Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 11/1/2008 n. 576; Pres. Carbone V.

Redazione 11/01/08
Scarica PDF Stampa
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata il 7.11.1991 V.P., emofiliaco, conveniva davanti al tribunale di Napoli la Usl (omissis) per ottenere il risarcimento dei danni per aver contratto l’Aids a seguito della somministrazione di emoderivati e delle trasfusioni praticate presso l’ospedale (omissis).

Si costituiva la convenuta, contestando la sussistenza del nesso di causalità tra le somministrazioni di emoderivati e trasfusioni avvenute presso la propria struttura ospedaliera, eccepiva la prescrizione del danno, poiché l’ultima somministrazione praticata risaliva al 1984 ed assumeva che, in ogni caso, essa aveva utilizzato emoderivati e sangue la cui commercializzazione era stata autorizzata dal Ministero della Sanità. Il 17.12.1994, in esecuzione di ordinanza del g.i., l’attore chiamava in causa il Ministero della Sanità, chiedendone la condanna in solido.

Il Ministero si costituiva, assumeva il proprio difetto di legittimazione passiva ed eccepiva la prescrizione ex art. 2947 c.c., Il tribunale rigettava la domanda.

La Corte di appello di Napoli, adita dall’attore, con sentenza depositata il 5.4.2002, rigettava l’appello.

Riteneva la corte di merito che non era provato che il V. avesse effettuato le trasfusioni solo presso l’ospedale (omissis) e non anche in altre strutture, poiché egli aveva dichiarato che a partire del 1985 era stato sottoposto a trasfusioni presso strutture pubbliche venete; che, in ogni caso, risultava che le patologie del V. furono accertate dalle strutture venete nel novembre 1986, con conseguente prescrizione del diritto al risarcimento dei danni nei confronti dello Stato, citato nel 1994; che, quanto alla responsabilità della regione, la stessa era da escludere anche per mancanza di colpevolezza della stessa.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’attore, che ha anche presentato memoria.

Resistono con rispettivi controricorsi la gestione liquidatoria della Usl (omissis) di Napoli ed il Ministero della Salute.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. La causa é stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: al nesso causale in tema di responsabilità civile, segnatamente da condotta omissiva; al dies a quo della prescrizione per il risarcimento dei danni lungolatenti.

Con il primo articolato motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2050 c.c., per non avere la Corte di merito ritenuto che la responsabilità del Ministero della Salute nei compiti relativi ad attività connesse ad emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati integrasse attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., per cui competeva al Ministero dimostrare un diverso meccanismo causale rispetto a quello prospettato e dimostrato dal ricorrente.

1.2. Lamenta, inoltre, il ricorrente che la sentenza impugnata ha effettuato una non corretta applicazione dei principi in tema di nesso causale, poiché ha negato l’esistenza del nesso causale, sul rilievo che non poteva escludersi che il contagio da HIV fosse dovuto ad altre emotrasfusioni effettuate successivamente in (omissis) presso altre strutture, oltre quelle precedentemente effettuate presso l’Ospedale (omissis), senza che fosse stata fornita alcuna prova di un diverso meccanismo eziologico delle patologie.

Secondo il ricorrente la motivazione in tema di nesso causale é insufficiente e contraddittoria e la mancata ammissione di una consulenza tecnica ha impedito un accertamento in merito.

1.3. Si duole poi il ricorrente che non sia stato conferito valore probatorio all’accertamento della Commissione medica ospedaliera, che aveva riconosciuto tale nesso eziologico con le trasfusioni effettuate presso l’ospedale (omissis).

2.1. Con la prima censura del secondo motivo il ricorrente lamenta che non sia stata affermata la natura contrattuale del rapporto tra Ministero e paziente assistito, atteso che la normativa attribuisce al Ministero della Salute specifici funzioni e ruoli in relazione all’uso di sangue umano e di emoderivati.

Secondo il ricorrente, pertanto, il Ministero non avendo provveduto a tali controlli, era incorso in un inadempimento contrattuale, con conseguente prescrizione decennale.

3. Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità del ricorso nei confronti della Usi per carenza di interesse.

Infatti la sentenza impugnata, che ha inquadrato la questione nell’ambito della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., ha rigettato la domanda nei confronti della Usl non solo perché non era stato provato con certezza che il contagio fosse avvenuto a seguito delle trasfusioni effettuate presso l’ospedale di tale Usl (omissis) di Napoli, ma anche perché appariva dubbio il profilo della colpevolezza a carico della Usl.

Il ricorrente, che pure ha impugnato la sentenza in merito alla pretesa violazione dell’art. 2050 c.c., in relazione alla posizione del Ministero, eguale impugnazione non ha effettuato in relazione alla posizione della Usl. Ne consegue per la Usl, che, essendo stata esclusa la fattispecie di responsabilità oggettiva extracontrattuale (ove tale si volesse considerare l’ipotesi di cui all’art. 2050 c.c.), la statuizione di mancanza di colpevolezza della stessa é idonea a sorreggere il rigetto della domanda sotto il profilo della responsabilità extracontrattuale (peraltro il ricorrente non impugna la sentenza per mancato esame della domanda nei confronti della Usl sotto il profilo della responsabilità contrattuale, ma solo nei confronti del Ministero).

