Corte di Cassazione Penale sez. IV 15/4/2008 n. 15556; Pres. Campanato G.

Redazione 15/04/08
Scarica PDF Stampa
FATTO E DIRITTO

T.G., nella qualità di titolare della omonima impresa individuale, è stato ritenuto responsabile, per colpa specifica, di un infortunio sul lavoro occorso al lavoratore D.T. G., il quale, durante la realizzazione di una controsoffittatura, cadeva dall’alto di un trabattello mobile privo di un dispositivo di blocco, idoneo ad impedirne lo scorrimento, riportando lesioni personali gravi.

Veniva, pertanto, ravvisata la responsabilità dell’imputato anche in ordine alla contravvenzione di cui al D.P.R. n. 164 del 1956, art. 52, comma 3, per l’omessa adozione della cautela antinfortunistica sopra menzionata.

La sentenza di appello, nel confermare in toto l’impostazione della sentenza di primo grado, disattendeva la versione dei fatti sostenuta dal prevenuto secondo il quale la responsabilità del datore di lavoro era stata esclusa dal comportamento abnorme del lavoratore il quale si era arrampicato sul trabattello di sua iniziativa, al termine dell’orario di lavoro e quando i cunei di blocco della impalcatura erano stati ormai rimossi; confermava, pertanto, il giudizio di responsabilità per avere omesso di dotare il tra battello mobile di un dispositivo di blocco previsto dall’art. 52 citato.

Ricorre per cassazione il T. articolando quattro motivi.

Con il primo sostiene il travisamento della prova da parte della Corte di merito che avrebbe ritenuto la sussistenza della prova in atti della mancanza nel cantiere dei cunei di bloccaggio mentre la prova testimoniale e la documentazione fotografica eseguita in occasione del sopralluogo dopo la caduta dell’operaio avrebbero solo dimostrato che in quel momento non vi erano cunei sotto le ruote del trabattello. Dalla mera descrizione dello stato dei luoghi non avrebbe potuto essere logicamente tratta la conclusione sulla quale era stata fondata la responsabilità del prevenuto, tanto più che era stata acquisita agli atti, attraverso le dichiarazioni di un teste della difesa, la prova positiva della esistenza del sistema di bloccaggio.

Con il secondo motivo si duole della manifesta illogicità della motivazione anche nella parte in cui nell’affermare la responsabilità del prevenuto non avrebbe tenuto conto che l’incidente si era verificato dopo la cessazione della giornata lavorativa quando l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro era ormai cessato. Si sostiene, in particolare, che il lavoratore, dopo che il T. aveva dichiarata chiusa la giornata lavorativa e si era allontanato per andarsi a lavare le mani, contravvenendo alle disposizioni ricevute, era risalito incautamente sul trabattello, cadendo. Alla luce di siffatto comportamento, la Corte di merito avrebbe dovuto riconoscere l’abnormità del comportamento imprudente del lavoratore e, per l’effetto, escludere l’addebito di responsabilità a carico del prevenuto.

Con il terzo motivo si lamenta un ulteriore profilo di illogicità della motivazione laddove aveva illogicamente ritenuto l’attendibilità delle dichiarazioni del lavoratore in merito alla ricostruzione della dinamica del sinistro mentre aveva disatteso la versione dei fatti fornita dal datore di lavoro nella denuncia all’INAIL, nella quale si faceva riferimento alla circostanza che il lavoratore era caduto perchè probabilmente colto da malore.

Con il quarto motivo, strettamente connesso al precedente, si duole che, nel verificare l’attendibilità delle dichiarazioni fornite dalla parte lesa, la Corte di merito avrebbe illogicamente giustificato alcune evidenti discrasie con lo stato confusionale del D.T. conseguente all’incidente, ritenendole, invece, credibili sotto altri aspetti, anche se contrarie alle dichiarazioni rese da un teste della difesa, non dipendente del T., per il quale erano stati trasmessi gli atti alla Procura della Repubblica per eventuale responsabilità per il reato di cui all’art. 372 c.p..

