Colpevoli di omicidio colposo tre agenti della Volante perchè causano la morte di un cittadino per asfissia posturale (Cass. pen. n. 34137/2012)

Redazione 06/09/12
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Ritenuto in fatto

Con sentenza in data 30 giugno 2010, la Corte d’appello di Trieste confermava la sentenza emessa in data 29 gennaio 2009 dal GIP del Tribunale di Trieste che, in esito a giudizio abbreviato, dichiarò: M.M., ****** e D.B.G. responsabili del delitto di cui agli artt. 51, 52, 55, 113, 589 cod.pen. commesso in (omissis) in danno di R.R., condannandoli, concesse le attenuanti generiche, alla pena ritenuta di giustizia, nonché al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, da liquidarsi in separata sede, fatta eccezione per una provvisionale di Euro 20.000,00, per ciascuna e che mandò assolta dallo stesso delitto, G.F. perché il fatto non costituisce reato.
In punto di fatto, si era accertato, in conformità a quanto dedotto nel capo d’accusa, che gli imputati, componenti gli equipaggi delle Volanti tre e quattro della Squadra Volante della Questura di Trieste – a seguito di segnalazione pervenuta alla centrale operativa – erano intervenuti presso l’appartamento occupato dal R. dal quale era stato denunziato, da altri condomini dello stabile, il lancio di alcuni grossi petardi. Gli agenti, al reiterato rifiuto del R. di aprire la porta, avevano fatto irruzione all’interno unitamente ad una pattuglia di Vigili del Fuoco, senza attendere le informazioni richieste alla centrale operativa sul conto del soggetto (all’epoca in cura presso il Centro di salute mentale di D.) e nonostante questi avesse interrotto il lancio dei petardi. A questo punto il R. aveva ingaggiato una violenta colluttazione con gli agenti al cui termine questi erano riusciti ad immobilizzarlo e ad ammanettarlo, dopo averlo spinto a terra. Mantenendolo in posizione prona dopo esser saliti alternativamente sulla schiena del soggetto – che aveva ciononostante continuato a dimenarsi ed a scalciare – gli stessi agenti, esercitando con le ginocchia un’eccessiva pressione sulla schiena, ne avevano ridotto grandemente le capacità respiratorie sì da cagionarne la morte per un’asfissia “da posizione”.
Propongono, per tramite dei rispettivi difensori, distinti ricorsi per cassazione sia gli imputati che le parti civili.
Con ricorso cumulativamente proposto, gli imputati articolano cinque distinte doglianze, così di seguito sintetizzate.
Con il primo, secondo e terzo motivo di ricorso (da trattarsi congiuntamente siccome intimamente connessi) lamentano i vizi di inosservanza od erronea applicazione della legge penale e di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al ritenuto eccesso colposo in legittima difesa ed in adempimento di un dovere ed alla nozione di prevedibilità astratta e concreta dell’evento, posta a base della sussistenza della colpa. La Corte d’appello di Trieste, in violazione della regola di giudizio indicata dalla giurisprudenza di legittimità in tema di applicazione delle scriminanti reali o putative, avrebbe effettuato una indebita e peraltro parziale, valutazione degli accadimenti, ex post (e non ex ante), omettendo in particolare di verificare se il mantenimento a terra del R. ammanettato costituisse pratica giustificata dallo specifico contesto fattuale e se rispondesse a precise regole tecniche applicabili, in quelle stesse circostanze. Inoltre, secondo i ricorrenti, la Corte distrettuale sarebbe incorsa nel vizio di manifesta illogicità della motivazione e comunque di contraddittorietà allorquando ha affermato che, in condizioni di soverchiante resistenza e di apparente ribellione del R. – il quale, benché ammanettato, continuava a dimenarsi (dopo aver tratto in inganno gli agenti, mostrandosi remissivo ed arreso per poi riprendere la colluttazione con rinnovata vigoria, una volta accortosi del rilassamento dei predetti) – gli stessi agenti avrebbero dovuto ricondurre siffatto comportamento a difficoltà respiratorie invece che alla perdurante volontà di ribellarsi e di contrastarli, così incorrendo i prevenuti in errore inescusabile foriero del ritenuto eccesso colposo benché gli istruttori delle scuole di polizia: D.V. e C. (sentiti in qualità di testi) avessero confermato che agli agenti si impartiva l’insegnamento di contenere a terra l’arrestato anche dopo il suo ammanettamento.