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, l’omessa impugnazione di tutte le "rationes decidendi" rende inammissibili, per difetto di interesse, le censure relative alle singole ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime, quand’anche fondate, non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre non impugnate, all’annullamento della decisione stessa (ex multis, Cass. 18/09/2006, n. 20118).

4.1. Passando a valutare la natura della possibile responsabilità del Ministero, va anzitutto esaminata la normativa che regolava l’attività dello stesso in tema di emotrasfusione all’epoca dei fatti.

La L. n. 592 del 1967, (art. 1) attribuisce al Ministero le direttive tecniche per l’organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione, e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita la vigilanza, nonché (art. 21) il compito di autorizzare l’importazione e l’esportazione di sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico.

Il D.P.R. n. 1256 del 1971, contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (artt. 2, 3, 103, 112).

La L. n. 519 del 1973, attribuisce all’Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica.

La L. 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio sanitario Nazionale conserva al Ministero della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati (art. 6 lett. b, c), mentre l’art. 4, n. 6, conferma che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale.

Il D.L. n. 443 del 1987, stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla c.d. "farmacosorveglianza" da parte del Ministero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzione del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari sui prodotti in commercio.

Ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria. L’omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l’ordinamento attribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell’interesse pubblico, il quale é strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi.

4.2. Sennonché, indipendentemente dal punto se l’attività di produzione, commercializzazione ed effettiva trasfusione sui singoli pazienti del sangue costituisca attività pericolosa ex art. 2050 c.c., (come pure sostenuto da gran parte della dottrina e da questa Cass. n. 1138/1995, Cass. n. 814/1997, Cass. n. 8069/1993), non altrettanto può dirsi dell’attività esercitata rispetto ad esse dal Ministero, che attiene alla sfera non direttamente gestionale, ma piuttosto di supervisione e controllo. La pericolosità della pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati (riconosciuta nel D.M. sanità 15 gennaio 1991, art. 19, come non esente da rischi e già indicata nella remota sentenza delle S.U. 19.6.1936, in giur. it. 1936, 866, con riferimento al sangue quale possibile veicolo di infezioni) non rende ovviamente pericolosa l’attività ministeriale, la cui funzione apicale, é solo quella di controllare e vigilare a tutela della salute pubblica. Anche gli interventi per la distribuzione e ripartizione del plasma tra le strutture sanitarie o le autorizzazioni per l’importazione del plasma non possono considerarsi elementi di conferma di un’attività in senso lato imprenditoriale (ritenuto da parte della dottrina, elemento necessario per la responsabilità ex art. 2050 c.c.), in quanto si tratta di incombenze meramente complementari e funzionali all’organizzazione generale di un settore vitale per la collettività.

La responsabilità del Ministero della Salute per i danni conseguenti ad infezioni da HIV e da epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per l’omessa vigilanza esercitata dall’Amministrazione sulla sostanza ematica negli interventi trasfusionali e sugli emoderivati appare inquadrabile nella violazione della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c.,

4.3. Va esclusa anche una responsabilità del Ministero ex art. 2049 c.c., non potendo il Ministero rispondere degli eventuali fatti dannosi delle strutture sanitarie, in quanto manca un rapporto di preposizione tra il Ministero e le persone giuridiche pubbliche (Asl, Aziende ospedaliere), tutte dotate di piena autonomia, capacità e responsabilità.

4.5. Proprio per la piena autonomia giuridica, rispetto allo Stato, dell’Ente erogatore dei servizi sanitari va esclusa una responsabilità contrattuale del Ministero.

Tale rapporto contrattuale si instaura solo tra il paziente e la struttura sanitaria e dalla giurisprudenza più recente viene considerato in termini autonomi dallo stesso rapporto tra paziente e medico (fondato su altro "fatto idoneo" di cui all’art. 1173 c.c., e cioé il contatto sociale) e qualificato come contratto atipico di "spedalità" o di "assistenza sanitaria". La prestazione articolata di assistenza sanitaria, dovuta dalla struttura sanitaria ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cosiddetti di protezione ed accessori (cfr. Cass. S.U. 1.2.2002, n. 9556).

Sennonché a tale contratto é completamente estraneo il Ministero della Sanità (ora della Salute).

5.1. Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell’ambito della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., da omessa vigilanza, va ora esaminata la questione del nesso causale in siffatto tipo di responsabilità.

Osserva preliminarmente questa Corte che l’insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile dell’elaborazione penalistica in tema di nesso causale é emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anziché al "fatto illecito", divenuto "fatto dannoso".

In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto – reato (il cui elemento materiale é appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa é il danno e non il fatto in quanto tale.