Il ricorso non merita accoglimento, siccome manifestamente infondato.

Va ricordato, in premessa, che anche alla luce del nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, non è tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

La previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal "testo" del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purchè specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti del giudice di legittimità, il quale è tuttora giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.

In questa prospettiva il richiamo alla possibilità di apprezzarne i vizi anche attraverso gli "atti del processo" rappresenta null’altro che il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova" finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale.

E’ quel vizio in forza del quale la Corte, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto è stato veicolato o meno, senza travisamenti, all’interno della decisione.

In tal senso, per chiarire, si può apprezzare il travisamento della prova nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, il testimone indicato in sentenza non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (ad esempio, il testimone ha dichiarato qualcosa di diverso da quello rappresentato in sentenza oppure nella ricognizione il soggetto ha "riconosciuto" persona diversa da quella indicata in sentenza) (v., Sezione 4, 14 dicembre 2006, p.c. Bambini ed altri in proc. ********).

Mentre, giova ribadirlo, non spetta comunque alla Corte di cassazione "rivalutare" il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacchè attraverso la verifica del travisamento della prova il giudice di legittimità può e deve limitarsi a controllare se gli elementi di prova posti a fondamento della decisione esistano o, per converso, se ne esistano altri inopinatamente e ingiustamente trascurati o fraintesi. Per intenderci, non potrebbe esserci spazio per una rinnovata considerazione della valenza attribuita ad una determinata deposizione testimoniale, mentre potrebbero farsi valere la mancata considerazione di altra deposizione testimoniale di segno opposto esistente in atti ma non considerata dal giudice ovvero la valenza ingiustamente attribuita ad una deposizione testimoniale inesistente o presentante un contenuto diametralmente opposto a quello recepito dal giudicante.

Ponendosi nella richiamata prospettiva ermeneutica,la doglianza del ricorrente, contenuta nel primo motivo, con la quale si lamenta il travisamento della prova con riferimento alla sussistenza del sistema di bloccaggio del trabattello, si palesa manifestamente infondata, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza gravata alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.

In ogni caso la doglianza sarebbe inammissibile anche alla luce della recente presa di posizione di questa Corte con la sentenza pronunciata dalla sezione 6, 10 maggio 2007, ********, secondo la quale, alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, che consente di dedurre il vizio di motivazione desumibile dagli "atti del processo" specificamente indicati, deve per vero rilevarsi che una "fonte dichiarativa" è per sua stessa definizione scandita da significanze non univoche, sì da doversi escludere che essa possa in linea di principio integrare gli "altri atti del processo" cui potrebbe o dovrebbe estendersi in sede di legittimità lo scrutinio sulla completezza e logicità della decisione impugnata. Infatti, la testimonianza, salvi i casi limite in cui l’oggetto della deposizione sia del tutto definito o attenga alla proposizione di un dato storico semplice e non opinabile (ad esempio: il teste dice bianco, il giudice valuta la deposizione come se avesse detto nero o non avesse detto nulla), è sempre il frutto di una percezione soggettiva del dichiarante anche se attiene a fatti di sua diretta scienza, con la conseguenza che il giudice di merito, nel valutare i contenuti della deposizione testimoniale, è sempre chiamato a "depurare", in diversa misura, il dichiarato dalle cause di interferenza provenienti dal dichiarante: ossia dalla sua capacità cognitiva, dalla sua sensibilità percettiva ed emotiva, dal suo stato di coinvolgimento o meno negli accadimenti che riesuma e descrive. Per l’effetto, affinchè il giudice di legittimità possa esprimere un eventuale giudizio sulla completezza, logicità e non contraddittorietà della motivazione in rapporto all’apprezzamento (di fatto) di una fonte testimoniale operato o non operato dal giudicante, diverrebbe necessario che avesse contezza dell’intero compendio probatorio (tutti gli atti processuali) raccolti fino al momento della decisione, sulla base dei quali svolgere l’analisi comparativa inerente la decisività o non della fonte testimoniale e della incidenza causale dalla stessa svolta (cioè della sua lacunosa o preterita considerazione) nel percorso decisionale del giudice di merito: ciò che è impraticabile in rapporto alla natura del giudizio di legittimità. Dovendosi anzi aggiungere che tale analisi comparativa, preclusa in sede di legittimità, non potrebbe essere neppure surrogata dalla circostanza per cui il testo della sentenza impugnata non rechi menzione (neppure per interpretarne od escluderne il valore dimostrativo o probatorio) di talune delle testimonianze evocate dalla difesa dell’imputato. Anche in tal caso, infatti, qualsiasi apprezzamento imporrebbe la conoscenza dell’intero quadro delle emergenze probatorie, cioè di tutti gli atti processuali pacificamente non ostensibili al giudice di legittimità.

