Appalto svanito: legittimo il licenziamento del lavoratore se non prova che è possibile una nuova collocazione (Cass. n. 15477/2012)

Redazione 14/09/12
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Svolgimento del processo

1.- La sentenza attualmente impugnata (depositata il 1 giugno 2007) conferma la sentenza del Tribunale di Milano n. 4589/05 del 23 dicembre 2005, di rigetto del ricorso di Ma.Ba. contro la società cooperativa S. – (omissis) (infra: S.) diretto ad impugnare il licenziamento intimatogli il 29 marzo 2004 per giustificato motivo oggettivo, consistente nell’essere venuto meno il lavoro che la suddetta società svolgeva per la L., al quale era addetto il ricorrente.
La Corte d’appello di Milano, per quel che qui interessa, precisa che:
a) sono pacifici sia la perdita da parte della S. dell’appalto con la L. alla cui esecuzione era addetto il B. sia la conseguente soppressione del posto coperto dal ricorrente;
b) era, quindi, onere del lavoratore di allegare quali fossero le mansioni alternative, esistenti presso l’azienda datrice di lavoro, che egli avrebbe potuto occupare;
c) ciò non è, invece, avvenuto perché il B. si è limitato a rettificare l’affermazione contenuta nella lettera di licenziamento secondo cui egli avrebbe rifiutato il trasferimento a (omissis) o a (omissis);
d) ne consegue che l’indagine è da considerare circoscritta alla conformità, o meno, al vero, del rifiuto in parola, mentre è precluso ogni accertamento su altre posizioni esistenti in azienda;
c) la suddetta conformità, peraltro, emerge in modo inconfutabile dalle due e-mail datate 8 settembre 2003, prodotte dalla S. (la cui provenienza dal B. non è contestata), nonché dalla testimonianza del B., più attendibile di quella della W. (di segno diverso);
e) in primo luogo, va altresì precisato che è del tutto irrilevante stabilire chi (lavoratore o società) abbia preso l’iniziativa di reperire altre collocazioni lavorative, in quanto ciò che conta è l’incontestato rifiuto senza indicazione di altre possibilità, benché sul sito internet della S., con apprezzabile trasparenza, fosse contenuto l’elenco di tutti i posti disponibili;
f) in secondo luogo, va sottolineato che il B. è stato licenziato “dopo tre mesi dalla perdita dell’appalto” sicché ha “avuto tutto il tempo per accertarsi dell’esistenza di posizioni di lavoro a lui utili” e, “del resto, lo ha rilevato il primo giudice, non è stata contestata in primo grado l’inesistenza di altre posizioni di tale tipo, le quali sono state tardivamente ventilate – ma sempre senza individuazione alcuna – in appello”.
2- Il ricorso di M.B. domanda la cassazione della sentenza per un unico motivo; resiste, con controricorso, la S., che depositato anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

 

Motivi della decisione

I – Sintesi del ricorso.
1.- Con l’unico motivo – illustrato da quesiti di diritto – il ricorrente denuncia: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966; b) in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., difetto di motivazione.
Si rileva che la Corte milanese ha assunto a ragione determinante della propria decisione il rifiuto opposto dal lavoratore al prospettato trasferimento a (omissis) o a (omissis), limitando il relativo accertamento alla veridicità del rifiuto stesso – che, peraltro, era incontestata – ma non ha invece valutato e motivato in ordine alla – contestata tra le parti – sussistenza di una effettiva offerta da parte della società datrice di lavoro della possibilità di trasferimento in una delle due suddette sedi, chiaramente espressa come soluzione alternativa al licenziamento e, in quanto tale, idonea (a fronte del manifestato disinteresse del lavoratore) ad esaurire l’onere di repechage posto a carico del datore di lavoro.
Si sottolinea che la Corte territoriale è incorsa nella violazione delle norme suindicate perché: 1) non ha considerato che il licenziamento è stato intimato molti mesi dopo il disinteressamento manifestato dal B. per il trasferimento in oggetto, mentre il giustificato motivo oggettivo di recesso e la prova datoriale dell’impossibilità di ricollocazione del lavoratore si devono riferire al momento della comunicazione del recesso medesimo (tanto più nel caso di strutture aziendali molto articolate, quale è quella della S., che all’epoca occupava circa 3400 dipendenti, con conseguente variabilità nel tempo delle possibilità di ricollocazione); 2) non ha valutato che l’iniziativa del B. di assumere informazioni per un eventuale trasferimento a (omissis) o a (omissis) non è stata effettuata in concomitanza con una formale proposta proveniente dalla società, come confermato dai testi escussi (vedi, in particolare, testi T. e W.) che hanno escluso che la datrice di lavoro avesse offerto al B. una o più soluzioni disponibili.