Quanto ai requisiti della “prevedibilità” ed “evitabilità” dell’evento astratta e concreta: presupposti della sussistenza della stessa colpa, la Corte distrettuale avrebbe, secondo i ricorrenti, tautologicamente affermato che gli agenti “non potevano non rappresentarsi” che il protrarsi della compressione a terra del torace di un soggetto immobilizzato in posizione prona avrebbe potuto determinare difficoltà respiratorie fino all’asfissia quale causa di morte; quando invece in medicina legale, l’asfissia da posizione costituisce evento improvviso ed inaspettato che colpisce un soggetto in apparenti condizioni di buona salute, quali erano quelle in cui versava il R. al momento del fatto di guisa da non esserne minimante ipotizzabile l’imminente exitus.
Quanto poi alla prevedibilità concreta dell’evento, i Giudici d’appello avrebbero ritenuto inescusabile,ancora con assunti illogici e contraddittori, l’errore di percezione circa le obiettive condizioni di fatto antecedenti all’evento, nel quale qualsiasi agente modello sarebbero incorso, posto che i respiri affannosi, i lamenti, lo stesso continuare a dimenarsi potevano equivocamente denunziare, nel contesto di violenta lotta, una perdurante volontà di ribellione e di fiera opposizione agli operanti piuttosto che una incipiente condizione di asfissia. Con il quarto motivo ed il quinto motivo di gravame lamenta la difesa degli imputati i vizi di violazione di legge e di difetto, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in riferimento al nesso di causa tra la condotta contestata e l’evento – morte. La Corte d’appello di Trieste avrebbe apoditticamente affermato che la prova che il processo asfittico era insorto solamente dopo che il R. era stato ammanettato ed a causa dell’immobilizzazione a terra discendeva dalle deposizioni testimoniali rese dai Vigili del Fuoco secondo cui il soggetto, fino a quel momento, era ancora vivo; omettendo, in tal modo, di verificare se, nella fase temporale successiva all’ammanettamento, il processo asfittico non fosse stato già indotto ed, in caso positivo, se fosse ancora reversibile e quanto tempo fosse durato. Censurano quindi i ricorrenti la motivazione della sentenza impugnata in punto alla affermata sussistenza del nesso di causalità – basata unicamente sulla valutazione di segni esteriori del processo asfittico: rantoli e respiro affannoso ex se equivoci – a fronte del parere espresso dal consulente medico – legale del P.M. che aveva concluso per la ragionevole impossibilità di descrivere la sequenza dei segni e dei sintomi dell’insufficienza del mantice respiratorio e della sua durata tale da condizionare l’evento mortale.
Con distinti ricorsi proposti dalle parti civili: R.D. e V.M.A. e – separatamente – dalla parte civile R.G., i rispettivi difensori censurano la sentenza impugnata per vizi di violazione di legge e di mancanza ed illogicità della motivazione, con riferimento al mancato riconoscimento della responsabilità, a fini civili, dell’agente G.F. Lamentano le ricorrenti, in primo luogo, l’erroneità dell’assunto dei Giudici di merito che hanno ritenuto lecita e giustificata l’irruzione compiuta dagli agenti nell’appartamento occupato dal R. Dal momento in cui la prima volante era giunta sul posto, non era sopravvenuta alcuna situazione di emergenza che imponesse un intervento immediato sul R. che invece si era calmato e veniva veduto dall’appartamento confinante mentre era disteso sul letto. Sostengono quindi le parti civili ricorrenti che la colpevole e negligente condotta degli imputati (già informati delle patologie psichiatriche da cui il R. era affetto e per le quali era in cura al Centro di salute mentale di D.) di fare irruzione nell’appartamento con la prevedibile colluttazione, che ne sarebbe seguita con il R., già di per sé integrava un antecedente causale dell’evento mortale, dovuto ad asfissia posturale giacché il decesso del R. era conseguito al grave affaticamento patito nel corso della colluttazione (condizione di rischio colpevolmente creata dagli agenti) che aveva determinato un rilevante bisogno di ossigeno non compensato e vieppiù aggravato dalla posizione prona in cui gli agenti lo avevano costretto. Sicché, esclusa la liceità dell’irruzione, ad avviso delle ricorrenti, non avrebbe potuto ritenersi “coperta” da alcuna causa di giustificazione l’intera condotta dell’agente G.F. alla quale risaliva, in termini di cooperazione colposa con gli altri imputati, un comportamento collegato da nesso eziologico con l’evento, avendo anch’essa partecipato all’operazione di ammanettamento e per ciò assunto una posizione di garanzia a protezione ed a tutela del predetto, cui era venuta meno. Con una specifica doglianza per vizio motivazionale, la parte civile R.G. si duole della irrisorietà della provvisionale accordata dal Giudice di prime cure alla stessa al pari che agli altri eredi vittima, in ragione di Euro 20.000,00 ciascuno, a fronte della rilevante entità sia delle affezioni patologiche insorte a seguito della perdita del congiunto in drammatiche circostanze come acclarate sia del danno in particolare di ordine morale, patito. Con memoria pervenuta in cancelleria in data 30 novembre 2011, il difensore della parte civile R.G. ha ulteriormente insistito per l’accoglimento del proposto ricorso, richiamandone il contenuto.

