Nuove prospettive per le adozioni da parte dei single.

Pascasi Selene 13/04/06
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Con sentenza n. 6078 del 18 marzo 2006, la prima sezione civile della Corte di Cassazione, nel pronunciarsi su un toccante caso di adozione promosso da una cittadina di origini rumene, lancia un importante segnale al legislatore, teso verso una maggiore sensibilizzazione nei confronti dell’esigenza del soggetto così detto single di vedersi riconoscere il diritto all’adozione.
 
La vicenda ha per protagonista Doinita V., di origini rumene ma residente a Roma dal 1992 e oggi cittadina italiana per avere contratto matrimonio con un uomo del nostro paese. La donna, che nel 2002, ancora single, aveva ottenuto una sentenza di adozione di minore, con pronuncia del tribunale rumeno di Costanza, ne richiede il riconoscimento da parte dello Stato italiano, così da poter portare la piccola Andrea in Italia ed inserirla nella nuova famiglia a tutti gli effetti.
 
Purtroppo, a Doinita il Tribunale per i minorenni di Roma ha negato il riconoscimento della sentenza rumena, poiché la legge italiana preclude di recepire decisioni straniere che regolarizzino fattispecie adottive da parte di una persona singola. Al diniego del Giudice di prime cure, è seguito il ricorso alla Corte d’Appello di Roma, anch’esso rigettato in data 21 aprile 2005, per le stesse motivazioni.
 
Il caso approda così davanti alla Suprema Corte, che non può non seguire la via già percorsa nei primi due gradi di giudizio, ribadendo l’impossibilità di riconoscere una generalizzata adozione internazionale da parte del richiedente non coniugato, giusto il contrasto con la normativa italiana che, a differenza di quella rumena, suole dar valenza a una tal richiesta solo se proveniente da ambo i coniugi.
 
            I Giudici di legittimità precisano che il legislatore “ben potrebbe provvedere, nel concorso di particolari circostanze, tipizzate dalla legge o rimesse di volta in volta al prudente apprezzamento del giudice, ad un ampliamento dell’ambito di ammissibilità dell’adozione di minore da parte di una singola persona, anche qualificandola con gli effetti dell’adozione legittimante, ove tale soluzione sia giudicata più conveniente all’interesse del minore” ma che non si può per questo “fondare il riconoscimento di una generalizzata ammissibilità di tale adozione da parte di persona singola”.
 
In sostanza, nonostante la Convenzione di Strasburgo del 1967 consenta ai singoli Stati di regolamentare liberamente le richieste di adozione da parte dei singoli, salvi il preminente interesse del minore e il criterio di preferenza per l’adozione da parte di coniugi, ciò, come sottolinea la Cassazione, potrebbe avvenire solo in presenza di determinate condizioni.
 
Circa la Convenzione citata, interessante è la lettura della decisione presa dalla Corte d’Appello di Roma, con ordinanza del 9 luglio 1993, per cui “La Convenzione di Strasburgo del 24 aprile 1967 prevede la illimitata possibilità della persona singola di adottare un minore. La norma pattizia internazionale, resa esecutiva in Italia con la legge 22 maggio 1974 n. 357, non e’ suscettibile di abrogazione con legge ordinaria e quindi non e’ modificata dalla successiva legge 4 maggio 1983 n. 184, che limita a casi particolari la possibilità di adozione del minore da parte di una singola persona. La possibilità di adozione consentita dall’art. 6 della Convenzione appare in contrasto con il dettato costituzionale degli artt. 29 e 30, che tutelano i diritti della famiglia e dei minori che della stessa fanno parte. La stessa norma appare di non sicura costituzionalità anche sotto il profilo della irragionevolezza e quindi violatrice dell’art. 3 della Costituzione. Il procedimento dell’ordine di esecuzione conferisce natura speciale alle norme pattizie internazionali e le rende immodificabili da leggi successive finché l’ordine di esecuzione stesso non sia modificato. Ne consegue l’applicabilità’ della Convenzione di Strasburgo e la possibilità ai sensi dell’art. 6 del singolo di adottare, senza limiti di sorta, un minore”.
 
Tralasciando quanto disposto dalla Convenzione di Strasburgo, per comprendere appieno le motivazioni che hanno spinto gli “ermellini” al rigetto dell’istanza proposta dalla donna, occorre ripercorrere le linee essenziali della normativa vigente in Italia in materia di adozioni, disciplinata dalla legge n. 184 del 1983, successivamente modificata con intervento legislativo n. 149 del 2001.
 
Già dal titolo della legge de qua,“Diritto del minore ad una famiglia”, si comprende la ratio seguita dal legislatore, che intende garantire al minore un nucleo familiare stabile, individuandolo nel composto bigenitoriale, più idoneo ad occuparsi del bambino stante in condizioni di abbandono.
 
