La disciplina normativa dei prodotti difettosi

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1. Quadro normativo sulla responsabilità civile da prodotti difettosi

Nel presente articolo si tratta di analizzare quale disciplina sia applicabile ai dispositivi con annessa I.A.: posto che essi non sono e non possono essere al momento attuale soggetti giuridici, non resta, oltre al normale regime di responsabilità per colpa[1], che la disciplina sui beni mobili e sui prodotti difettosi ad essere applicabile, mancando qualsiasi altra sorta di legislazione specifica in tal senso.

La responsabilità da prodotti difettosi è stato uno degli elementi che hanno consentito in Italia il superamento del concetto di colpa quale esclusivo criterio di imputazione del fatto illecito, contestualmente all’affermazione di una funzione non più meramente sanzionatoria, ma essenzialmente riparatoria della responsabilità civile[2]. Le caratteristiche dei moderni processi di fabbricazione industriale rendono infatti difficilmente evitabile, nonostante tutte le misure di controllo prescritte, il rischio legato alla comparsa di difetti di fabbricazione e di progettazione[3]. Per tale motivo il produttore poteva essere ritenuto colpevole quando non aveva rispettato le norme di produzione e/o controllo volte ad impedire il difetto del prodotto. Tuttavia, il consumatore, che aveva risentito un danno conseguente il difetto del prodotto, si trovava quasi nella impossibilità processuale di dimostrare la colpa del produttore, la quale nel settore della produzione e dei beni di consumo non poteva più essere un criterio idoneo a garantire un’adeguata protezione al consumatore. Non esistevano, infatti, fino al 1988 normative nazionali in materia, dovendo aspettare l’impulso comunitario per poter affermare un criterio di imputazione diverso dalla colpa. Il primo carattere che può dunque essere notato è che il legislatore italiano non si è mai attivato sua sponte nel regolare il settore in questione, sempre invece rispondendo con leggi speciali ad impulsi esterni derivanti dal nomoteta comunitario[4]. I provvedimenti normativi sono difatti tutti in attuazione di direttive europee in materia: come primo complesso normativo si ha il d.P.R. 224/1988, di applicazione ad attuazione della direttiva europea 374/1985/CE, che si rivolge particolarmente alla responsabilità per danni da prodotti difettosi e suo regime di responsabilità, nonché il decreto legislativo correttivo n. 25/2001, di attuazione della direttiva europea 34/1999/CE. Tutto questo disposto è poi stato convogliato all’interno del Codice del Consumo dal d. lgs. 206/2005 agli artt. 102-113, che regolano la sicurezza dei prodotti, e agli artt. 114-127, che invece si occupano di responsabilità del produttore. Si lascia come unico corpus dispositivo originario il codice civile del 1942, che provvede alla regolazione con articoli in materia di compravendita e di garanzia per i vizi della cosa venduta, agli articoli 1490 e ss. CC, nonché con le generali regole relative al regime di responsabilità per colpa e per attività ritenute pericolose, agli artt. 2043 e 2050 CC in tema di responsabilità per colpa e per l’esercizio di attività pericolose (si potrebbe estendere il discorso anche agli artt. 2051 e 2052, rispettivamente per danni causati da animali e da cose in custodia)[5]. Si dovranno perciò analizzare le regolamentazioni approvate dagli organi legislativi europei in materia di prodotti difettosi, disciplina in gran parte competente per quanto riguarda i dispositivi con intelligenza artificiale, al fine di offrire una delucidazione di come il sistema europeo possa coordinarsi per affrontare la sfida connessa a tale settore, individuando la matrice del sistema regolativo stesso. Si anticipa già che la disciplina europea è obsoleta, risalendo la direttiva di riferimento al 1985, ma che il lavoro della Corte di Giustizia Europea si è fatto sentire nell’adattare tali principi alle esigenze concrete manifestatesi nel corso degli anni[6].