E tuttavia un "fatto" é pur sempre necessario perché la responsabilità sorga, giacché l’imputazione del danno presuppone l’esistenza di una delle fattispecie normative di cui all’art. 2043 c.c. e segg., le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere.

Il "danno" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica.

Il danno oggetto dell’obbligazione risarcitoria aquiliana é quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui é un elemento l’evento lesivo).

Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi é un danno – conseguenza, non vi é l’obbligazione risarcitoria.

5.2. Proprio in conseguenza di ciò si é consolidata nella cultura giuridica contemporanea l’idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbigazione risarcitoria.

A questo secondo momento va riferita la regola dell’art. 1223 c.c.(richiamato dall’art. 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del fatto lesivo (c.d. causalità giuridica), per cui esattamente si é dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili.

Secondo l’opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perché possa configurarsi, a monte, una responsabilità "strutturale" (******************************) e, dall’altro, il nesso che, collegando l’evento al danno, consente l’individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria (******************************). Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione é ravvisabile, rispettivamente, nell’art. 1227 c.c., commi 1 e 2: il comma 1, attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell’evento dannoso, il secondo comma attiene al rapporto evento-danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni.

Nel macrosistema civilistico l’unico profilo dedicato al nesso eziologico, é previsto dall’art. 2043 c.c., dove l’imputazione del "fatto doloso o colposo" é addebitata a chi "cagiona ad altri un danno ingiusto", o, come afferma l’art. 1382, ************* "qui cause au autrui un dommage".

Un’analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non é richiesta in tema di responsabilità cd. contrattuale o da inadempimento, perché in tal caso il soggetto responsabile é, per lo più, il contraente rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E questo é uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimità partendo dall’ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si é limitata a dettare una serie di soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare il "risarcimento del danno", cui é dedicato l’art. 1223 c.c., con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi particolari, in cui l’inadempimento dell’obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il problema della causalità é stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili.

Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall’art. 2056 c.c., é composto dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche dalla disposizione dell’art. 1225 c.c.. A queste norme si deve aggiungere il principio ricavabile dall’art. 1221 c.c., che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la situazione, quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente avvenuta.

5.3. Ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento é da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).

Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso é riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41 c.p., comma 2, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).

Nel contempo non é sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).

5.4. Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno é responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioé con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex posi, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si é interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta é stata posta in essere, operandosi una "prognosi postuma", nel senso che si deve accertare se, al momento in cui é avvenuta l’azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza. La teoria della regolarità causale, pur essendo la più seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non é andata esente da critiche da parte della dottrina italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale prevedibilità obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non é quello della conoscenza dell’uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poiché non si tratta di accertare l’elemento soggettivo, ma il nesso causale).

In altri termini ciò che rileva é che l’evento sia prevedibile non da parte dell’agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell’evento.

Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo (la colpevolezza) dell’illecito.

Inoltre se l’accertamento della prevedibilità dell’evento, ai fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che quanto maggiore é quel tempo tanto maggiore é la possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell’accertamento positivo del nesso causale (con la conseguenza illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe giovarsi l’attore, sul quale grava l’onere della prova del nesso causale).

5.5. Nell’imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789): rilievo che si traduce a volte nell’affermazione dell’esigenza, per l’imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.

E’ questa l’ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione della regola di cui all’art. 40 c.p., comma 2.

Poiché l’omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione, siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di quell’evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell’obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L’individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l’apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non é possibile apprezzare l’omissione del comportamento sul piano causale.

La causalità nell’omissione non può essere di ordine strettamente materiale, poiché ex nihilo nihil fit.

Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell’omissione e non la causalità normativa (basata sull’equiparazione disposta dall’art. 40 c.p.) fanno coincidere l’omissione con una condizione negativa perché l’evento potesse realizzarsi.

La causalità é tuttavia accertabile attraverso un giudizio ipotetico: l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l’evento? In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l’evento prospettato: la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l’omissione di un comportamento dovuto é di per sé un comportamento antigiuridico), ma perché quell’omissione non é causa del danno lamentato.

Il Giudice pertanto é tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L’accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l’enunciato "controfattuale" che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.

5.6. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p., e dalla "regolarità causale", in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza.

Tanto vale certamente allorché all’inizio della catena causale é posta una condotta omissiva o commissiva, secondo la norma generale di cui all’art. 2043 c.c..

Né può costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche e funzionali tra accertamento dell’illecito civile ed accertamento dell’illecito penale, essendo il primo fondato sull’atipicità dell’illecito, essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed essendo diverso il sistema probatorio.

La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature quante l’atipicità dell’illecito.

Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa accezione da quella sopra esposta, con riferimento all’art. 1223 c.c.), per cui un certo danno é addebitato ad un soggetto chiamato a risponderne ed il legame "causale" tra responsabile e danno é tutto normativo.

5.7. Ritengono queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l’applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., temperati dalla "regolarità causale", ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile.

Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che é successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare. Di questo si vedrà più ampiamente in seguito.

