Atto lesivo e computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale (Cons. Stato n. 925/2013)

Redazione 15/02/13
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FATTO

1. Con l’appello in esame, il sig. ************ impugna la sentenza 18 aprile 2005 n. 9757, con la quale il TAR per la Sardegna, sez. II, in accoglimento del ricorso proposto dalle signore ****** ed ***********, ha annullato la concessione edilizia 10 agosto 1998 n. 198, con la quale il Sindaco di Iglesias aveva autorizzato la sopraelevazione di un fabbricato in via Vittorio Veneto, confinante con proprietà delle dette ricorrenti.

La sentenza appellata – rigettata una eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività – ha affermato:

– la distanza minima di m. 10 fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precritta dall’art. 9, co. 2, D.M. n. 1444/1968, è applicabile anche in caso di sopraelevazione, atteso che la sua ratio è di evitare la creazione di intercapedini in grado di impedire la libera circolazione dell’aria e la riduzione della luminosità;

– in tal senso deve essere interpretato l’art. 16 NdA del PRG, che prescrive un “distacco minimo di metri 10 tra pareti finestrate di vani abitabili”, intendendosi la distanza applicabile anche nel caso in cui “la parete propriamente finestrata sia una sola”;

– inoltre, “l’obbligo di sopraelevare in un certo modo (a fili fissi) non può comportare, quale effetto, la lesione della posizione del vicino, con una sorta di affrancazione dalla specifica norma sulle distanze in sede di sopraelevazione”.

Avverso tale sentenza, vengono proposti i seguenti motivi di appello:

a) error in procedendo per violazione e falsa applicazione art. 21 l. n. 1034/1971; violazione art. 2697 c.c.; eccesso di potere per carenza di motivazione, erroneità dei presupposti ed illogicità manifesta; poiché “vi era in atti la prova che la piena ed effettiva conoscenza da parte dei ricorrenti non poteva non essersi verificata quanto meno il 13 luglio 1999, data alla quale risaliva il verbale redatto dal tecnico comunale geom. ************”, il quale si recava sul cantiere su segnalazione delle stesse ricorrenti. Di modo che, se pure può sostenersi che le ricorrenti, “pur avendo addirittura le finestre della propria camera da letto sul cantiere nel quale venivano effettuati i lavori pregiudizievoli”, non avessero avuto inizialmente piena cognizione della pretesa violazione delle distanze, “è provato dagli atti che le ricorrenti avessero piena ed esatta conoscenza dell’abuso contestato, quanto meno a far data dal 13 luglio 1999, data nella quale il geom. ************, dopo aver eseguito sopralluogo, riscontrava che la sopraelevazione disposta dall’ing. P. era stata realizzata a poco più di 4 metri dalla loro parete finestrata”. E ciò a fronte di un ricorso notificato iol 10 novembre 1999;

b) violazione art. 3, lett. F) Statuto Sardegna; violazione del principio “lex specialis derogat generali”; violazione e falsa applicazione art. 5 DPGR n. 9743/1977; violazione art. 5 D.A. n. 2666/U del 1983; violazione art. 16, co. 3, norme att. PRG di Iglesias;

c) violazione e falsa applicazione per altro verso art. 21 l. n. 1034/1971, per non avere i ricorrenti impugnato, oltre alla concessione edilizia, anche la disposizione sulla base della quale la concessione era stata rilasciata.

Si sono costituite in giudizio le appellate ****** ed ***********, che hanno concluso richiedendo il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.

All’udienza di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.

 

DIRITTO

L’appello deve essere accolto, in riferimento al primo motivo proposto (sub a) dell’esposizione in fatto), con conseguente declaratoria di inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado per tardività.

Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affrontare (Cons. Stato, sez. IV, 28 maggio 2012 n. 3159) il problema della “piena conoscenza” del provvedimento lesivo, della data della quale far decorrere il termine decadenziale di 60 giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale, pervenendo a conclusioni da ribadire anche ai fini del presente giudizio.

In tal senso, giova ricordare che, ai sensi dell’art. 21, primo comma, l. n. 1034/1971, in precedenza applicabile, “il ricorso deve essere notificato tanto all’organo che ha emesso l’atto impugnato quanto ai controinteressati ai quali l’atto direttamente si riferisce, o almeno ad alcuno tra essi, entro il termine di sessanta giorni da quello in cui l’interessato ne abbia ricevuta la notifica, o ne abbia comunque avuta piena conoscenza, o, per gli atti di cui non sia richiesta la notifica individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione, se questa sia prevista da disposizioni di legge o di regolamento, salvo l’obbligo di integrare le notifiche con le ulteriori notifiche agli altri controinteressati, che siano ordinate dal tribunale amministrativo regionale”.

Attualmente, l’art. 41 Cpa, (co. 2) prevede che “qualora sia proposta azione di annullamento il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso entro il termine previsto dalla legge, decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge.”.