2. La direttiva n. 374/1985/CE: genesi e sviluppo

La direttiva CEE del 1985 ha una sua ben precisa storia, che la colloca in un contesto socio-economico stravolto dalla vicenda della talidomide[7]. Negli anni ’60 e’70 del secolo scorso infatti si facilitarono le possibilità di ricorso da parte del consumatore riguardo a prodotti difettosi, di qualunque natura essi fossero, nei confronti dei produttori, proprio in seguito al disastro conseguente alla diffusione del farmaco indicato come sedativo, anti-nausea e ipnotico, rivolto in particolar modo alle donne in gravidanza[8]. L’opinione pubblica infatti richiedeva un intervento forte del legislatore per poter dare un segnale chiaro di solidarietà e vicinanza alle vittime, nate e viventi con deformazioni e malfunzioni fisiche, nonché di durezza ed inflessibilità per le modalità produttive del farmaco, condotte irresponsabilmente su larga scala: i legislatori europei dunque approntarono fondi di solidarietà per le vittime che coprissero i danni alla salute causati dal farmaco, ma ci si accorse che i rimedi ex post non erano efficaci alla prevenzione di un danno così grande e grave[9]. Si cominciarono a pensare metodi di prevenzione legislativi per scoraggiare che una produzione di massa di un singolo prodotto, anche farmaceutico, potesse causare danni diffusi e permanenti ad individui e società nel suo complesso. Si approdò dunque alla convinzione che un regime di responsabilità scevro dalla colpa e dal nesso causale tra condotta del produttore e danno effettivamente causato, basato esclusivamente sul rischio, fosse la soluzione migliore per far ricadere i costi di messa in sicurezza ed adeguata sperimentazione del prodotto su chi lo immette sul mercato, cioè il produttore[10]. Il legislatore europeo dunque scelse di intervenire con una prima bozza nel 1976 della direttiva sulla responsabilità da prodotti difettosi, basandosi sulle risposte che già erano provenute dai paesi in cui la talidomide aveva colpito[11]. Le risposte nazionali difatti erano state eterogenee e nascondevano tutte una malcelata intenzione di colpire duramente i produttori per scoraggiare il rischio di comparsa di prodotti difettosi: si ricordi che tuttavia le manovre di politica economica nel periodo che va dal 1973 in poi, fino alla soluzione del problema diplomatico con il cartello del petrolio OPEC, non potevano che essere deboli ed imprecise, incidendo in negativo anche su tutti gli altri atti legislativi che andassero a colpire il settore industriale/secondario[12]. La prospettiva che dunque si era venuta a creare per il legislatore era di un obiettivo da raggiungere, cioè il sanzionare duramente i produttori responsabili ed il prevenire altre situazioni patologiche derivanti dalla produzione di prodotti difettosi, che si manifestò subito irraggiungibile per le gravi crisi produttive ed il sopraggiungere di congiunture economiche sfavorevoli, le quali non potevano essere aggravate consapevolmente da un legislatore accorto e lungimirante, che teneva a rimanere al governo del suo paese alla successiva tornata elettorale. Secondo una tassonomia ricorrente[13] a proposito della responsabilità da prodotti difettosi, i paesi europei si dividono in progressisti e conservatori a seconda delle misure adottate[14]. In Italia l’indirizzo giurisprudenziale era già mutato da tempo a proposito della responsabilità oggettiva con il famoso caso Saiwa, risoltosi poi solo in Cassazione nel 1964[15], ma la dottrina aveva già mostrato una propensione marcata per la soluzione non colposa del problema risarcitorio attraverso vari esponenti di rilievo, primo fra tutti Pietro Trimarchi[16]. Si credeva infatti che il regime di responsabilità oggettiva riuscisse a sintetizzare bene le quattro finalità[17] che ogni legislatore si poneva come obiettivo programmatico: 1) promozione di un metodo più preciso di distribuzione del rischio e del danno psico-fisicamente patito, traslando le spese legali, amministrative e di risarcimento in costi di produzione; 2) compressione dei costi transattivi, alleggerendo oneri probatori a carico del danneggiato e facilitando soluzioni extragiudiziali alle controversie; 3) deterrenza dalla realizzazione di prodotti difettosi; 4) incentivazione per investimenti in sicurezza del prodotto[18]. Quando si ebbe l’approvazione della disposizione nel 1985, in seguito a varie modifiche apposte nella versione del 1979[19] (in particolar modo in tema di limitazione alla responsabilità del produttore e di fissazione di massimali di indennità), si