E’ vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura dell’autore del reato, ma come é stato acutamente rilevato, un responsabile é pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un’assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio.

L’atipicità dell’illecito attiene all’evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l’elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione.

E’ vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della responsabilità civile non sempre é una condotta colpevole; ciò comporta solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall’altra non modifica le regole giuridico – logiche che presiedono all’esistenza del rapporto eziologico.

Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva. E’ esatto che tale criterio di imputazione é segnato spesso da un’allocazione del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente é autore di una condotta colpevole (come avviene generalmente e come é previsto dalla clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., secondo il principio classico, per cui non vi é responsabilità senza colpa: "ohne schuld keine haftung), ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero costituisce per l’ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell’illecito, al principio di solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero é il soggetto che aveva la possibilità della cost – benefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicché il verificarsi del danno discende da un’opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.

Sennonché il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad indicare quale é la sequenza causale da esaminare e può anche costituire un supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o l’ingiustizia del danno.

5.8. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito. La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre é propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilità per colpa quest’ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di quest’ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità.

Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica "da fare responsabile". Ciò perché nella fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilità. Tale questione la norma di volta in volta risolve mediante qualcosa di ulteriore, che é costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del danno.

5.9. Sennonché detto ciò, ai fini dell’individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità dal criterio di imputazione, un nesso causale é pur sempre necessario tra l’evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad es. art. 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051, 2052 c.c., e art. 2054 c.c., comma 4), posti all’inizio della serie causale.

Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale "concatenazione causale" tra la condotta di altri e l’evento ovvero tra il fatto di altra natura e l’evento (di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilità oggettiva).

In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l’elemento individuato dal criterio di imputazione e l’evento dannoso.

In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell’agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l’evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell’allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalità nell’illecito civile.

5.10. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico – giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile é la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, ********), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedami: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632). Anche la Corte di Giustizia CE é indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se "appaia sufficientemente probabile" che l’intesa tra compagnie assicurative possa avere un’influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che "occorre postulare le varie concatenazioni causa – effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili").

Detto standard di "certezza probabilistica" in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa – statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni).

5.11. Le considerazioni sopra esposte, maturate in relazione alla problematica del nesso di causalità, portano ad enunciare il seguente principio di diritto per la decisione del caso concreto, attinente alla responsabilità del Ministero della Sanità (oggi della Salute) da omessa vigilanza:

"Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinché fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standars di esclusione di rischi, il Giudice, accertata l’omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata – infine – l’esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione dell’evento".

6. Ne consegue che nella fattispecie va rigettata la prima censura del primo e del secondo motivo di ricorso attinente alla natura della responsabilità del Ministero, come responsabilità da attività pericolosa o come responsabilità contrattuale, mentre va accolta la seconda censura, relativa alla ritenuta mancata sussistenza del nesso causale.

Poiché il Ministero aveva obblighi di farmaco sorveglianza in materia di produzione, commercializzazione e consumo di sangue umano e dei suoi derivati, sull’intero territorio nazionale, avendo ritenuto il Giudice di appello che il contagio da HIV sia dovuto ad emotrasfusione di sangue infetto, é irrilevante, ai fini della responsabilità del Ministero se tali trattamenti sanitari siano avvenuti presso strutture della Usl (omissis) di Napoli o presso altre strutture nazionali. In questi termini, quindi, é irrilevante la censura del ricorrente, secondo cui la corte di merito non avrebbe conferito valore probatorio all’accertamento della Commissione medica ospedaliera, che aveva riconosciuto tale nesso eziologico con le trasfusioni effettuate presso l’ospedale (omissis).

Il Giudice di rinvio in applicazione dei suddetti principi di diritto dovrà valutare se esista nesso eziologico tra il comportamento omissivo di controllo e vigilanza sul sangue utilizzato per emotrasfusioni o emoderivati e la patologia infettiva, riportata dall’attore a seguito della sottoposizione a tali trattamenti sanitari.

7.1. Dai principi sopra esposti in tema di nesso causale da comportamento omissivo, emerge anche il criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero. Questa Corte, con sentenza 31/05/2005, n. 11609, osservava che, finché non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perché l’evento infettivo da detti virus era già astrattamente inverosimile, in quanto addirittura anche astrattamente sconosciuto, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l’evento lesivo, in quanto all’interno delle serie causali non poteva darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produsse l’omissione causante e non successivamente, non apparivano del tutte inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che imponeva l’attività omessa. La corte di legittimità, quindi, riteneva esente da vizi logici la sentenza della Corte di appello, che aveva ritenuto di delimitare la responsabilità del Ministero a decorrere dal 1978 per l’HBC (epatite B), dal 1985 per l’HIV e dal 1988 per l’HCV (epatite C), poiché solo in tali rispettive date erano stati conosciuti dalla scienza mondiale rispettivamente i virus ed i tests di identificazione.