Entrando nello specifico, la legge n. 184 del 1983, agli articoli 6 e seguenti, prevede una disciplina piuttosto particolareggiata che si va ad analizzare, seppure a grandi linee.
 
Punto di partenza: l’adozione è consentita solo ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni, o, in caso di vita coniugale più breve, che abbiano convissuto in modo stabile nel precedente triennio. Essenziale è il rispetto di determinati requisiti circa l’età degli adottandi, che deve superare di almeno diciotto anni l’età dell’adottando, senza tuttavia oltrepassare i quarantacinque anni di distanza, salva la deroga in caso di danno grave per il minore.
 
La procedura di adozione inizia con la presentazione di un’istanza, valida per tre anni e riproponibile, rivolta ad uno o più Tribunali per i minorenni, con specifica dell’eventuale disponibilità ad accogliere in famiglia più fratelli. Alla richiesta seguiranno, per disposizione giudiziale, delle indagini, svolte da servizi socio-assistenziali ed aziende sanitarie, volte ad accertare l’idoneità concreta ad educare il minore, a sostenerlo economicamente e ad inserirlo in un sano ambiente familiare. Al fine di “toccare con mano” tale idoneità, è previsto un periodo di affidamento preadottivo, sotto la vigilanza del Tribunale, della durata di un anno, decorso il quale, si potrà pronunciare l’adozione, con duplice effetto: scioglimento del rapporto adottato – famiglia di origine ed acquisizione da parte del minore, dello status di figlio legittimo degli adottanti.
 
Se questo è quanto previsto circa l’adozione su istanza di una coppia coniugata, in punto di adozione da parte del single, è bene precisare che il nostro ordinamento non la vieta in toto, ma ne restringe l’ambito di operatività ai casi specifici di cui all’articolo 44 della legge n. 184 del 1983 e alle circostanze tassativamente indicate nel quarto e quinto comma dell’articolo 25 della stessa legge, ferma la preferenza per le coppie coniugate da almeno 3 anni.
 
Il primo comma dell’articolo 44 della legge de qua descrive le situazioni in cui si consente anche al single richiedente di accedere all’adozione nazionale: ove la parte istante sia legata al minore “da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di padre e di madre” (lett. a); qualora il minore risulti affetto da handicap e sia orfano di padre e di madre (lett. c) o, ancora, in presenza di “constatata impossibilità di affidamento preadottivo” (lett. d). Comune denominatore a base della norma, il forte legame con l’adottante o l’estrema difficoltà di adozione.
 
Funge da legante tra la situazione delle adozioni nazionali e quella in tema di adozioni internazionali, l’ordinanza n. 347 emessa dalla Corte Costituzionale di Roma il 29 luglio del 2005.
 
Con tale decisione, l’organo giudicante, nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 29 bis, 31 secondo comma, 35 primo comma, 36 primo e secondo comma e 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184, prende spunto per offrirne un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta all’equiparazione tra adozione nazionale ed internazionale.
 
            In pratica, la Corte ha ritenuto che l’adozione internazionale dovesse incontrare stessi limiti e stesso ambito applicativo di quella nazionale, consentita anche al single, seppur nei casi particolari già esaminati.
 
            La pronuncia prendeva le mosse dalla fattispecie di una cittadina italiana la quale, pur non essendo coniugata, presentava istanza di adozione di una bimba bielorussa gravemente malata e costretta a vivere nel suo paese in condizioni di abbandono.
 
            La richiesta della donna circa l’ottenimento del decreto di idoneità all’adozione era parsa legittimata sia alla luce di quanto disposto dall’articolo 44, lettera d, già richiamato, e sia per carenza di motivazioni fondanti un affidamento della bambina a terzi.
 
            Invero, la difficoltà prospettatasi al giudice costituzionale nasceva dall’intervento legislativo di cui alla legge 31 dicembre 1998 n. 479, che inseriva l’articolo 29 bis, nel corpo della legge n. 184 del 1983.
 
Detta norma, nel disciplinare l’adozione internazionale, faceva espresso richiamo alla sola disposizione contenuta nell’articolo 6 della legge n. 184, senza alcun riferimento all’articolo 44 della stessa, che citava i “casi particolari” nei quali si riconosceva l’adozione al single richiedente; così facendo, il legislatore sembrava voler precludere ogni possibilità di adozione internazionale da parte del single, pur in costanza dei medesimi presupposti in cui si consentiva quella nazionale.
 