riconobbe all’unanimità uno straordinario successo dal punto di vista dell’integrazione giuridica europea, considerando anche e soprattutto il prestigio (ancora basso) degli organi legislativi europei ed in particolar modo della Commissione. Questo enorme balzo in avanti verso una strutturazione giuridica più unitaria era dettato principalmente da tre fattori: 1) la spinta dei paesi progressisti verso l’implementazione di un regime di responsabilità oggettiva; 2) la preponderanza della Francia, paese tassonomicamente progressista peraltro, che aveva interessi economici[20] nell’avere un regime oggettivo di responsabilità; 3) la misura si incastonava perfettamente nell’orientamento ordoliberistico[21], prevalente a livello europeo, che cercava un equilibrio tra nuovo corpo normativo regolatore e una deregolamentazione che favorisse il commercio transnazionale. La riforma degli illeciti civili americana tuttavia ha molta influenza sulle politiche scelte in Europa, in cui si ha un’inversione di tendenza palese in direzione di una supply-side economics invece che una sensibile tutela del consumatore e delle parti contraenti deboli[22]. L’Unione, legiferando, ha però regolato un mercato principalmente con la scusa della protezione del consumatore per avere una base legislativa eccezionalmente fruibile[23] e costituire un opportuno antidoto per l’agenda deregolatoria di Bruxelles[24]. Si hanno allora frizioni a vari livelli: in primo luogo a livello legislativo europeo, che però come si è visto è riuscito a partorire una direttiva, in secondo luogo a livello di applicazione nazionale, che si è mostrato scostante ed eterogeneo[25]. Dal 2001 inoltre, con la direttiva 2002/21/CEE[26], si è introdotto nella legislazione comunitaria il principio di neutralità tecnologica, cui si è già accennato nell’introduzione, in modo tale da non operare una discriminazione in favore o sfavore di un particolare tipo di tecnologia, cosa che comunque non preclude eventuali iniziative legislative in caso di giustificato bisogno: è anche per tale motivo dunque, come si può ben vedere, che il nomoteta comunitario non è ancora intervenuto con strumenti legislativi primari (direttive, ecc.) per regolare il settore dell’intelligenza artificiale.

3. Disciplina introdotta dalla direttiva: punti focali e problemi ermeneutici

Si può ben capire come sia complesso inscrivere prodotti caratterizzati dalla presenza di elementi di intelligenza artificiale all’interno della definizione data all’art. 2 della direttiva 374/1985/CE, in primis perché tali prodotti, pur presentando i caratteri della mobilità, precipui per l’applicazione della direttiva stessa, offrono una prospettiva ibrida dal punto di vista della tangibilità. Essi difatti vedono la mera componente materiale avvicinarsi e sovrapporsi pienamente alla definizione di prodotto data dalla direttiva, mentre per la componente di intelligenza artificiale si torna al prefato problema riguardante i softwares. Si tratta dunque di analizzare se e quanto vi sia prevalenza dell’elemento immateriale ed autonomo sull’attività cui è preposto il prodotto: l’autonomia del prodotto con I.A. è infatti la peculiarità che più lo differenzia dalle restanti tipologie di suoi simili[38]. Va infatti valutata la capacità del prodotto di operare in completa autonomia in relazione alla propria parte formalmente immateriale: più semplicemente si tratta di vedere quanto il prodotto rimanga ancora tale dopo l’implementazione di un elemento di programmazione, oppure si trasformi in qualcos’altro, da non necessariamente definire giuridicamente[39], che tuttavia elude l’applicabilità della direttiva presa in esame[40]. È altresì evidente che, qualora la componente immateriale abbia preso il sopravvento sulle componenti tangibili del prodotto, che a questo punto si trasforma in qualcosa di più di un mero bene mobile tangibile, ma in qualcosa di meno rispetto ad un essere vivente dotato di raziocinio e di volontà, i problemi di compatibilità con la normativa in esame sorgono numerosi. Lasciando per un attimo eventuali problemi relativi alla graduazione dell’autonomia di un prodotto, che porterebbe gli esempi sopra riportati ad essere solo casi estremi e facendo affiorare invece una innumerevole serie di altri casi limite[41], basta riconoscere che il dispositivo con I.A. rientrerebbe a fatica nella nozione di prodotto ex art. 2, inserendosi in una definizione che è evidentemente incompleta, poiché ne trascura i tratti di autonomia ed imprevedibilità, nonché in un regime di