Nel caso in esame, la Corte di merito argomenta la responsabilità dell’imputato per la inesistenza nel cantiere dei dispositivi di sicurezza, in violazione del D.P.R. n. 164 del 1956, art. 52, comma 3, facendo puntuale riferimento alle dichiarazioni testimoniali degli agenti della PS, che effettuarono il sopralluogo subito dopo l’incidente, assunte in sede di rinnovazione della istruttoria dibattimentale.

I giudici di appello, inoltre, con la medesima puntualità, analizzano le dichiarazioni rese dal teste della difesa, rilevandone le manifeste contraddizioni, con la conseguente trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica per l’eventuale responsabilità penale in ordine al reato di cui all’art. 372 c.p..

La tenuta logica della sentenza non può, pertanto, certamente rimanere compromessa, come vorrebbe il ricorrente, dalle dichiarazioni di un teste ritenuto inattendibile dal giudice di merito, e non è neanche consentito a questa Corte, in applicazione dei principi sopra esposti, procedere ad una rinnovata considerazione della valenza attribuita alla medesima deposizione testimoniale.

Manifestamente infondata è anche la doglianza articolata nel secondo motivo, limitandosi il ricorrente a proporre una diversa ricostruzione dei fatti, tesa a valorizzare la tesi di un comportamento abnorme del lavoratore, il quale, al termine della giornata lavorativa, durante la momentanea assenza del datore di lavoro, di sua iniziativa, sarebbe risalito sul trabattello, cadendo.

Anche a voler prescindere dalla assoluta genericità di tale tesi difensiva, rimasta priva di qualsiasi riscontro probatorio, il ricorrente tralascia di considerare che una eventuale imprudenza del lavoratore, pure se fosse stata accertata in sede di merito (e non lo è stata), non autorizza a farne discendere la pretesa interruzione del nesso di causalità, perchè comunque alla base dell’infortunio vi è stata pur sempre la colpa dell’imputato afferente la mancanza dei dispositivi di bloccaggio della impalcatura mobile, come ricostruita in fatto.

Vale il principio in forza del quale, poichè le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile. Peraltro, in ogni caso, nell’ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento (v. da ultimo, Sez. 4, 16 gennaio 2008, Gobbio e altro).

Per le ragioni di principio evidenziate in premessa sono manifestamente infondate anche le doglianze contenute nel terzo e quarto motivo, con le quale si chiede a questa Corte di operare una inammissibile rivalutazione del contenuto delle prove acquisite in sede di merito, solo sulla base del dissenso in proposito articolato nel ricorso.

Alla inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (v. sentenza Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna del medesimo al pagamento delle spese del procedimento e di una somma, che congruamente si determina in mille Euro, in favore della Cassa delle ammende, nonchè alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende, oltre alla rifusione delle spese del grado alla parte civile, che liquida in Euro 2.000,00, oltre spese generali, IVA e CPA, come per legge.

Redazione