 

Considerato in diritto

Ricorsi proposti dagli imputati:
La sentenza impugnata è del tutto immune dai denunziati vizi. I ricorrenti sostanzialmente ripropongono in sede di legittimità, doglianze già dedotte con i motivi d’appello in ordine alle quali la Corte distrettuale ha reso corretta, congrua ed esaustiva “risposta”.
Ciò posto, osserva il Collegio, in ordine ai primi tre motivi, che, con argomentazioni coerenti con le risultanze cosiccome apprezzate dal Giudice di prime cure ed in corretta applicazione delle norme di legge, la Corte d’appello (cfr. fgl. 6 e segg. della sentenza impugnata) ha ribadito che gli agenti di P.S. (esclusa la G., assolta in difetto della prova che anch’essa avesse posto in essere la stessa condotta ascritta ai colleghi, pur avendo partecipato alle iniziali operazioni di ammanettamento; donde il compimento di un’azione integralmente coperta dalle scriminanti) erano colposamente responsabili della morte del R. (per aver in tal modo ecceduto dai limiti stabiliti dalle ipotizzate scriminanti) avendo indebitamente protratto, senza che ve ne fosse la necessità, la contenzione al suolo del soggetto, pur corpulento ed in preda ad intensa agitazione, di guisa da impedire la funzionalità del mantice respiratorio per un rilevante periodo di tempo, ancorché lo stesso fosse stato ormai posto nelle condizioni di non nuocere, siccome immobilizzato a terra, prono, con gli arti superiori ed in inferiori già legati, sanguinante dalla bocca e dal naso. Nessun rimprovero di natura penale poteva invece muoversi agli imputati per aver fatto irruzione nell’appartamento; per aver bloccato a terra il R. in posizione prona e per averlo poi ammanettato.
Chiunque invero – ha altresì evidenziato la motivazione della sentenza impugnata – sarebbe stato in grado di rappresentarsi, secondo le regole della comune esperienza umana, sia in astratto che nelle concrete circostanze fattuali de quibus, (oggetto di una corretta valutazione ex ante compiuta dai Giudici di merito avuto riguardo alla situazione che gli imputati ebbero ad affrontare) la probabilità di cagionare la morte di un soggetto – al quale veniva impedita la funzionalità naturale del mantice toracico – già in fortissimo debito di ossigeno dopo l’ingente sforzo fisico sopportato nella violenta lotta ingaggiata contro quattro agenti, come stava a dimostrare l’affannosa respirazione, i lamenti. Ulteriori accertamenti istruttori avevano altresì condotto a chiarire che, dopo la totale immobilizzazione e l’ammanettamento, gli agenti continuarono a premere a terra il R., in posizione prona, per più di cinque minuti e mezzo. Al fine di conseguire la completa sedazione dell’uomo (che aveva dato vita ad una impegnativa e lunga colluttazione all’atto dell’irruzione nell’appartamento), gli imputati avevano quindi insistito nel mantenere il R. compresso a terra in posizione prona, memori del fatto che, dopo aver allentato la presa al termine della lotta sul letto nel convincimento (poi rivelatosi erroneo) di averne vinto l’opposizione, il predetto aveva ripreso a colluttare, profittando del loro rilassamento. Con tale condotta gli imputati avevano, ad avviso della Corte distrettuale, frainteso per errore determinato da negligenza e da imperizia