7.2. Ritengono, invece, queste S.U. (in conformità a quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina) che non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioé la lesione dell’integrità fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico é il nesso causale: trasfusione con sangue infetto – contagio infettivo – lesione dell’integrità.

Pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B (la cui individuazione, costituendo un accertamento fattuale, rientra nell’esclusiva competenza del Giudice di merito) sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge.

Non può, invece, ritenersi la responsabilità del Ministero a norma dell’art. 1225 c.c., per cui il responsabile risponde anche dei danni imprevedibili. Infatti tale norma attiene, secondo la condivisibile dottrina prevalente, non al nesso di causalità materiale, ma a quella giuridica, relativa alla valutazione e determinazione dei danni.

8. Con il secondo articolato motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione di legge in tema di prescrizione. Anzitutto il ricorrente lamenta che non sia stata riconosciuta la responsabilità contrattuale del Ministero, con conseguente durata decennale della prescrizione.

Assume poi il ricorrente che nella fattispecie é configurabile una fattispecie di rilevanza penale, e segnatamente un’ipotesi di epidemia colposa o di lesioni colpose plurime, con la conseguenza che opererebbe il più lungo termine di prescrizione penale di tali reati, che é decennale (con riferimento all’epoca dei fatti).

In ogni caso il ricorrente lamenta che ha errato la corte territoriale nel far decorrere il termine prescrizionale dalla data delle trasfusioni di sangue, dovendo il dies a quo coincidere con quello in cui la malattia si era esteriorizzata ed in cui egli aveva avuto conoscenza non solo della patologia, ma anche della causa della stessa.

Infine il ricorrente lamenta che non sia stato riconosciuto effetto interruttivo alla sua richiesta di equo indennizzo, ai sensi della legge 2120/1992, avanzata il 31.3.1992.

9.1. Il motivo é parzialmente fondato.

Anzitutto il ricorrente assume che, essendo di natura contrattuale la responsabilità del Ministero, la prescrizione nella fattispecie era decennale e non quinquennale, come ritenuto dalla corte di merito, sulla base della ritenuta natura extracontrattuale di tale responsabilità.

Tale censura é infondata, in quanto, come sopra rilevato, l’astratta possibile responsabilità del Ministero é configurabile solo quale responsabilità extracontrattuale, a norma dell’art. 2043 c.c..

9.2. Va poi escluso che nella fattispecie il fatto possa costituire un reato di epidemia colposa o di lesioni colpose plurime.

Premesso che il regime della prescrizione penale é cambiato (L. 5 dicembre 2005, n. 251), la prescrizione da considerare, ai fini civilistici di cui all’art. 2947,comma 3, é quella prevista alla data del fatto, mentre il principio di cui all’art. 2 c.p., (legge più favorevole) attiene solo agli aspetti penali.

Per poter usufruire di un termine più congruo di prescrizione sarebbe necessario ritenere ipotizzabili i reati di lesioni colpose plurime o di epidemia colposa, o omicidio colposo, per i quali i termini prescrizionali erano di dieci anni.

Nella fattispecie é anzitutto da escludere il reato di omicidio colposo, non essendo intervenuto alcun decesso.

E’ da escludere anche il reato di epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.), in quanto quest’ultima fattispecie, presupponente la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell’eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di soggetti, non appare conciliarsi con l’addebito di responsabilità a carico del Ministero, prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati: in ogni caso, la posizione del Ministero é quella di un soggetto non a diretto contatto con la fonte del rischio. A ciò si aggiunga che elementi connotanti il reato di epidemia sono:

a) la sua diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell’HCV e dell’HBV non si é al cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero indeterminato di soggetti;

b) l’assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella fattispecie é necessaria l’attività di emotrasfusione con sangue infetto;

c) il carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poiché altrimenti si verserebbe in endemia).

Va esclusa anche la configurabilità del reato di lesioni colpose plurime stante l’impossibilità di individuare in capo al Ministero una condotta omissiva unica dalla quale scaturirebbero le lesioni sofferte dai vari danneggiati, tanto più se si tiene conto che le singole attività di omissioni di controllo e vigilanza fanno capo a diversi soggetti (persone fisiche) succedutisi nel tempo con diversi e successivi atti di autorizzazione alla commercializzazione ed al consumo di partite di sangue.

9.3. Rimane, quindi, solo la configurabilità del reato di lesioni, anche gravissime, non potendosi negare, che per le ragioni sopra dette, il comportamento colposamente omissivo da parte degli organi del Ministero preposti alla farmacosorveglianza sia stata una causa, quanto meno concorrente, nella produzione dell’evento dannoso.

Sennonché anche la prescrizione del reato di lesioni colpose é pari a cinque anni e quindi non comporta alcun effetto degno di rilievo. 10.1. Il punto di maggior rilievo é l’individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione in ipotesi di fatto dannoso lungolatente, quale é quello relativo a malattia da contagio.