Ebbene, la Corte ha ritenuto inaccettabile un’interpretazione meramente letterale della norma, giusto l’evidente contrasto col principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 del testo costituzionale. In effetti, se riconosciuti presupposti valgono a legittimare un’adozione nazionale, non è dato sapere per quali ragioni non possano rilevare anche ai fini di quella internazionale. Inoltre, si creerebbe un’iniqua discriminazione tra minori italiani e stranieri, anche alla luce di quanto dispone l’articolo 30 della Costituzione, che prevede il diritto del minore e non del minore italiano in stato di abbandono ad essere cresciuto in un ambiente a lui idoneo.
 
Ecco perché, a voler dare un’interpretazione costituzionalmente corretta della normativa, l’adozione internazionale, al pari di quella nazionale, dovrebbe essere consentita oltre che alle coppie di coniugi che abbiano preventivamente ottenuto un decreto di idoneità da parte del Tribunale per i minorenni del luogo di residenza e che si siano avvalsi dell’intervento di un ente autorizzato a proseguire la procedura nel paese estero, altresì ai soggetti singoli che si trovino nelle specifiche situazioni descritte dall’articolo 44 della legge n. 184 del 1983.
 
Chiariti i perché dell’ordinanza pronunciata dalla Corte Costituzionale nel luglio del 2005, il panorama normativo non può dirsi completo senza che si accenni a quanto previsto dal quarto comma dell’articolo 36, circa il riconoscimento delle sentenze straniere di adozione. In esso si dispone che l’ordinamento italiano può dare valore ad una pronuncia straniera di adozione solo laddove gli istanti “dimostrino al momento della pronuncia di aver soggiornato continuativamente nello stesso (nel Paese straniero) e di avervi avuto la residenza da almeno due anni”.
 
Tornando al caso di Doinita, e tenendo a mente le considerazioni fin qui effettuate, la sentenza emessa pochi giorni or sono dalla Suprema Corte parrà di maggior comprensione.
 
La Cassazione ha ritenuto di dover rigettare l’istanza della donna per una serie di motivazioni, prima fra tutte la mancanza di elementi probanti circa la sussistenza di quel preesistente “rapporto affettivo e genitoriale di fatto ormai consolidato”, così come vuole l’articolo 44 della legge n. 184 del 1983, alla lettera a.
 
In secondo luogo, con riferimento all’articolo 36 della stessa legge, la Corte ha sottolineato la mancanza, nel caso di specie, del requisito ivi richiesto e relativo al biennio minimo di residenza nel Paese straniero. In effetti, l’ininterrotta residenza di Doinita in Italia, fin dal 1992, appare inconciliabile con la sostenuta comunione di vita ed affetti tra la donna e la minore Andrea, sempre residente in Romania.
 
Per parola della stessa Cassazione, la mancata prova di un tal legame «è stata correttamente valorizzata dalla Corte d’appello romana quale elemento concorrente alla formazione del convincimento della non configurabilità della situazione che, ai sensi della legge 184 del 1983 comma 4 art. 36 legittima il riconoscimento in Italia della adozione pronunciata in un Paese straniero ad istanza di cittadini italiani».
 
E ancora, la Corte ricorda ancora che al di fuori dei citati casi particolari, “la norma non consente ai giudici italiani di concedere l’adozione di minori a persone single. Al contrario, il principio fondamentale al riguardo è quello secondo il quale l’adozione è permessa solo alla coppia di coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni e non ai singoli componenti di questa”.
 
Per concludere, se per i motivi esplicati il caso di Doinita non poteva essere ricompreso tra quelle tassative situazioni legittimanti un’adozione da parte di un single e se l’ordinamento italiano non riconosce un’adozione generalizzata ai soggetti non coniugati, allora i Giudici della prima sezione non potevano che rigettare l’istanza proposta.
 
Consola il fatto che, come spiega il legale della donna, l’avvocato Evandro Senatra, “I coniugi hanno ottenuto, finalmente, con una sentenza passata in giudicato, la n. 15 del 2006, l’adozione speciale della figlia, in base all’articolo 44, lettera d), della legge 184/1983” e comunque, aggiunge, “sono contento dell’invito mosso dalla Cassazione al Legislatore, perché ritengo sia meglio concedere un’adozione a un single che lasciare un bambino in istituto».
 
In effetti, la sentenza emessa dalla Suprema Corte, seppur di rigetto alle richieste formulate, assume valore se inserita nel contesto normativo e se correttamente interpretata.
 
I Giudici di legittimità hanno preso spunto dal caso proposto, per sottolineare che, scrive il il relatore Maria Rosaria San Giorgio, il legislatore ”ben potrebbe provvedere… ad un ampliamento dell’ambito di ammissibilità dell’adozione di minore da parte di una singola persona, ove tale soluzione sia giudicata più conveniente all’interesse del minore”.
 
