Ossessionare la ex con la scusa dei figli è stalking

Redazione 31/10/17
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Chi assilla e perseguita l’ex partner provocando in lui o in lei uno stato di tensione prolungata si macchia del reato di stalking, anche se il motivo dei continui contatti dovesse essere lo stato di salute del figlio. O meglio: se il comportamento e i problemi dei propri figli sono utilizzati come scusa per ossessionare il proprio ex compagno il colpevole va comunque condannato senza attenuanti. È questo quanto stabilito dalla quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 49216 del 26 ottobre 2017.

 

Condannato l’uomo che non lascia in pace l’ex moglie

Il caso giunto all’attenzione della Suprema Corte riguarda un uomo già condannato in appello del reato di atti persecutori nei confronti dell’ex moglie. L’uomo sosteneva dinanzi alla Cassazione di essere stato giudicato ingiustamente perché la sua ingerenza nella vita dell’ex compagna sarebbe stata determinata solo dalla necessità di sollecitare l’interesse della madre verso il figlio, che stava attraversando numerosi problemi psicologici e di relazione sociale. Il figlio viveva assieme al padre dopo la separazione della coppia.

La donna aveva era stata a lungo avversata dalla famiglia del marito anche a causa della sua posizione nei confronti del figlio: il marito infatti non le consentiva di sottoporre il ragazzo a una terapia farmacologica consigliata da uno psicologo. Dopo la separazione, la moglie aveva però iniziato una relazione con un altro uomo e si era rifatta una vita. E secondo la Cassazione, è proprio questo -e non la salute del figlio- il motivo per il quale l’ex marito ha iniziato ad assillarla di persona e telefonicamente.

 

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Quali sono le condotte persecutorie?

La legge parla chiaro: il reato di stalking, disciplinato dall’art. 612-bis del Codice penale, si ha quando il colpevole molesta (o minaccia) qualcuno con condotte reiterate in modo da causargli un perdurante e grave stato di ansia o di paura. La reiterazione si ha anche quando la molestia o la minaccia si ripetono per sole due volte, in particolare se la vittima prova fondato timore per la propria incolumità o è costretta ad alterare le proprie abitudini per non incorrere nel persecutore.

Molte, quindi, le condotte che in queste circostanze possono integrare il reato di stalking: non solo il pedinamento fisico e le aggressioni verbali, ma anche le ripetute telefonate e i continui messaggi sui social network. Logico quindi che l’uomo, che a differenza di quanto dichiarato tempestava la donna di messaggi e telefonate e la aspettava per incontrarla sotto casa, sia stato riconosciuto colpevole.

Stalking se la vittima cambia le sue abitudini

La Cassazione respinge allora il ricorso dell’uomo. Inutile anche l’argomentazione che voleva il reato non integrato perché la donna non avrebbe cambiato le sue abitudini e addirittura avrebbe mantenuto la sua residenza e il suo luogo di lavoro vicini a quelli dell’ex marito. Già la Corte d’Appello, giudicando correttamente, aveva rilevato come la donna aveva dovuto limitare le sue uscite serali per timore di incontrare l’uomo e aveva smesso di frequentare una scuola di ballo dove l’ex si era presentato per parlarle. La motivazione, secondo i giudici, sempre la stessa: sfogare la propria frustrazione per l’inizio della relazione della donna con un altro uomo.

Redazione

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