Si può ora cominciare con l’osservare come il legislatore italiano del ’42 ebbe ad affidare la soluzione del problema dell’individuazione del dies a quo (exordium praescriptionis) ad indicazioni piuttosto scarne e molto generiche.

Come noto, in base all’art. 2935 c.c., norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L’art. 2947 c.c., comma 1, aggiunge che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il "fatto si é verificato". Quest’ultima norma, pur riferendosi al solo campo della responsabilità aquiliana, ha finito per costituire il terreno elettivo dell’indagine e dell’elaborazione giurisprudenziale sul dies a quo in tutte le azioni risarcitone: a ben vedere, l’individuazione del momento iniziale della prescrizione é infatti sempre stata affrontata partendo dalla specificazione contenuta all’art. 2947 c.c., e dunque con riferimento al fatto originatore del danno, con un ruolo piuttosto defilato da quanto riportato nella prima norma menzionata.

Il codice del 1942 optò per una netta cesura con la tradizione francese e l’impostazione del codice civile del 1865, in cui le azione risarcitorie, sia contrattuali che extracontrattuali, erano sottoposte ad un unico termine prescrizionale, individuato, sul modello francese, in trenta anni. Nel nuovo codice civile il sistema della prescrizione si poneva dunque nettamente sbilanciato a favore dei convenuti, con ovvie ricadute negative per gli attori, soprattutto nei casi aventi per oggetto la violazione di un bene tanto importante quanto quello costituito dalla salute: nel segno della certezza dei rapporti giuridici, si prescindeva infatti da qualsiasi considerazione che riguardasse le ragioni oggettive e soggettive del ritardo della vittima nell’instaurazione della sua pretesa risarcitoria; risultava inoltre esclusa qualsiasi operazione di bilanciamento tra gli interessi della vittima e quelli facenti capo al soggetto evocato in giudizio, la quale operazione permettesse di verificare in concreto la sussistenza in capo al responsabile di un effettivo pregiudizio sul piano della disponibilità della prova in conseguenza del decorso del tempo. Peraltro, il dies a quo fu inizialmente concepito come coincidente con il momento della verificazione dell’evento dannoso. Il quadro codicistico della prescrizione fu così successivamente avversato dagli interpreti sin dagli anni sessanta proprio per la sua rigidità e sostanziale indifferenza alla posizione degli attori. Ciò ebbe a verificarsi soprattutto nel campo del danno alla persona e non fu certo un caso che tale processo di revisione delle norme del codice andò incontro ad una vera e propria svolta negli anni settanta in concomitanza con l’ingresso dirompente del danno biologico nella giurisprudenza italiana: il nuovo modo di concepire la tutela risarcitoria della salute finì per riflettersi non solo sul versante dei danni risarcibili con lo sgretolamento progressivo del 2059 c.c., ma anche sul piano delle regole relative all’an debeatur e della prescrizione. 10.2. Negli ultimi tre decenni si é quindi assistito al sostanziale ribaltamento degli schemi introdotti dal legislatore del ’42: ciò a tal punto che oggi l’istituto della prescrizione presenta ormai una vistosa differenza tra le regole operazionali ed il formante legislativo (principalmente, l’art. 2947 c.c.,comma 1), rimasto invariato nella forma. In particolare, a partire dagli anni settanta, la dottrina e le corti, in primis la Cassazione (24.3.1979, n. 1716), vennero a spostare il dies a quo dal verificarsi del «fatto» all’esteriorizzazione del danno, finendo così per soppiantare in larga misura lo schema codicistico o, perlomeno, l’interpretazione tradizionale di detto schema: se infatti, in virtù della regola della decorrenza dal momento della "manifestazione del danno", l’orizzonte della prescrizione può dilatarsi, é di tutta evidenza come lo schema delineato dal legislatore venga di fatto rovesciato, poiché il limite diventa "mobile".

Il principio della conoscibilità del danno venne infatti ampiamente ripreso, sviluppato ed affinato dalla giurisprudenza successiva proprio all’insegna di una rilettura dell’art. 2947 c.c. alla luce del principio generale sul dies a quo(Cass. n. 8845/1995; 5913/2000). Nell’evoluzione giurisprudenziale questa Corte (Cass. 10.6.1999, n. 5701;Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha nuovamente affrontato il significato da attribuirsi all’espressione "verificarsi del danno", specificando che il danno si manifesta all’esterno quando diviene "oggettivamente percepibile e riconoscibile" anche in relazione alla sua rilevanza giuridica. Nei casi sopra citati emerge peraltro come la Suprema Corte sia tendenzialmente incline a ritenere che il parametro della "conoscibilità del danno" debba necessariamente interpretarsi nel senso che, ai fini del decorso della prescrizione, non é sufficiente la mera consapevolezza della vittima di "stare male", bensì occorre che quest’ultima si trovi nella possibilità di apprezzare la "gravità" delle conseguenze lesive della sua salute anche con riferimento alla loro "rilevanza giuridica".