L’innovazione portata dalla sentenza esaminata sta nell’invito, rivolto all’organo legiferante, al superamento dei limiti imposti dal “diritto vigente”, anche legittimando l’adozione da parte di un single, sempre che risulti “più conveniente all’interesse del minore” e fatta salva la preferenza per l’inserimento dello stesso in un nucleo familiare perfetto.
 
In conclusione, la Cassazione non ha voluto “fondare il riconoscimento di una generalizzata ammissibilità di tale adozione da parte di persona singola”; nessuna rivoluzione dunque, ma solo uno slancio teso verso un’interpretazione più elastica della normativa.
 
Sul punto, interessante è il commento del professor Alberto Gambino, docente ordinario di diritto privato presso l’Università Europea di Roma, il quale sottolinea che il caso in questione, seppur estremo, non “può essere usato come un cavallo di Troia per forzare il nostro sistema normativo e aprire indiscriminatamente all’adozione dei single, che poi significa concretamente allargare l’adozione anche ai conviventi siano essi etero o omosessuali… l’adozione non è un diritto soggettivo di chi vuole adottare. E’ piuttosto il bambino ad avere il diritto, per crescere e svilupparsi armoniosamente, ad una mamma e un papà. Aggiungo che oggi l’alternativa non è tra il rimanere in un istituto o l’essere adottato da un single: infatti il numero delle coppie coniugate pronte ad adottare è, anche sul fronte internazionale, di gran lunga superiore al numero dei bambini dichiarati adottabili. E’, dunque, davvero un falso problema: non si comprende infatti perché si dovrebbe dare al bambino un solo genitore quando si ha la concreta possibilità di dargliene entrambi”.
 
            Sulla stessa linea, l’opinione espressa dal Giudice minorile Melita Cavallo, secondo la quale "Ben venga l’apertura della Cassazione alle adozioni in favore dei single, ma va detto che i bambini preferiscono avere una mamma e un papà come riferimento". Inoltre, nel condividere l’appello che i Giudici hanno rivolto al legislatore, ella aggiunge che “oggi nei confronti delle persone che vivono sole non esiste più un pregiudizio culturale. In ogni caso deve prevalere l’interesse superiore e se coincide con l’affido ad una persona single, allora ben venga. Ma un giudice deve tenere presente anche che un bambino si sente più rassicurato se ha con sé una mamma e un papà. In una coppia solitamente c’è anche una condizione di maggiore stabilità».
           
Sotto altro profilo, la decisione della Corte ha avuto il merito di esortare un allineamento della posizione italiana a quella europea, superando, come affermato dalla senatrice Marisa Nicchi, “una discriminazione inaccettabile, quella che vede la legge esprimere soltanto un tipo unico di genitorialità e di famiglia”.
 
            Di contro, la presa di posizione degli “ermellini” non ha trovato sostegno, come era prevedibile, né nel pensiero delle famiglie adottive, né da parte del mondo cattolico.
 
A conferma, si riporta la critica dell’Anfaa, associazione famiglie adottive e affidatarie, che, insorgendo, lamenta l’assurdità insita nella volontà di ampliare la normativa a vantaggio dei single, giacché, a loro dire “ci sono già tante coppie che non accedono all’adozione, meglio dare due genitori ai bambini piuttosto che uno”.
 
Infine, l’opposizione della Curia secondo la quale “E’ sbagliato sollecitare il Parlamento a legiferare ampliando le opportunità di adozione per i single … dal punto di vista della crescita psicologica del minore una coppia offre garanzie che una persona singola non può dare”; d’altro canto, la reazione del Vaticano era scontata, anche alla luce del fatto che, proprio pochi giorni fa, il presidente della Cei Camillo Ruini, aveva fatto appello al mondo politico nel senso di “una speciale attenzione” per “il sostegno della famiglia legittima fondata sul matrimonio”.
 
In attesa di sapere se e in quali termini il legislatore italiano vorrà cogliere l’imput della Cassazione, di certo il segnale lanciato dagli “ermellini”, accolto o criticato che sia, ha avuto un grande merito: riaccendere i riflettori sulla triste realtà dei tanti minori abbandonati, le cui piccole vite restano, purtroppo, molto spesso “intrappolate” nelle maglie della legge e della burocrazia. Auspicando che la società e il legislatore non perdano mai di vista i diritti e gli interessi dei “grandi di domani”, una considerazione appare doverosa: che ad adottare sia una famiglia o sia un single, l’importante resta soddisfare la sete di affetto e di protezione tatuati nel cuore di ogni minore abbandonato.
 
Avv. Selene Pascasi

Pascasi Selene

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