Corte di Cassazione Penale sez. V 2/3/2010 n. 8262

Redazione 02/03/10
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Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza pronunciata il 24.2.2009, ha confermato il giudizio di responsabilità penale di M.R.A. per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, reso dal Tribunale di Milano il 26.9.2000, riducendo le pene inflitte con il riconoscimento delle attenuanti generiche in via di prevalenza sull’aggravante relativa alla pluralità di fatti. L’imputazione segue al fallimento dell’esercizio commerciale Milano SPORT S.r.l., dichiarato il (omissis).

Interpone ricorso la difesa dell’imputato ed eccepisce:

– l’erronea applicazione della legge penale avendo la Corte territoriale escluso il fenomeno della successione della legge nel tempo, in ossequio alla decisione delle Sez. Un. di questa Corte 28.2.2008, *******, n. 19601, che ha precluso al giudice penale la rivisitazione del dictum del giudice fallimentare, omettendo, tuttavia, di considerare che la nuova normativa introdotta dalla L. n. 5 del 2006, e dal D.Lgs. n. 169 del 2007, ha radicalmente mutato la disciplina della procedura concorsuale assoggettando anche le società commerciali alle soglie quantitative previste dall’art. 1 come novato;

contraddittorietà ed illogicità della motivazione relativa alla condotta di distrazione fraudolenta, per la quale manca la oggettiva prova di effettiva rilevanza penale e l’attribuibilità al ricorrente;

contraddittorietà ed illogicità della motivazione relativa alla condotta di bancarotta fraudolenta documentale, non essendovi possibilità di ascrivere al M. il fatto prima del (omissis), data del suo ingresso nella gestione della società, e risultando che il corredo contabile era deficitario già prima di quel periodo.

Motivi della decisione
L’eccezione preliminare proposta oggi dalla difesa è infondata: nel giudizio di Cassazione non è prevista la presenza dell’imputato. La presenza del difensore (cassazionista) all’udienza preclude ogni eccezione sulla validità del procedimento.

Nel merito il ricorso è infondato e viene rigettato.

Non può esser accolto il primo mezzo. Cass., sez. un., 28 febbraio 2008 n. 19601 ha affermato che "il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta R.D. 16 marzo 1942, n. 267, ex art. 216 e segg., non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fattibilità dell’imprenditore, sicchè le modifiche apportate al R.D. n. 267 del 1942, art. 1, dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, e dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 c.p., sui procedimenti penali in corso" (successivamente nello stesso senso Cass., Sez. 5^, 8 gennaio 2009, *********, CED Cass. 243160).

Siffatta statuizione non è scalfita dalle osservazioni del ricorrente, che esalta la portata innovativa della complessiva riforma del legislatore fallimentare.

Il rilievo non riesce a contestare l’essenziale premessa per cui la decisione del giudice concorsuale si presenta come un fatto oggettivo, storicamente incontestabile, sicchè di esso il giudice penale non può che prenderne atto, senza potestà di sindacato modificativo.

La Corte milanese ha rilevato che esiste prova del pregresso possesso di alcuni beni da parte della S.r.l. Milano SPORT (cfr. ricorso, pag. 11), premessa logica dell’attuale imputazione, una volta verificata la successiva loro scomparsa in seno all’asse attivo concorsuale (non risultando presenti all’atto dell’inventario fallimentare).

Al riguardo il M. non ha fornito alcuna giustificazione (nè in sede concorsuale nè nel contesto processuale), pur gravando sullo stesso l’onere dimostrativo della destinazione assegnata agli stessi (macchinario per ginnastica e partita di scarpe).

Infatti, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, l’imprenditore è posto in posizione di garanzia per la tutela del patrimonio d’impresa, cespite destinato alla soddisfazione delle pretese creditorie, ai sensi dell’art. 2740 c.c.. Legittimo, dunque, è il convincimento della responsabilità dell’imputato a fronte del mancato rinvenimento – all’atto della dichiarazione di fallimento – di beni e valori societari a disposizione dell’amministratore allorquando tale mancanza non sia da questi giustificata o non sia indicata la destinazione assegnata agli stessi.