responsabilità che è stato disegnato per prodotti con altre caratteristiche, causando problemi di compatibilità con il presupposto di tangibilità del bene. Se però il problema definitorio di un dispositivo con I.A. può essere apparentemente ridotto a questione puramente nominalistica, i problemi che sorgono da una imprecisa, o addirittura assente, disciplina riguardo a tali prodotti potrebbero essere più gravi dal punto di vista sostanziale, come ad esempio per la questione del difetto, del responsabile e del rispettivo regime di responsabilità.Si arriva dunque all’art. 3 a definire il produttore, che viene dipinto quale «fabbricante di prodotto finito, di materia prima o di una parte componente, nonché ogni persona che, apponendo il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto si presenta come produttore dello stesso». Tale disposizione si collega alla norma di apertura della direttiva, l’art. 1, che prevede espressamente la responsabilità del danno causato da prodotto difettoso a carico del produttore o delle altre figure dell’art. 3, qualora il produttore stesso sia esonerato da responsabilità. La scelta del legislatore qui è chiara e decisa: la responsabilità dei danni arrecati ai consumatori deve gravare interamente su chi li causa, anche involontariamente, giacchè il produttore, e soltanto lui, è ritenuto capace di internalizzare tali spese nei suoi normali costi di produzione, spalmandoli sull’intero bacino dei consumatori che formano la domanda del bene. Qualora il produttore riesca a dimostrare la sua innocenza per assenza di nesso causale (e solo tramite questo pesante onere probatorio), si prevede inoltre che siano tenuti altri soggetti, dal produttore di singole componenti al semplice rivenditore, dall’importatore europeo al semplice fornitore, tutti connessi alla catena produttiva del bene in questione, al risarcimento del danno da prodotto difettoso. Un’eventuale corresponsabilità tra soggetti dal lato del produttore darebbe ovviamente adito ad una solidarietà risarcitoria in proporzione al loro contributo al danno: tale previsione è comunque affidata e declinata secondo le legislazioni nazionali. Per quanto riguarda invece il regime di responsabilità, bisogna invece analizzare il combinato disposto degli artt. 1, 4 e 7 della direttiva. L’articolo 1, che attribuisce la colpa al produttore del prodotto difettoso e dunque anche del difetto, va letto in coordinazione con l’art. 4, che invece fa gravare l’onere della prova del danno, del difetto e del nesso causale[45] che li lega sul danneggiato. Il punto focale è però che il regime di responsabilità attribuibile al produttore è oggettivo, intendendo così escludere del tutto qualsiasi comportamento del produttore dalla valutazione della colpa, che è presunta in virtù del totale disinteresse verso l’elemento soggettivo. Come è stato già detto, il legislatore individua in tale regime il miglior modo di ripartire i costi sociali di un difetto che crea danni ai consumatori, alleggerendo inoltre l’onere probatorio a carico del danneggiato, che altrimenti si sarebbe rilevato profondamente più gravoso[46]. Tale regime di responsabilità inoltre è fisso ed inderogabile in pejus, ciò posto che la direttiva non permette che i singoli stati possano implementare altri regimi in materia di prodotti difettosi. Questo è particolarmente visibile all’art. 13 della direttiva, dove si afferma che «la presente direttiva lascia impregiudicati i diritti che il danneggiato può esercitare in base al diritto relativo alla responsabilità contrattuale o extracontrattuale o in base ad un regime speciale di responsabilità esistente al momento della notifica della direttiva». Chiaramente ad una inderogabilità in pejus del regime di responsabilità, e dunque del livello di tutela offerta al consumatore, corrisponde una derogabilità in melius, ciò intendendo che un paese può assicurare maggiori livelli di protezione al consumatore rispetto a quanto stabilito dalla direttiva stessa[47]. Si dovrebbe comunque sottolineare che la chiave di volta del sistema di responsabilità è comunque l’esistenza del difetto al momento dell’immissione del prodotto nel mercato, e non che sia stato o meno creato dal produttore[48]. Quello che è un quadro chiaro del regime di responsabilità fin qui viene stravolto dall’art. 7, che individua le principali cause di esonero di responsabilità del produttore, immettendo delle deroghe alla disciplina generale. L’art. 7 della direttiva così recita infatti: «Il produttore non è responsabile ai sensi della presente