteneva che nessuno dei comportamenti allegati come contrari a buona fede dall’attore, fosse idoneo a configurare la responsabilità della società concedente. In particolare, l’aver espresso pochi mesi prima del recesso apprezzamenti positivi sulla collaborazione lavorativa del P., ingenerando in lui l’affidamento circa la prosecuzione del rapporto, nonché l’aver indotto il predetto concessionario ad acquistare un numero consistente di macchine in contanti, piuttosto che con pagamento dilazionato non erano fatti tali da fondare la responsabilità in questione, trattandosi di pratiche di cortesia e di ordinaria correttezza commerciale che non impegnavano le future scelte commerciali della società concedente. Inoltre, l’acquisto in contanti delle macchine era stato liberamente assentito a fronte di uno sconto non irrilevante.

Non era stato dimostrato, inoltre, né il contatto di subagenti, né la pubblicizzazione di nuovi concessionari durante il periodo di preavviso. Solo per la partecipazione della ditta M. alla fiera di (omissis) del (omissis), rilavava la Corte territoriale, era stata dimostrata l’autorizzazione da parte della *******, ma il contratto di concessione non escludeva che ciò fosse consentito a rapporto già disdettato. Inoltre, non risultava che la ditta M. avesse in concreto esposto per la vendita macchine ******* proponendosi come concessionaria.

In ogni caso, concludeva la Corte d’appello, doveva confermarsi la valutazione operata dal Tribunale circa l’assoluta carenza di prova dei danni lamentati dall’attore. Questi, infatti, aveva ammesso di aver, seppure in progresso di tempo, rivenduto le macchine rimastegli in magazzino, né era stato dimostrato un danno da ritardo nella vendita stessa, né, ancora, il fatturato degli anni precedenti consentiva di apprezzare l’esistenza e la consistenza di un effettivo pregiudizio riconducibile a quell’unico comportamento di dubbia legittimità per il quale soltanto erano emersi elementi di prova.

Quanto all’appello incidentale, la Corte romana osservava che il credito della società concedente risultava dall’estratto conto dei reciproci rapporti di dare ed avere fra le parti al 31.3.1994, ed era riportato nel libro giornale della convenuta, prodotto ai sensi dell’art. 2710 c.c. Le contestazioni mosse dall’attore all’udienza del 21.12.1994 avevano, poi, trovato puntuale risposta nelle deduzioni rese nel verbale d’udienza del 16.2.1995, rimaste a loro volta prive di riscontro.

Per la cassazione di detta sentenza P.P. propone ricorso, affidato a quattro motivi d’impugnazione.

Resiste con controricorso la L. s.p.a..

Il ricorrente ha, altresì, depositato memoria.

 

Motivi della decisione

1. – Col primo motivo d’impugnazione parte ricorrente denuncia la violazione degli artt. 1175, 1375 e 1337 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché la “erronea” e insufficiente motivazione.

Premesse considerazioni di carattere generale sulla nozione di buona fede nella formazione ed esecuzione del contratto, sostiene che la previsione del diritto di recesso non libera le parti dall’obbligo di rispettare tale principio, e che l’esecuzione del contratto comprende anche l’esercizio del diritto che ne determina la cessazione. Quindi, parte ricorrente ripercorre i fatti che hanno preceduto l’interruzione del rapporto contrattuale fra le parti e ascrive alla società *******, come condotta contraria al dovere di lealtà, di aver dapprima elogiato la ditta Prato, addirittura regalando al suo titolare un viaggio premio, per indurla all’acquisto in contanti di macchine per un valore di lire 374.880.527, e poi, pochi mesi dopo, recedere dal contratto, e conclude nel senso che tale comportamento è da considerarsi lesivo dell’obbligo di buona fede.

2. – Il secondo motivo denuncia la “errata” valutazione delle risultanze istruttorie, nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un “elemento essenziale”, in riferimento “all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c”.

Sostiene parte ricorrente che la Corte d’appello ha valutato i fatti esclusivamente in correlazione all’affidamento della ditta P. sulla prosecuzione del rapporto commerciale, traendone, poi, un giudizio di non rilevanza in ordine all’avvenuto recesso. Tale impostazione, prosegue, non può essere condivisa perché non prende in considerazione gli elementi di prova emersi dalla deposizione del teste *****, all’epoca dei fatti agente della ******* s.p.a., da cui si rileva che la trattativa per l’acquisto delle nove trattrici, avvenuto solo due mesi prima del recesso, si era conclusa su di un piano di assoluta disparità, essendosi il P. convinto dell’affare solo in ragione di pretese difficoltà economiche della concedente, rivelatesi, poi, mendaci.