L’assunto non rappresenta l’applicazione di inammissibile inversione dell’onere della prova, poichè la normativa fallimentare (invariata al riguardo) impone al predetto di fornire ogni utile notizia sulla esistenza di cespiti o ulteriori ricchezza (*******., art. 87, comma 3., invariata sul punto) e, quindi, ascrivendo al fallito la dimostrazione del concreto impiego dei beni o del loro ricavato. L’imprenditore fallito sarà immune da censura penale non soltanto se saprà indicare integralmente l’esistenza di ricchezza da assoggettare alla disciplina concorsuale, ma anche allorquando fornirà prova che l’ammanco dipese da fatti esterni alla sua condotta (es. il mancato pagamento della fornitura dei beni o la loro incolpevole distruzione, ecc.) o da circostanze fisiologicamente connesse alla funzione gestoria (come le eventuali perdite).

Anche il motivo che reclama l’irresponsabilità del M., quanto alla tenuta delle scritture contabili, è privo di fondamento.

A norma degli artt. 2214 e 2241 c.c., l’imprenditore che esercita un’attività commerciale è obbligato, personalmente, alla regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili nella propria azienda. Si tratta di una funzione essenziale per l’esercizio di impresa rappresentando la consistenza del patrimonio, sul quale possono rivalersi i creditori, e la traccia del percorso seguito dalla ricchezza disponibile all’imprenditore. Dunque, non soltanto l’indispensabile strumento probatorio nei traffici commerciali durante la gestione, ma anche un adempimento connotato da specifica rilevanza nella dinamica concorsuale (come attesta il presidio penale accordato ai doveri decritti dalla legge fallimentare all’art. 14, art. 16, n. 3, art. 216, comma 1, n. 2, e art. 217).

Non adempie, quindi, a sufficiente giustificazione nè esime l’imprenditore da penale responsabilità l’asserita incompletezza del corredo contabile addebitabile alla gestione che lo ha preceduto nella conduzione amministrativa. Infatti, una volta che egli abbia accertato la irregolarità delle scritture è obbligato – in forza della tutela delle ragioni creditorie che al predetto fanno capo – a procedere alla loro ricostituzione o integrazione, ricadendo sul medesimo l’obbligo di legge. Egli può avvalersi dell’opera di terzi o delegare ad altri la tenuta contabile, ma permane responsabile per l’attività da essi svolta nell’ambito dell’impresa.

Venendo al merito della vicenda, lo stato penoso della contabilità esclude la possibilità di derubricare in condotta colposa l’omissione, attesa la gravità della condotta di inquinamento contabile. Del resto, la prova della consapevolezza circa l’inadeguatezza del compendio scritturistico si desume dallo stesso ricorso, pag. 15, e l’obbligo di un doveroso ripristino e completamento si apprende dalle stesse parole dell’imputato che ebbe a raccomandare una scrupolosa attenzione annotativa (ricorso, pag. 15). Mentre, proprio nella vigenza del periodo amministrativo del M., le scritture risultarono inagibili per la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.

Se risponde a verità che la condotta di sottrazione, giustificata dalla radicale assenza di documentazione, esige la prova del dolo specifico, deve osservarsi che non vi sono dubbi sulla finalità a cui mirava il buio contabile, alla luce della completa assenza di dotazione patrimoniale nell’esercizio commerciale, evidentemente assoggettato a sistematica distrazione fraudolenta. Al contempo si osserva che il capo di imputazione fattispecie (ad evento) della tenuta della contabilità in guisa da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, implicitamente integrando la lacuna annotativa dell’addebito originario.

Dal rigetto del ricorso discende la condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2009.

Redazione