direttiva se prova: a) che non ha messo il prodotto in circolazione; b) che, tenuto conto delle circostanze, è lecito ritenere che il difetto che ha causato il danno non esistesse quando l’aveva messo in circolazione o sia sorto successivamente; c) che non ha fabbricato il prodotto per la vendita o qualsiasi altra forma di distribuzione a scopo economico[49], né l’ha fabbricato o distribuito nel quadro della sua attività professionale; d) che il difetto è dovuto alla conformità del prodotto a regole imperative emanate dai poteri pubblici; e) che lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento in cui ha messo in circolazione il prodotto non permetteva di scoprire l’esistenza del difetto; f) nel caso del produttore di una parte componente, che il difetto è dovuto alla concezione del prodotto in cui è stata incorporata la parte o alle istruzioni date dal produttore del prodotto.». Da notare è che la lettera e) introduce il c.d. rischio da sviluppo, per cui il produttore è esonerato da qualsiasi responsabilità quando lo stato delle conoscenze attuali al momento dell’immissione nel mercato del prodotto era tale da rendere impossibile il prevedere la venuta ad esistenza del difetto. In tal caso il legislatore ritiene che il peso del danno sia interamente trasferibile sul capo dei consumatori danneggiati, portando ad addebitare al consumatore il rischio derivante dal progresso tecnologico e dalla corsa verso un livello di conoscenza tale da assicurare un sufficiente grado di sicurezza. Ultimo punto importante è il confronto con il caso fortuito. Se difatti il produttore riesce a dimostrare che il danno è avvenuto in circostanze non addebitabili a sua colpa, nemmeno oggettivamente parlando, è chiaro che il peso del danno stesso graverebbe interamente sul consumatore, causando un disallineamento tra intenti del legislatore di assicurare un risarcimento alla parte danneggiata e situazione reale[51]. È inoltre evidente che in un contesto come quello dell’I.A., nel quale le probabilità che il danno non sia attribuibile direttamente ad uno dei produttori in modo esatto, e dove, ancor più facilmente, è possibile che non si riesca neppure ad individuare il nesso causale a causa della complessità intrinseca dei dispositivi in circolazione[52], il consumatore potrebbe subire le conseguenze di un danno interamente gravante su di sé, senza la prospettiva di un risarcimento. Bisognerà allora approntare un sistema per cui tali danni siano spalmabili tra più persone, magari alla collettività, per poter riequilibrare la situazione: si potrebbe dunque ipotizzare la presenza di un fondo di solidarietà che assorba tali tipi di danni e corrisponda un indennizzo di solidarietà alla vittima.

Altro punto importante è che la direttiva non definisce cosa si debba intendere per «danno», lasciando l’operazione definitoria ai singoli legislatori nazionali, come si può ben vedere dall’art. 9[50]. La terminologia e la scelta concettuale presa nella direttiva a proposito di danno, al contrario di quanto fatto per la definizione di produttore e difetto, è ambigua: ad un primo sguardo difatti non si riesce a distinguere le categorie di danno ricomprese nell’art. 9. Un lettore attento potrebbe ad esempio legittimamente domandarsi, senza trovare risposta all’interno del testo legislativo, se difatti la lettera a) si riferisca a morte o lesioni personali come lesioni di per se stesse, oppure nell’effetto materiale di tali violazioni nella sfera giuridica del danneggiato. Questo induce a pensare che il legislatore europeo abbia diviso tutte le forme di danno da prodotto difettoso in due categorie: danno materiale, che può esprimersi contro la persona oppure contro la proprietà, e danno immateriale. È però lasciata ai legislatori nazionali la definizione di danno, fatto che costituisce un punto notevole di potenziale disarmonia al fine di uniformità ed armonizzazione che la direttiva si ripropone di raggiungere. Si può comunque leggere al considerando n. 1 della direttiva che l’approssimazione con cui il legislatore si muove nel definire i punti cardine della direttiva e nel qualificare i presupposti della normativa è in fin dei conti utile al fine di non distorcere la competizione ed influenzare negativamente la libera circolazione delle merci, garantendo la presenza di stabili e duraturi principi generali nel settore da regolare, ma allo stesso tempo anche una discreta libertà di movimento ai nomodotti particolari, ritenuti maggiormente in grado di assicurare precisione ed adeguatezza normativa.