il dimenarsi del R. (peraltro accompagnato da rantoli, da lamenti e dall’affannosa respirazione, uditi anche dai vicini di casa nonché dal colare del sangue dalla testa fino alla bocca ed al naso tantopiù che, dopo concluso l’ammanettamento, gli agenti erano riusciti ad accendere la luce nella stanza) con il persistere di intenti ancora “bellicosi” dell’uomo, senza minimamente rappresentarsi che potesse sopravvenire il pericolo di asfissia – del tutto prevedibile in dette circostanze fattuali – quale concreto rischio per l’incolumità del soggetto (nei cui confronti, una volta ammanettato e “sottomesso”, gli agenti avevano un obbligo di protezione siccome investiti di una ben precisa posizione di garanzia) pacificamente evitabile solamente rimettendolo in posizione supina o comunque allentando lo stato di compressione sui torace e sull’addome. E comunque hanno opportunamente ribadito i Giudici di seconda istanza che anche il presunto rischio (in verità più potenziale che reale, attese le descritte condizioni in cui si trovava il R.) di restare esposti a ricevere eventuali pugni o calci (ipotesi comunque più astratta che reale) nel caso in cui gli imputati avessero “allentato la presa” non avrebbe dovuto dissuaderli dal far assumere all’ammanettato una posizione più consona a consentirgli di riprendere le normali funzioni respiratorie atteso il prioritario rilievo della salvaguardia dell’incolumità di colui che si trovava sottoposto al loro potere, in nome quindi della ricordata posizione di garanzia che, in conseguenza della pregressa condotta, gli imputati avevano assunto e del principio fondamentale secondo cui l’impiego della coercizione e della forza fisica da parte delle forze dell’ordine e della P.G. deve ritenersi legittimo e giustificato entro i tempi ed i modi risultanti strettamente necessari per addivenire all’immobilizzazione ed all’ammanettamento del soggetto. Gli imputati in conclusione versavano in errore inescusabile ovverosia determinato da colposa negligenza, da macroscopica leggerezza e da imperizia per non essersi accertati, una volta attuata la definitiva immobilizzazione a terra del R., posto in condizione di non nuocere, della condizione di pericolo per la sua incolumità derivante dall’impedimento alla funzionalità respiratoria che la perdurante compressione sul tronco e sull’addome aveva cagionato tanto da provocarne la cianosi del volto riscontrata dall’assistente E.D., capo – pattuglia della Volante n. 1 chiamata a rinforzo quando ormai era troppo tardi per scongiurare l’esito letale (cfr. sentenza di primo grado – fgl. 11).
Né, attesa la prevedibilità concreta dell’evento nelle suddette condizioni fattuali quale dato rientrante nel patrimonio di conoscenza di chiunque, appare legittimo sostenere, ad escludere l’errore di fatto determinato da colpa in cui gli imputati versavano, una volta definitivamente completata la procedura del tutto legittima di ammanettamento del R., che nelle scuole di polizia non sarebbero stati opportunamente evidenziati agli allievi i rilevanti rischi cui restava esposto un soggetto costretto a terra in posizione prona,per effetto della pressione esercitata a tale scopo, sul dorso con le ginocchia o comunque con il peso degli operanti.