Il successivo art. 43, co. 1, Cpa prevede inoltre che “i ricorrenti, principale e incidentale, possono introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte. Ai motivi aggiunti si applica la disciplina prevista per il ricorso, ivi compresa quella relativa ai termini”.

Quanto al concetto di “piena conoscenza” dell’atto lesivo, lo stesso, anche con riferimento alla previgente disciplina, non deve essere inteso quale “conoscenza piena ed integrale” dei provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale.

Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di “piena conoscenza” – il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale – è la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.

Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.

In tali sensi, è rilevante osservare che l’ordinamento prevede l’istituto dei “motivi aggiunti”, per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento di proposizione del ricorso ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta.

La previsione dell’istituto dei motivi aggiunti (nella formulazione dei medesimi anteriore al nuovo e distinto ricorso per motivi aggiunti, poi introdotto dalla l. n. 205/2000) comprova la fondatezza dell’interpretazione resa della “piena conoscenza” dell’atto oggetto di impugnazione.

Ed infatti, se tale “piena conoscenza” dovesse essere intesa come “conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe ragion d’essere, o dovrebbe essere considerato residuale, ricorrendone l’esperibilità (forse) solo nel caso di atto endoprocedimentale completamente ignoto all’atto di proposizione del ricorso introduttivo del giudizio. Se così si ricostruisse la fattispecie, il termine decadenziale dovrebbe decorrere una sola volta, individuandosi come dies a quo, appunto, il giorno di “integrale” conoscenza di tutti gli atti lesivi.

In altre parole, solo l’assenza dell’istituto dei motivi aggiunti consentirebbe di interpretare la “piena conoscenza” come conoscenza integrale dell’atto impugnabile e degli atti endoprocedimentali ad esso preordinati, poiché in questo (ipotetico) caso si produrrebbe – diversamente opinando – un vulnus per il diritto alla tutela giurisdizionale, in quanto il soggetto che si reputa leso dall’atto si troverebbe compresso tra un termine decadenziale che corre ed una impossibilità di conoscenza integrale dell’atto, e quindi di completa e consapevole articolazione di una linea difensiva.

Al contrario, la previsione dei cd. motivi aggiunti comprova ex se che la “piena conoscenza” indicata dal legislatore come determinatrice del dies a quo della decorrenza del termine di proposizione del ricorso giurisdizionale, non può che essere intesa se non come quella che consenta all’interessato di percepire la lesività dell’atto emanato dall’amministrazione, e che quindi rende pienamente ammissibile – quanto alla sussistenza dell’interesse ad agire – l’azione in sede giurisdizionale.

Ogni aspetto attinente al contenuto del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, ritenuto lesivo, ovvero di atti endoprocedimentali ritenuti illegittimi, incide su profili di legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, e quindi sui presupposti argomentativi della domanda di annullamento.

Ma, come si è detto, la possibilità di sottoporre al giudice ulteriori motivi di doglianza, sui quali fondare e/o rafforzare la domanda di annullamento, non è preclusa dall’ordinamento, proprio per il tramite della previsione dei citati motivi aggiunti.

Tale soluzione prescelta dal legislatore rende compatibili:

– da un lato, il diritto alla effettività ed immediatezza della tutela giurisdizionale, consentendo un immediato “contatto” tra il soggetto che si ritiene leso dall’atto di esercizio del potere amministrativo ed il giudice, per il tramite di una tempestiva proposizione del ricorso e dell’eventuale domanda cautelare. Peraltro, occorre ricordare che in tal modo può essere chiesto al giudice di ordinare all’amministrazione il deposito di ulteriori atti del procedimento (proprio dalla conoscenza dei quali può scaturire l’esigenza di proporre motivi aggiunti), consentendosi in tal modo di integrare, come si è sopra esposto, la domanda originariamente proposta, laddove emergano nuovi profili di (asserita) illegittimità, e quindi di conseguente doglianza;

– dall’altro, l’interesse pubblico alla certezza e stabilizzazione delle situazioni giuridiche come conformate dall’esercizio di potere amministrativo, funzionalizzato appunto alla cura dell’interesse pubblico.

Proprio per queste ragioni, la soluzione prescelta dall’ordinamento risulta pienamente coerente con le esigenze espresse dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ed in particolare dal suo art. 6, in base al quale “ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole”, e dal suo art. 13, in base al quale “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati ha diritto ad un ricorso effettivo innanzi ad una istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.

Quanto sin qui esposto costituisce un dato acquisito della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (ex plurimis, sez. III, 19 settembre 2011 n. 5268; sez. VI, 28 aprile 2010 n. 2439; sez. IV, 19 luglio 2007 n. 4072 e 29 luglio 2008 n. 3750) ed è stato, anche di recente, ribadito dalla giurisprudenza della Sezione, con le sentenze 2 aprile 2012 nn. 1957 e 1958, dalle quali (e dalle conclusioni cui le stesse pervengono) il Collegio non ritiene sussistano ragioni per discostarsi.