La nozione di difetto è desunta dall’art. 6 della direttiva, che specifica che un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui a) la presentazione del prodotto, b) l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e c) il momento della messa in circolazione del prodotto. La nozione di difetto perciò è fornita indipendentemente da qualsiasi concetto di colpa o negligenza del produttore, in piena linea con il regime di responsabilità delineato a carico del produttore. Non si fa inoltre alcun riferimento all’incommerciabilità o inadeguatezza all’uso del prodotto per definire il difetto, risultando sufficiente esclusivamente l’elemento della sicurezza per renderlo effettivo. Segue dunque che la difettosità deve essere valutata sulla base di ciò che una normale persona è legittimata ad aspettarsi, in base cioè all’aspettativa del consumatore medio. Si cerca dunque di ancorare il concetto di difetto ad uno standard oggettivo rilevabile in abstracto, scevro da ogni carattere di soggettività legato all’aspettativa di un singolo. Il parametro è dunque valutabile nella normale prudenza che una persona potrebbe attendersi, essendo ancorato ad un concetto fisso, che però vede una declinazione concreta e relativa ai singoli gruppi di consumatori di un prodotto, escludendo una applicazione assoluta del criterio iniziale. Sarà il giudice dunque a valutare caso per caso la normale aspettativa riponibile in un dato prodotto. La Corte Europea di Giustizia riconosce quali elementi di valutazione lo scopo, le caratteristiche oggettive, le proprietà peculiari e gli specifici requisiti per il dato gruppo di consumatori del prodotto[42]. La difettosità di un prodotto dunque scaturisce dal potenziale anomalo di danno dello stesso, che ne costituisce il principale elemento di valutabilità, assieme ai tre non esaustivi elementi elencati alle lettere a), b) e c) dell’art. 6. La lettera a) difatti prende in esame eventuali problemi di asimmetria informativa del consumatore rispetto alle informazioni fornite dal venditore, mentre la lettera b) tratta del ragionevole uso che si fa del prodotto, comprendendo in esso, oltre l’utilizzo, anche la conservazione, la pulizia, l’ispezione e la manutenzione del prodotto. Il consumatore difatti beneficia di un ragionevole livello di abuso del prodotto, il che costituisce la soglia di responsabilità del produttore stesso, che altrimenti si vedrebbe gravato di eccessivi oneri informativi e preventivi[43]. Il criterio tra abuso ragionevole ed uso smodato e sproporzionato deve essere però valutato secondo l’accettabilità sociale di quel particolare utilizzo[44]. La lettera c) invece fa riferimento al contesto temporale in cui il prodotto viene immesso nel mercato, facendo sì che tutti gli elementi di valutazione della sicurezza di un prodotto vengano riferiti al periodo in cui è stato messo in circolazione. Questo aspetto si ricollega al rischio di sviluppo, la cui utilità è dunque adesso chiara al fine di esonerare il produttore da una responsabilità ingiusta e anacronistica.

Fermo restando che la finalità della direttiva si ricollega ad esigenze di mercato interno[27], e che dunque la disciplina avrebbe dovuto essere teoricamente applicabile a tutti i paesi europei più o meno direttamente, la direttiva lascia irrisolti tre problemi principali, che vengono però affidati nella loro applicazione ai singoli legislatori nazionali. La prima questione riguarda la nozione di prodotto agricolo naturale[28], mentre la seconda riguarda il massimale di risarcimento[29]. La terza questione, probabilmente la più importante dal punto di vista tecnico, vede come protagonista il rischio da sviluppo, che non dovrebbe causare alcuna ripercussione sul produttore in teoria, giacchè garantirebbe la sua irresponsabilità nel caso di avanzamenti tecnologici non prevedibili che avrebbero potuto prevenire il danno, ma che non erano stati approntati dal produttore stesso[30]. Il produttore dunque sarebbe sempre teoricamente responsabile per il difetto occorso al consumatore, ma grazie a tale espediente verrebbe esonerato da ogni responsabilità. Tale opzione fu molto richiesta dagli stati più avanzati, anche in considerazione del fatto che il rischio da sviluppo avrebbe potuto mitigare l’impatto economico che avrebbe avuto la sola responsabilità oggettiva, e fu concessa pertanto, ma non in via obbligatoria e vincolante per tutti gli stati membri, bensì solo in via opzionale[31]. Ciò vuol dire che ad uno stato viene data la scelta di escluderlo così come di inserirla nel complesso normativo di riferimento, non garantendo la direttiva sufficiente vincolatività in tal senso. Alcuni stati, come Lussemburgo e Finlandia, hanno scelto infatti di