Assolutamente immotivata e contraddittoria, poi, è la pronuncia di rigetto della domanda di condanna ai danni per concorrenza sleale e violazione del patto di esclusiva. Nonostante le prove documentali offerte in causa dal P.. La Corte territoriale ha concluso nel senso della carenza probatoria circa la pubblicizzazione di nuovi concessionari, per poi affermare successivamente che le norme sulla correttezza professionale non troverebbero applicazione a contratto disdettato. Appare evidente, quindi, prosegue il ricorrente, la contraddizione in cui è incorsa la sentenza impugnata, che da un lato riconosce apertamente la violazione di obblighi contrattuali in ordine al patto di esclusiva, in ragione della lettera con la quale la società ******* autorizzava la ditta M. a partecipare alla fiera del 14.4.1992, e dall’altro afferma non essere stata provata la violazione dell’esclusiva e delle regole di correttezza professionale.

3. – Con il terzo motivo è dedotta la violazione dell’art. 2598 c.c., in riferimento all’art. 360, n. 3 c.p.c..

Sostiene parte ricorrente che la Corte d’appello è caduta nell’errore di aver ricompreso la lesione ex art. 2598 ex. nel più ampio panorama dell’illecito civile previsto dall’art. 2043 c.c., mentre le due situazioni sarebbero del tutto diverse. L’antigiuridicità del comportamento, nel caso dell’illecito civile, sostiene parte ricorrente, è valutata nei suoi riflessi patrimoniali in quanto questi ultimi si siano effettivamente verificati, mentre nell’ipotesi del compimento di atti di concorrenza sleale essa è valutata in sé e per sé, a prescindere dalle conseguenze patrimoniali e dal fatto che esse si siano prodotte. In quest’ultimo caso la quantificazione del danno, il cui risarcimento va accordato per l’antigiuridicità in sé e per sé della condotta, e non “per la lesione di un bene” (così, testualmente, a pag. 25 del ricorso), è difficilmente configurabile, e legittima quindi la richiesta liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c., che, nella specie, la Corte d’appello ha disatteso nonostante la parte odierna ricorrente avesse fornito tutti gli elementi contabili necessari.

4. – Con il quarto motivo è censurato il capo di sentenza relativo all’accoglimento dell’appello incidentale, per violazione e falsa applicazione dell’art. 2709 c.c., in relazione all’art. 360, “nn. 3 e 5 c.p.c.”.

L’art. 2709 c.c., secondo cui i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore, e chi intenda trame vantaggio non può scinderne il contenuto, si basa essenzialmente su ciò, che entrambe le parti hanno la possibilità il richiamare le proprie scritture contabili a proprio vantaggio, in quanto alle annotazioni dell’una facciano riscontro le annotazioni dell’altra. Nel caso di specie, la decisione impugnata si è basata unicamente su dati contabili provenienti dalla sola L., in particolare sulla sola fattura emessa, la quale, per la sua formazione unilaterale ed il suo carattere meramente partecipativo, non è idonea a provare il credito vantato.

5. – Il terzo motivo, da esaminare prioritariamente per le ragioni che seguiranno, è infondato.

Non è dato di comprendere da quale indirizzo di dottrina o di giurisprudenza parte ricorrente tragga il convincimento che l’illecito concorrenziale configurato dall’art. 2598 c.c. sia geneticamente estraneo alla G. di cui all’art. 2043 c.c., e che, per di più, ciò autorizzi l’illazione per cui la violazione dell’art. 2598 c.c. sia in re ipsa produttiva di un danno risarcibile per equivalente, da liquidare – certa per definizione la sua esistenza, quanto difficilmente accertabile il suo esatto ammontare – con valutazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c..

In realtà è vero l’esatto contrario. È del tutto pacifico in dottrina che tra la disciplina della concorrenza sleale e quella dell’illecito civile interceda un rapporto di specie a genere, che consente di colmare le lacune della prima mediante il ricorso alle regole generali proprie della seconda; non senza considerare che tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale non è data una terza ipotesi.

All’opposto di quanto mostra di opinare parte ricorrente, la specificità delle norme repressive dell’illecito concorrenziale non si coglie a livello di determinazione del danno per equivalente, nel senso, cioè, che la distorsione del mercato sia ex se produttiva di un pregiudizio risarcibile, ma, semmai, sotto il profilo dell’elettiva tecnica di repressione adoperata, basata principalmente sull’inibitoria e sugli altri provvedimenti idonei ad eliminare gli effetti della violazione (art. 2599 c.c.), lì dove, invece, è solo l’illecito civile ad essere strutturato in funzione prettamente risarcitoria. E difatti, colpa e danno, coessenziali al paradigma dell’art. 2043 c.c., sono soltanto eventuali, invece, nelle ipotesi di concorrenza sleale previste dall’art. 2598 c.c., e non a caso sono localizzati in una norma a parte sul risarcimento (l’art. 2600 c.c.), che presuppone, al pari dell’art. 2043 c.c., la colpa o il dolo, un danno effettivo (a differenza di quanto richiesto per la tutela inibitoria, accordabile anche per i danni futuri o potenziali) e il nesso causale tra questo e la condotta dei soggetto agente.