II – Esame delle censure.
2.- Il ricorso è da respingere, per le ragioni di seguito esposte.
2.1.- Dal punto di vista della impostazione generale, si rileva che il ricorso non risulta conforme alle disposizioni dell’art. 366-bis cod. proc. civ. (applicabile nella specie ratione temporis) il quale esige, a pena di inammissibilità, che:
a) nei casi previsti dai numeri 1, 2, 3 e 4 dell’art. 360 cod. proc. civ., il motivo sia illustrato con un quesito di diritto – la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza – e, nel caso previsto dal n. 5 dello stesso articolo, che l’illustrazione contenga la chiara e sintetica indicazione del fatto controverso -in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (vedi, per tutte: Cass. 25 febbraio 2009, n. 4556);
b) il quesito di diritto sia specifico e quindi, in particolare, nel caso di prospettata violazione di legge, risponda alla funzione sua propria che è quella di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. 7 aprile 2009, n. 8463).
Nella specie, i due quesiti formulati a corredo delle censure di violazione di legge non risultano specifici – nel senso anzidetto – mentre, per quel che riguarda l’ipotizzato contrasto con l’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., il fatto controverso rispetto al quale la motivazione si assume viziata non risulta chiaramente individuato.
2.2.- D’altra parte, il ricorso non risulta neppure conforme al principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – in base al quale il ricorrente che denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare nel ricorso specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito (trascrivendone il contenuto essenziale), fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. (a pena di improcedibilità del ricorso), nel rispetto del relativo scopo, che è quello di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso che sia chiaro e sintetico (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).
Al riguardo va rilevato che il ricorrente si duole della mancata esplorazione, da parte della Corte d’appello, della sussistenza di un’effettiva offerta di ricollocazione effettuata dalla società, asseritamente dovuta ad un’erronea interpretazione delle prove documentali in atti (comunicazione del licenziamento e precedente corrispondenza intercorsa tra le parti), ma non riproduce il contenuto essenziale dei documenti richiamati, né rispetta l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, cod. proc. civ., dei dati necessari al reperimento degli stessi.
2.3.- Da ultimo – e ad abundantiam – si sottolinea, che nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nell’intestazione del motivo, tutte le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti.
Va ricordato, sul punto, che il controllo in sede di legittimità della adeguatezza della motivazione del giudice del merito non può servire a mettere in discussione il convincimento in fatto espresso da quest’ultimo, che come tale è incensurabile, ma costituisce lo strumento attraverso il quale si può valutare solamente la legittimità della base di quel convincimento e neppure consente di valutare l’eventuale ingiustizia in fatto della sentenza; pertanto, il vizio riscontrato deve riguardare un punto decisivo, tale, cioè, da rendere possibile una diversa soluzione ove il relativo errore non fosse stato commesso (Cass. 12 febbraio 2000, n. 1595).
Nella specie, come si è detto, il contestato “fatto controverso e decisivo per il giudizio” (cui fa riferimento l’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., nel testo risultante dalla sostituzione ad opera dell’art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) non è stato individuato, comunque le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello risultano congruamente – sia pur sinteticamente – motivate e l’iter logico – argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.
D’altra parte, il ricorrente, nel formulare le proprie censure, sembra non tenere conto del consolidato e condiviso orientamento di questa Corte secondo cui: “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice – che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. – il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte; tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti così individuati” (Cass. 8 febbraio 2011, n. 3040; Cass. 18 marzo 2010, n. 6559; Cass. 20 gennaio 2003, n. 777; Cass. 3 ottobre 2000, n. 13134; Cass. 22 ottobre 2009, n. 22417; Cass. 12 giugno 2002, n. 8396).
Ne deriva che nella specie – essendo incontestate sia l’avvenuta soppressione del posto ricoperto dal B. sia la sua sicura riferibilità ad effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo – lo stesso lavoratore avrebbe dovuto offrire la propria collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato (cosa resa particolarmente agevole per il fatto che, nel sito internet della S. , era contenuto l’elenco di tutti i posti disponibili) conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del lavoratore nei posti così individuati.
La Corte milanese – sia pure adoperando alcune espressioni letterali non del tutto appropriate – ha chiaramente costruito tutta la motivazione della sentenza impugnata sull’adesione al suddetto principio, sicché, anche da questo punto di vista, il ricorso non va accolto.

III – Conclusioni.
3.- In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 30,00 (trenta/00) per esborsi, Euro 2000,00 (duemila/00) per onorari, oltre IVA. CPA e spese generali.

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