Occorre aggiungere, a quanto sin qui esposto, che la verifica della “piena conoscenza” dell’atto lesivo da parte del ricorrente, ai fini di individuare la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale, deve essere estremamente cauta e rigorosa, non potendo basarsi su mere supposizioni ovvero su deduzioni, pur sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche. Essa deve risultare incontrovertibilmente da elementi oggettivi, ai quali il giudice deve riferirsi, nell’esercizio del suo potere di verifica di ufficio della eventuale irricevibilità del ricorso, o che devono essere rigorosamente indicati dalla parte che, in giudizio, eccepisca l’irricevibilità del ricorso instaurativo del giudizio.

3. Nel caso di specie, è senza dubbio condivisibile quanto affermato dalla sentenza impugnata, laddove questa, richiamando diffusi orientamenti giurisprudenziali, afferma che la piena conoscenza della concessione edilizia rilasciata a terzi si verifica, di regola, in assenza di altri ed inequivoci elementi, non col mero inizio dei lavori ma con la loro ultimazione, o almeno quando i lavori stessi siano giunti al punto tale che non si possa avere più alcun dubbio in ordine alla loro consistenza, all’entità e alla reale portata dell’intervento edilizio assentito.

In definitiva, la giurisprudenza applica, con riferimento al caso concreto della concessione edilizia e dei lavori eseguiti in base ad essa, il principio generale sopra enunciato, riaffermando nel caso concreto, che la “piena conoscenza” è conoscenza non già della integralità dell’atto amministrativo (supposto) illegittimo, bensì della lesività del medesimo (desumibile, sempre in riferimento al caso concreto, dai lavori concretamente eseguiti).

Orbene, nel caso in esame, risulta dalla medesima sentenza :

(pag. 3): “su segnalazione (del 25 giugno 1999) delle interessate, odierne ricorrenti, il Comune disponeva un accertamento tecnico in loco”;

(pag. 7): vi è stato un accertamento del tecnico comunale in data 13 luglio 1999 – intervenuto “su segnalazione delle vicine del 25 giugno 1999”) – in ordine alla distanza tra i due edifici, accertamento che ha stabilito che “la distanza fra i due edifici, ed in particolare fra la parete finestrata di proprietà delle ricorrenti e quella (parzialmente in vetro mattoni) del controinteressato non rispetta quella di piano, ponendosi il soppalco ad una distanza di soli 4 metri dalla finestra di ********, anziché 10”.

Orbene, alla luce di quanto risultante dalla sentenza, appare evidente (ritenendosi assolto a tali fini l’onere probatorio incombente sulla parte che propone l’eccezione) che, così come sostenuto dall’appellante, se non alla data del 25 giugno 1999 (in cui vi è stata – secondo la sentenza impugnata – segnalazione delle ricorrenti in I grado), quanto meno alla data del 13 luglio 1999 (data dell’accertamento del tecnico comunale), le ricorrenti in I grado avevano certamente piena conoscenza della lesività del provvedimento autorizzatorio edilizio, in base al quale l’appellante prima eseguiva opere edilizie a soli 4 metri di distanza dalla loro parete finestrata.

Ciò che rileva – in ciò disattendendo le considerazioni delle appellate (in part., pag. 6 memoria 26 settembre 2012) – non è la conoscenza del verbale di accertamento, quanto che, alla data del 13 luglio 1999 (e verosimilmente già alla data del 25 giugno 1999), i lavori edilizi erano pervenuti ad uno stato tale da dimostrare, oggettivamente la lesività del titolo edilizio rilasciato al P., e ciò da parte di soggetti ricorrenti collocati proprio a ridosso di ciò che affermano essere stato realizzato abusivamente..

Da ciò consegue:

– per un verso, che risulta dimostrata la piena conoscenza di opere lesive da parte delle ricorrenti in I grado, in data anteriore al dies dal quale computare il termine decadenziale di sessanta giorni, pur considerata la sospensione feriale;

– per altro verso, che non può trovare adesione quanto affermato in sentenza, in ordine ad un non intervenuto raggiungimento della “prova dell’esecuzione di opere lesive (poste a distanza inferiore a quella prevista dal Piano) prima dell’inizio del mese di giugno 1999 (tenuto conto della sospensione dei termini estivi)”, dato che tale prova, ai fini della verifica del termine decadenziale non appare necessaria, riguardando la determinazione di un “dies a quo” in epoca anteriore a quanto strettamente necessario ai fini della determinazione della (eventuale) decadenza.

Per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere accolto, in relazione al primo motivo proposto (sub a) dell’esposizione in fatto), con riforma della sentenza impugnata e conseguente declaratoria di inammissibilità per tardività del ricorso instaurativo del giudizio di I grado.

Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello proposto da P. Gianluigi (n. 10699/2005 r.g.), lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiara inammissibile il ricorso instaurativo del giudizio di I grado.

Compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 ottobre 2012

Redazione