10.3. Tuttavia il solo modello ancorato al parametro della "conoscibilità del danno" può, in taluni casi, rilevarsi del tutto insoddisfacente e fuorviante: infatti, sviluppare una malattia irreversibile (ad esempio, un’epatite cronica) o comunque duratura, oppure trovarsi permanentemente menomati a livello di integrità psicofisica sono tutte situazioni che, se da un lato sostanziano la "conoscibilità del danno", dall’altro lato non necessariamente danno luogo alla "conoscibilità del fatto giuridicamente rilevante ai fini di un’azione risarcitoria", ovvero alla "conoscibilità del fatto illecito"; in tutta una serie di casi, infatti, la vittima, senza sua negligenza, si trova ad ignorare la causa del suo stato psicofisico o, al massimo, può sul punto formulare mere ipotesi, prive tuttavia di riscontri sufficientemente oggettivi anche ai fini dell’istruzione di una causa sul piano probatorio e certo tali da escludere che l’inattività della stessa possa esplicare effetti negativi sotto il profilo dell’interruzione della prescrizione.

Queste esigenze sono state recepite in un nuovo orientamento della Corte che ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di avere contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma dell’art. 2947 c.c., comma 1, non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all’altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche. Qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non può iniziare a decorrere, poiché la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non é idonea in sé a concretizzare il "fatto" che l’art. 2947 c.c., comma 1, individua quale esordio della prescrizione (Cass. 21/02/2003, n. 2645 ; Cass. 05/07/2004, n. 12287; Cass. 08/05/2006, n. 10493).

Viene applicato, unitamente al principio della "conoscibilità del danno", quello della "rapportabilità causale".

Egualmente é a dirsi per le malattie professionali e per talune ipotesi di lesioni fisiche cagionate da infortuni sul lavoro. Anzi, proprio in relazione a quest’ultimo specifico ambito la Sezione lavoro della Suprema Corte, rapportando l’esigenza di certezza in capo alla vittima, ha ritagliato, attraverso una serie innumerevole di decisioni, una nozione piuttosto precisa di che cosa si debba intendere per "manifestazione del danno" comprensiva, anche della conoscenza della causa professionale della lesione (Cass. n. 2002 del 2005; Cass. n. 19575 del 2004; Cass. n. 23110 del 2004).

10.4. Ritengono queste Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento. L’individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell’"esteriorizzazione del danno" può, come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l’inattività (incolpevole) della vittima rispetto all’esercizio dei suoi diritti.

E’ quindi del tutto evidente come l’approccio all’individuazione del dies a quo venga a spostarsi da una mera disamina dell’evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito o dell’inadempimento – e cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno "occulto" a quello che si manifesta nelle sue componenti essenziali ed irreversibili – ad una rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l’instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest’ultimo eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a ciò tenuto (ciò é pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in tema di medical malpractice).

Va osservato che l’interpretazione dell’art. 2947 c.c., comma 1, nel senso di dar rilievo alla percepibilità e riconoscibilità del danno, nonché alla sua rapportabilità causale, trova conferma nell’espressa disciplina normativa in tema di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni derivanti dall’impiego di energia nucleare e da prodotti difettosi. La L. 31 dicembre 1962, n. 1860, art. 23, comma 1, ("impiego pacifico dell’energia nucleare"), nel testo novellato dal D.P.R. 10 maggio 1975, n. 519, dispone che "le azioni per il risarcimento dei danni alle cose e alle persone dipendenti da incidenti nucleari si prescrivono nel termine di tre anni dal giorno in cui il danneggiato abbia avuto conoscenza del danno e dell’identità dell’esercente responsabile oppure avrebbe dovuto ragionevolmente esserne venuto a conoscenza". Inoltre il D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224, art. 13, commi 1 e 2, (recante "attuazione della direttiva CEE numero 85/374 relativa al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, ai sensi della L. 16 aprile 1987, n. 183, art. 15") prescrive che "Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in tre anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del difetto e dell’identità del responsabile. Nel caso di aggravamento del danno, la prescrizione non comincia a decorrere prima del giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza di un danno di gravità sufficiente a giustificare l’esercizio di un’azione giudiziaria".

10.5. Va specificato che il suddetto principio in tema di exordium praescriptionis, non apre la strada ad una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente ancorato a due parametri obiettivi, l’uno interno e l’altro esterno al soggetto, e cioé da un lato al parametro dell’ordinaria diligenza, dall’altro al livello di conoscenze scientifiche dell’epoca, comunque entrambi verificabili dal Giudice senza scivolare verso un’indagine di tipo psicologico. In particolare, per quanto riguarda l’elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l’ordinaria diligenza dell’uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale patologia era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si é rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa.

