La Mediazione Civile e Commerciale nel suo aspetto etico, filosofico e sociologico

Rossi Pasquale 12/04/12
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Il decreto legislativo del 4 marzo 2010, n. 28, quale provvedimento delegato, ha, con chiarezza, dato attuazione a quanto stabilito dalla norma delega (art. 60, legge n. 69/2009), che, a sua volta, ha recepito la direttiva CE n. 52 del 2008.

Ha visto la luce, dunque, un nuovo strumento di carattere generale “in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”, così definito, nella rubrica del Decreto 28, dal legislatore delegato.

Non è dato trovare nel nostro panorama giuridico altro esempio comparabile,ove sia stata affidata ad organismi privati (pochi, infatti,sono quelli pubblici in senso stretto) una funzione tanto delicata ed importante, in giusto equilibrio con una serie di controlli preventivi e successivi da parte dello Stato (nella specie a mezzo del Ministero della Giustizia ).

La Mediazione,dunque, è un modello di procedimento che gli interessati possono adottare per risolvere una situazione  di conflitto emersa tra loro,ma che presenta delle caratteristiche del tutto nuove per la nostra formazione giuridica e per lo stesso sistema sociale italiano.

E’ uno strumento volontario, facoltativo, segnatamente autogestito, ma, soprattutto di sistema.

Invero, le ipotesi di cosiddetta mediazione obbligatoria, prevista dall’art. 5 del Decreto 28, costituiscono una semplice deviazione dallo spirito che caratterizza il provvedimento legislativo e rappresenta non un elemento fondante del modello di mediazione conciliativa,bensì una norma che è stata inserita in forma organica nel corpo delle regole guida concepite per la mediazione, ma che sostanzialmente attiene ad una condizione di procedibilità prevista per un eventuale futuro giudizio e che, meglio sarebbe stato inserire,come novella, nel codice di rito processuale civile.

Il vero senso della mediazione si coglie solo se la si considera autonoma e distante dalle altre forme di risoluzione delle controversie(processo od arbitrato) e non collegata da una sorta di propedeuticità.

In modo improprio, la mediazione è stata presentata come svuotata di tutta la sua portata di innovazione e di strumento di elevazione sociale, allorchè  si è parlato di sistema di risoluzione delle liti, alternativo al ricorso al Giudice ordinario, nonché di finalità della mediazione rivolta a far diminuire le procedure contenziose che intasano i tribunali,i quali, a loro volta, sono inadeguati,per strutture ed organico, a gestire la mole del contenzioso stesso.

La lettura controluce di tali argomentazioni è che, se i tribunali fossero in grado di assolvere al loro compito istituzionale,le procedure diverse ed alternative sarebbero del tutto inutili e, comunque, non competitive.

Questo messaggio è stato recepito e percepito dai cittadini, i quali rispetto a questo nuovo strumento sono rimasti perplessi e distaccati.

Con tutta probabilità la classe politica lo ha inteso effettivamente come un mero ed ulteriore tentativo, imposto dall’Europa, di deflazionare il ricorso al tribunale, dimostrando, ancora una volta,di non aver prestato la giusta attenzione alle effettive esigenze sociali ed ai mezzi per farvi fronte, né di aver colto l’occasione di un rimedio suggerito dalla Unione Europea per utilizzarlo quale opportunità per dare una significativa spinta alla evoluzione democratica, di cui l’autogestione delle proprie criticità è portatrice.

Il considerare la magistratura, quale emanazione del potere giurisdizionale avocato a sé dallo Stato, come riferimento assorbente o,quanto meno,prevalente, cui far ricorso per ristabilire l’ordine posto in discussione dai conflitti, è retaggio illuministico,che deve rimanere sempre valido, ma va via via stemperato parallelamente  alla evoluzione dei tempi ed alla maturazione del senso della Comunità.

La conciliazione deve essere intesa, infatti,nella prospettiva della crescita sociale,come un momento importante e di alto valore etico, ove i soggetti in lite si confrontano dinanzi ad un terzo imparziale, il quale non decide la loro sorte, ma li assiste nella serena ricerca di un accordo in un contesto informale, lasciando alle parti la gestione dei loro interessi e l’assunzione della responsabilità personale delle scelte.