Va dunque assicurata continuità all’indirizzo che questa Corte ha avuto modo di manifestare in materia, ossia che il danno cagionato dal compimento di atti di concorrenza sleale non è in re ipsa ma, essendo conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, richiede di essere autonomamente provato secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito. Ne consegue che solo la dimostrazione dell’esistenza del danno consente il ricorso al criterio equitativo ai fini della liquidazione (v. Cass. n. 7306/09; in senso del tutto analogo, cfr. anche Cass. n. 19430/03).

6. – L’infondatezza del suddetto motivo rende inammissibili le prime due censure.

Occorre osservare, infatti, che ove la sentenza impugnata si basi su più autonome rationes decidendi, ciascuna in grado di sorreggere da sola la decisione, il ricorso può trovare accoglimento solo se confuti efficacemente la legittimità di tutte le ragioni. Diversamente, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una sola delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (giurisprudenza costante di questa Corte: cfr. ex pluribus, Cass. nn. 2108/12, 12372/06, 18170/06 e 19161/05).

Esclusa, nella specie, la fondatezza del terzo motivo volto a contrastare la ritenuta carenza di prova di un danno risarcibile, e tenuto conto del fatto che la sentenza impugnata si basa su due rationes decidendi, l’una escludente la condotta lesiva, l’altra escludente, appunto, la prova del danno, le doglianze relative alla dedotta illiceità della condotta della società preponente non hanno più rilievo, essendo comunque inidonee a travolgere la decisione d’appello.

7. – È fondato il quarto motivo, in relazione all’art. 2710 (e ex art. 2709) c.c., applicato dalla Corte territoriale.

L’art. 2710 c.c. stabilisce che i libri bollati e vidimati nelle forme di legge, quando sono regolarmente tenuti, possono fare prova tra imprenditori per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa. Tale norma, di natura eccezionale perché consente all’imprenditore di utilizzare in proprio favore le sue stesse scritture contabili, è giustificata non solo dalla fede attribuibile alle registrazioni effettuate in maniera formalmente e sostanzialmente corretta, ma anche dalla possibilità di raffronto con le scritture della controparte che sia anch’essa imprenditrice. Ne deriva che solo nell’impossibilità di operare tale raffronto – per difetto originario delle scritture dell’altro imprenditore, perché questi non abbia ottemperato all’ordine di esibirle ovvero perché le abbia tenute in maniera irregolare – il giudice può valutare, secondo il proprio prudente apprezzamento e tenuto conto di ogni altro elemento di prova, le scritture di una sola parte.

Tale approdo ermeneutico non si distacca sostanzialmente da altri precedenti di questa Corte, secondo cui l’art. 2710 c.c. pone una presunzione semplice relativa al valore probatorio delle scritture contabili obbligatorie, a condizione che queste non siano contestate e che le registrazioni appaiano attendibili (cfr. Cass. nn. 16513/04 e 3815/82).

7.1.- Nel caso in esame – pacifica la qualità imprenditoriale di entrambe le parti – la Corte territoriale non ha operato un tale confronto, né dalla sentenza impugnata risulta che siano state acquisite agli atti, mediante produzione o esibizione, anche le scritture contabili della parte odierna ricorrente, sicché, in definitiva, l’accertamento operato dai giudici d’appello si è limitato alla mera (e generica) presa d’atto della “puntuale risposta” della società L. alle contestazioni mosse dall’attore al libro giornale prodotto da quest’ultima.

8. – Escluso uno dei due presupposti di applicabilità dell’art. 2710 c.c., si impone, con l’accoglimento del motivo e la cassazione in parto qua della sentenza impugnata, la decisione della causa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, per cui va respinto l’appello incidentale della L. s.p.a..

9. – L’esito complessivo della lite giustifica l’integrale compensazione delle spese del giudizio d’appello e di cassazione, fermo restando il regolamento delle spese di primo grado.

P.Q.M.

La Corte rigetta i primi tre motivi del ricorso, accoglie il quarto motivo, cassa senza rinvio la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito respinge l’appello incidentale. Compensa integralmente le spese d’appello e di cassazione.

Redazione