Ciò comporta una rigorosa analisi da parte del Giudice di merito sul contenuto della diligenza esigibile dalla vittima nel caso concreto, ovvero sulle informazioni che erano in suo possesso, o alle quali doveva esser messa in condizioni di accedere, o che doveva attivarsi per procurarsi. Ugualmente dovrà essere accuratamente ricostruito ai fini di una motivazione completa e corretta sul punto della prescrizione, lo stato delle conoscenze scientifiche dell’epoca, onde inferirne se la riconducibilità della possibilità di un determinato tipo di contagio dalla trasfusione fosse nota alla comunità scientifica ed ai comuni operatori professionali del settore.

10.6. Il principio, quindi, che va affermato, é il seguente, allorché si versi, come nella fattispecie in tema di responsabilità aquiliana: "Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell’art. 2935 c.c., e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche".

11. Il problema che si pone, anche con riferimento al giudizio in esame, é la valenza del responso delle Commissioni mediche ospedaliere, istituite presso ospedali militari, di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 4, ai fini della decorrenza della prescrizione.

In linea generale non può ritenersi che solo con la comunicazione di tale responso inizi a decorrere la prescrizione, come pure sostenuto da parte della giurisprudenza di merito.

Tale tesi non pare convincente, per diversi ordini di motivi: perché offre effettivamente il destro al creditore per dilatare a suo piacere il corso della prescrizione; perché potrebbe portare ad affermare che il dies a quo inizi anche a decorrere a causa già iniziata, negando l’effetto interrartivo connaturato alla proposizione dell’azione; perché rischia di enfatizzare il ruolo della consulenza medico – legale (effettuata peraltro in riferimento al diverso procedimento di liquidazione dell’indennizzo). Inoltre é illogico ritenere che il decorso del termine di prescrizione possa iniziare dopo che la parte si é comunque attivata per chiedere un indennizzo per lo stesso fatto lesivo, pur nella diversità tra diritto all’indennizzo e diritto al pieno risarcimento di tutte le conseguenze del fatto dannoso.

Tenuto conto che l’indennizzo é dovuto solo in presenza di danni irreversibili da vaccinazioni, emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, appare ragionevole ipotizzare che dal momento della proposizione della domanda amministrativa la vittima del contagio deve comunque aver avuto una sufficiente percezione sia della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili conseguenze dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche. Occorre che il giudice proceda ad un’accurata disamina, puntualmente motivata per sottrarsi al sindacato di legittimità, della diligenza che ha contrassegnato l’atteggiamento della vittima a fronte della sua sofferenza, ovvero alla verifica, avuto riguardo alle particolarità della fattispecie, della diligenza impiegata dalla vittima nell’accedere alle informazioni necessarie per risalire dalla malattia esteriorizzatasi alle sue cause, e, infine, al responsabile del danno.

12. Ne consegue che nella fattispecie sono infondate le censure relative alla decorrenza decennale della prescrizione del diritto al risarcimento del danno per pretesa responsabilità contrattuale del Ministero, ovvero perché il fatto costituisca un’ipotesi di reato di epidemia colposa o lesioni personali plurime, mentre é fondata la censura (punto 2.3. del ricorso) relativamente al dies a quo della decorrenza della prescrizione quinquennale, avendo il Giudice di merito fatto decorrere la stessa dalla data della trasfusione in luogo di quella in cui il danneggiato ha percepito (o avrebbe dovuto percepire) non solo la malattia, ma anche che essa era conseguenza della trasfusione con sangue infetto.

13. Quanto alla censura sollevata con il presente ricorso, (motivo 2.4.) secondo cui la richiesta di indennizzo ha effetto interruttivo della prescrizione, essa é infondata.

Tale richiesta non può avere alcun effetto interruttivo della diversa domanda di risarcimento danni, attesa l’ontologica diversità tra l’indennizzo – indifferente a qualsiasi rilievo sotto il profilo della colpa, e il danno. Come é giurisprudenza pacifica di questa Corte, ai sensi dell’art. 2943 c.c., comma 1, non ogni domanda ha effetto interruttivo della prescrizione, ma soltanto quella con cui l’attore chieda il riconoscimento e la tutela del diritto di cui si eccepisca la prescrizione (Cass. 16/01/2006, n. 726; Cass. 08/02/2006, 2811). Ciò vale a maggior ragione per la domanda avanzata in sede amministrativa di indennizzo, nei confronti della prescrizione della domanda di risarcimento del danno.

14. In definitiva va dichiarato inammissibile il ricorso nei confronti della USL (omissis) di Napoli. Esistono giusti motivi per compensare le spese di questo giudizio tra il ricorrente e la Usl (omissis).

Vanno accolti parzialmente il primo ed il secondo motivo di ricorso nei confronti del Ministero della Salute; va cassata, in relazione, l’impugnata sentenza, con rinvio, anche per le spese del giudizio di cassazione ad altra sezione della Corte di appello di Napoli, che si uniformerà ai principi di cui ai punti 5.11. e 10.6.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso nei confronti della USL (omissis) di Napoli e compensa le spese di questo giudizio tra il ricorrente e la Usl.

Accoglie nei termini di cui in motivazione il primo ed il secondo motivo di ricorso nei confronti del Ministero della Salute. Cassa, in relazione, l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.

Redazione