La mediazione, quindi, può a buon titolo reclamare un posto importante tra le forme di esercizio di democrazia diretta, oltre che in quelle di privatizzazione  dei servizi più importanti.

La mediazione finalizzata alla conciliazione è la giusta sede e l’opportuna dimensione di confronto per tutti coloro che ritengono di essere in grado di esaminare criticamente la propria posizione ed il proprio operato di fronte all’altro (ed al soggetto terzo) in condizione di assoluta parità con il contendente, senza lo spettro della soccombenza e l’ansia di dipendere dall’altrui giudizio che sancisca la vittoria delle ragioni dell’uno su quelle dell’altro.

Per tali motivi essa ha un grado di valore sociale più elevato del procedimento contenzioso, perché, pur nella egualità del fine, che è quello di risolvere la controversia, passa attraverso un lavoro culturale di fondo, in cui il conflitto viene considerato come risorsa, in quanto educa ciascuno a considerare in modo meditato le proprie, ma anche le ragioni avverse,a ritenere che ognuno ha una visione parziale della realtà e che può acquisire, attraverso il conflitto,anche il punto di vista dell’altro, senza, per questo, sminuire il proprio, ma che, anzi, può arricchirlo di altre componenti e di ulteriori metodi di ragionamento che prima gli erano estranei.

La conciliazione diffonde la cultura che strumentalizza positivamente e creativamente la differenza delle posizioni ed utilizza il conflitto come occasione per misurarsi con il proprio equilibrio, con il personale buon senso, e capacità di valutare la propria utilità concreta che può discendere da ogni situazione, la quale, apparentemente e se affidata alla esclusiva decisione di un terzo, sembrerebbe avere una unica soluzione, spesso legata ad obblighi di natura procedurale(come accade dinanzi al Giudice ove le parti sono legate alla loro domanda e pretesa iniziale), vale a dire la vittoria di una parte e la soccombenza dell’altra, non anche la reciproca soddisfazione in seguito ad una soluzione del tutto diversa da quella chiesta o sperata dai contendenti, ma sorta,eventualmente, in seguito alla sapiente arte della maieutica,di socratica memoria, del mediatore.

La gestione personale del conflitto è un’espressione concreta di maturità individuale e collettiva, oltre che di accrescimento della personale autostima.

E’ necessario, quindi, che, unitamente alla formazione professionale dei mediatori,si cominci a pensare ad un impegno di informazione e formazione diffusa in termini di educazione sociale alla autogestione, che può andare ben oltre quella, specifica e circostanziata, preposta al confronto conciliativo, rappresentando, altresì, un elemento che addirittura può prevenire le situazioni di divergenza tra individui di una Comunità, come già auspicava il Consiglio d’Europa con la Raccomandazione del 18 settembre 2002.

Il fine ultimo della mediazione dovrà essere quello di fare in modo che la composizione stragiudiziale della controversia divenga e  rappresenti il modo ordinario di superamento dei contrasti,mentre il ricorso al Giudice  costituisca l’eccezionale alternativa,vale a dire l’ADR rispetto alla declamata autogestione del conflitto.

Oggi,invece, accade ancora l’esatto contrario ed i sistemi alternativi al ricorso giurisdizionale vengono considerati un semplice e poco convincente ripiego,ritenendosi che l’autorità giudiziaria sia l’unico organo in grado di decidere con autorevolezza ed obbligatorietà la sorte di qualsiasi vicenda interpersonale o di carattere economico, abdigando, così, al ruolo di dominus della propria vicenda conflittuale e rinunciando a riflettere sulle diverse soluzioni possibili, sulle quali valutare il grado di rispondenza ai propri interessi o, più ampiamente, alle personali utilità.

In sintesi, la funzione della mediazione finalizzata alla conciliazione non può essere colta come rimedio esterno ad una insuperabile inefficienza della Giustizia civile statale, bensì l’applicazione pratica di una nuova e diversa cultura giuridica, che ha il suo punto di forza non nella obbligatorietà, ma nel convinto accesso facoltativo, oltre che nella consapevolezza di avere la possibilità di ricercare tutte le soluzioni possibili, senza vincolo alcuno.

                         

Avv. Pasquale Rossi
(Presidente di I.S.G.E.U.S.A. – Associazione per le scienze giuridiche, economiche e sociali)

Rossi Pasquale

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