Quanto ai motivi quarto e quinto, concernenti l’asserita mancanza del nesso di causa, appare alla Corte, sul punto, incensurabile la motivazione della sentenza impugnata. Ha evidenziato, in primo luogo, la Corte d’appello che il consulente medico – legale del P.M. ebbe ad accertare che causa della morte del R. era stata l’”asfissia da posizione” che, a sua volta, aveva determinato l’arresto cardiaco sopravvenuto circa 4 – 5 minuti dopo l’inizio del processo asfittico, articolato in quattro fasi. Nel caso di specie, secondo il consulente, il decesso doveva porsi in relazione causale “con l’ammanettamento, in soggetto obeso, agitato” in forte debito di energia per aver aggredito gli agenti “sul cui dorso questi erano rimasti ad esercitare pressione; il tutto per un tempo non definito con precisione” che invece ulteriori accertamenti istruttori disposti dal Giudice di prime cure avevano poi consentito di quantificare in circa cinque minuti e mezzo. Inoltre i Giudici d’appello con apprezzamento delle risultanze istruttorie (ed in particolare delle deposizioni testimoniali dei quattro dei Vigili del Fuoco che; terminato il loro compito, si erano allontanati dall’abitazione del R. all’arrivo delle Volanti n. 1 e n. 2 richiesto dalla G. alla sala operativa della Questura) esclusivamente demandato agli stessi giudici di merito (e quindi insindacabile in sede di legittimità perché sorretto dal congrua e logica motivazione) hanno evidenziato che il R., dopo esser stato ammanettato e costretto in posizione prona sul pavimento dagli agenti, era ancora vivo avendo “iniziato ad emettere lamenti, a respirare con affanno a dibattersi ed a muoversi con il corpo; ma poi sempre meno”. Il che valeva pacificamente a smentire la tesi della difesa – anche in questa sede introdotta – circa la sopravvenienza pressoché immediata della morte del R. come si verifica negli shock vaso – vagali; morte da ritenersi invece sopravvenuta nella fase del post – ammanettamento, a conclusione del processo asfittico innescato in detta fase ed a cagione di essa. Ne consegue che, a dimostrazione della ricorrenza del nesso eziologico, l’evento letale era pacificamente evitabile qualora gli agenti avessero interrotto l’attività di violenta contenzione a terra del R., consentendogli di respirare normalmente.
Ricorsi proposti dalle parti civili:
Deve preliminarmente rilevarsi che anche le parti civili introducono nuovamente – e cumulativamente – in questa sede, censure relative sia alla pretesa illegittimità dell’irruzione compiuta dagli agenti nell’abitazione del R. (senza aver previamente atteso l’arrivo sul posto del personale medico del centro di salute mentale di D., presso cui la vittima era in cura ed in difetto di potenziali condotte aggressive della vittima) seguita dall’ammanettamento del medesimo sia alla mancata affermazione della responsabilità, a fini civilistici, anche dell’agente G. che aveva cooperato in tutte le predette attività, non coperte, secondo la prospettazione delle ricorrenti, da alcuna causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere. Ebbene nella motivazione della sentenza impugnata, ad onta delle obiezioni delle ricorrenti, si rinvengono già perspicue e congrue confutazioni a siffatte doglianze. Gli imputati hanno agito in stretto adempimento dei doveri loro incombenti al precipuo ed unico scopo di evitare e di por fine a situazioni foriere di pericolo per l’incolumità di terzi e dello stesso R. (veduto, poco prima, dai condomini presentarsi nudo sul balcone intento a gettare petardi – uno dei quali era esploso vicino alla figlia del portiere dello stesso stabile, intenta a camminare per strada con il cane tanto da subire una sospetta lesione del timpano – ed a compiere inconsulti atti di masturbazione) posta l’intrinseca pericolosità derivante dalla detenzione di sostanze esplosive da parte di soggetto affetto da patologie psichiatriche, come insegna la comune esperienza. Deve altresì osservarsi, come evidenziato nella sentenza di primo grado, che il R., come acclarato in fatto, aveva pesantemente minacciato di morte gli agenti operanti, se avessero fatto ingresso nell’appartamento onde identificarlo ed indurlo a por fine alle azioni di disturbo in danno degli altri condomini.
Gli agenti tuttavia, dopo aver atteso oltre venti minuti nel tentativo di convincerlo ad aprir spontaneamente la porta, dopo essersi peraltro sufficientemente informati dello stato mentale in cui il soggetto versava si videro costretti ad abbattere la porta d’ingressi ed a fare irruzione nell’appartamento, ciò in esecuzione di precisi compiti previsti dagli artt. 55, 348 e 349 cod. proc. pen..
Né, come pacificamente emerso in istruttoria in base alle testimonianze del Responsabile del pronto soccorso dell’Ospedale di Trieste e dei Direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste (cui analiticamente accenna la motivazione della sentenza di primo grado) a nessun altro che agli stessi agenti operanti sul posto sarebbe spettato decidere il da farsi, nella descritta situazione, di guisa che del tutto inconferente ed inutile sarebbe stato attendere lumi dal servizio di salute mentale ovvero l’arrivo di un infermiere, non sussistendo protocolli o disposizioni operative da applicare nella fattispecie, ad onta dei contrari assunti delle ricorrenti. All’atto dell’ingresso nell’appartamento, un volta abbattuta la porta, fu il R. ad aggredire gli agenti (così mettendo in pratica le minacce poco prima profferite al loro indirizzo) scagliandosi con violenza tanto inaudita quanto ingiustificata contro il M. che a sua volta urtò la G., facendola cadere a terra e così cagionando agli stessi lesioni personali. Ne discende quindi che l’intera condotta degli imputati era giudicata del tutto correttamente e legittimamente, scriminata dall’operatività in concreto delle cause di giustificazione dell’adempimento di un dovere e della legittima difesa. I limiti imposti all’operatività in concreto delle suddette scriminanti furono invece colposamente superati solamente allorché fu protratta la contenzione sul pavimento del R. benché ormai immobilizzato e quindi posto in condizione di non nuocere.
Va ancora sottolineato che l’apparato argomentativo della sentenza impugnata resiste alle critiche dedotte dalle ricorrenti per la mancata declaratoria della responsabilità civile dell’agente G. , alla quale era contestato l’addebito commissivo di aver contribuito, in cooperazione colposa con gli altri imputati e colleghi, a cagionare la morte del R. , per asfissia “da posizione” in conseguenza della protratta costrizione a terra esercitata sul predetto dopo averlo immobilizzato ed ammanettato, “sia salendogli insieme od alternativamente sulla schiena che premendo con le ginocchia”. Secondo invece la tesi sostenuta dalle ricorrenti parti civili la responsabilità dell’agente G. – che, al pari degli altri imputati, doveva ritenersi investita di una posizione di garanzia a beneficio del R. nel momento in cui questi era stato posto, dopo l’ammanettamento, sotto il controllo e la custodia degli stessi agenti – avrebbe trovato esclusivamente titolo in un non contestato comportamento omissivo, per non essersi anch’essa accertata delle condizioni compromesse di salute del R., costretto sul pavimento in posizione prona, e per non averne, attesi i rantoli ed il respiro affannoso, agevolato la respirazione intervenendo anche solo per girarlo su di un fianco. In ogni caso, come osservato dal Giudice di prime cure, non vi era prova che l’agente G., che pur aveva partecipato all’irruzione nell’appartamento ed alle operazioni materiali che avevano condotto ad ammanettare il R., avesse anch’essa “contribuito” alla fase successiva di costrizione e di contenimento della vittima, allorché si era prodotto il decesso per avere gli altri agenti ecceduto colposamente dai limiti delle scriminanti di cui, nell’evolversi della precedente sequenza fattuale, avevano fruito. La G., come acclarato in base alle deposizioni testimoniali, fu invece veduta uscire dall’abitazione subito dopo la conclusione dell’operazione di immobilizzazione, per mettersi in contatto via radio con la centrale operativa. Com’è noto, in tanto può dirsi configurabile la cooperazione colposa, in quanto l’agente, posta in atto un’autonoma condotta, abbia preventivamente acquisito la reciproca consapevolezza, con gli altri autori del fatto, di contribuire all’azione od all’omissione altrui da cui consegua l’evento, ovviamente non voluto (cfr. Sez. 4 n. 48318 del 2009); il che non può dirsi dimostrato, in riferimento all’agente G. che non ebbe certa e sicura consapevolezza dell’evolversi della situazione fino alla produzione dell’evento lesivo (essendo uscita dall’abitazione intenta a tutt’altro, prima che avesse inizio la fase della più violenta costrizione sul pavimento del soggetto poi rivelatasi letale) e che comunque nessun teste vide salire sulla schiena del R. ed esercitarvi pressione con le ginocchia (al pari degli altri imputati e colleghi). In punto infine alle doglianze dedotte dalla parte civile R.G. in ordine alla misura della provvisionale liquidata, non può la Corte che richiamare il consolidato e prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. ex multis, Sez. 5 n. 4973 del 1999) secondo il quale il provvedimento di liquidazione della provvisionale non è impugnabile in cassazione, non acquisendo esso valore di giudicato, in sede civile, attesa la provvisorietà che lo contraddistingue e la sua natura meramente delibativa di guida da risultare suscettibile di esser travolto dalle successive statuizioni definitive sulla misura del risarcimento dei danno.
Al rigetto di tutti i ricorsi, segue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna di tutti i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché la compensazione intergale delle spese sostenute dalle parti per il presente giudizio, stante la reciproca soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali;
dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Redazione