escluderlo, mentre altri, come Spagna e Francia hanno invece optato per inserirlo nel proprio ordinamento interno depotenziandolo e limitandolo a determinati prodotti[32]. In relazione al rischio da sviluppo bisogna inoltre notare un punto problematico: esso si riferisce ad un concetto di imprevedibilità dello sviluppo tecnologico, che in teoria non potrebbe essere anticipato dal produttore a causa dell’esistente conoscenza e disponibilità tecnologica dell’epoca storica di riferimento. Tale concetto di imprevedibilità potrebbe rivelarsi non necessariamente compatibile con quello relativo all’intelligenza artificiale[33]: quest’ultimo infatti si riferisce ad una imprevedibilità che trova il suo fondamento in una capacità di programmazione del dispositivo, perfino nelle sue capacità di apprendimento, che attiene alla fase di fabbricazione e di messa in sicurezza del prodotto. Perciò si può ben vedere come, mentre il rischio da sviluppo può effettivamente essere una corretta copertura per il produttore da pretese di previsione metafisica e divina relativamente allo stato di conoscenze di un’altra epoca, l’imprevedibilità che caratterizza il dispositivo con I.A. è dovuta comunque ad un’attività umana di programmazione, che porta il rischio da sviluppo ad essere uno strumento ingiusto di protezione per un produttore/programmatore eventualmente negligente. Fermi restando tali punti lasciati ai legislatori nazionali, che costituiscono dei punti deboli del sistema egemone costituito dal nomopoieta europeo, vi sono tuttavia altre problematiche inerenti all’interpretazione dei termini e delle definizioni presenti nella direttiva 374/1985/CE. Il primo dubbio sorge subito all’art. 2, con la definizione di prodotto: la direttiva infatti si applica soltanto per danni causati da beni mobili, tangibili, nonché dall’energia elettrica, indipendentemente dal fatto che il prodotto sia distribuito come prodotto finito o come materia prima da sgrezzare o ancora come componente da incorporare in un altro bene, sia esso mobile o immobile[34]. Si esclude invece l’applicabilità della direttiva per i prodotti agricoli naturali e della caccia. Si capisce fin da subito che i prodotti sono dunque caratterizzati da due caratteristiche, ossia la mobilità e la tangibilità: se per il primo carattere problemi ermeneutici non si presentano, per il secondo aspetto le problematiche si fanno già più corpose. Si discute inoltre per quanto riguarda una terza peculiarità, cioè il tipo di produzione del prodotto, che per la maggior parte della dottrina deve essere industriale[35]. Oggi in realtà si propende per un’interpretazione più ampia ed aperta del termine prodotto, indipendentemente dal modo di produzione dello stesso, sia esso industriale, artigianale o artistico. Sebbene dunque la direttiva non si esprima mai in questo senso, tutti i beni intangibili sono esclusi seguendo un ragionamento a contrario, negando ad esempio alla proprietà intellettuale la copertura regolativa; inoltre si pone il problema dell’applicabilità della direttiva a prodotti intangibili, come i softwares, che formalmente non rientrano nel canone di tangibilità necessario per l’applicazione della direttiva. Prodotti come i softwares appunto, oggi peraltro molto diffusi, vedono una spaccatura netta della dottrina[36]: seguendo lo stesso ragionamento che si spiegherà in seguito a proposito dei servizi, si classificano i softwares come beni mobili, la cui tangibilità è misurabile dal livello in cui esso è incorporato nel bene mobile in cui opererà. Altro punto sensibile è la provvisione di un servizio, che secondo sempre l’avvocato Colomer nel Veedfald case non dovrebbe rientrare nella nozione di prodotto, visione che tuttavia è stata sostituita da quella della Corte europea di Giustizia, assumendo che anche la fornitura di un servizio potrebbe risentire dell’utilizzo di un prodotto difettoso[37].

4.      Le relazioni sulla direttiva: primi indici di problematicità.

La direttiva, che consente di guardare alla matrice giuridica di tutte le discipline dei paesi europei, è stata oggetto di analisi più e più volte da parte degli stessi organi europei (la Commissione Europea in particolar modo) in base alle relazioni che vengono ordinariamente fatte sugli atti legislativi di una certa importanza[53]. Una delle difficoltà principali nel valutare la direttiva resta la carenza comunque di dati affidabili dovuta alla mancanza di una rigorosa metodologia di analisi che consenta di misurarne gli effetti, cosa che viene parzialmente sopperita dal Lovell’s Study del 2003, che riesce a combinare umori dei consumatori, degli assicuratori e dei produttori per valutare il successo della direttiva in confronto con i suoi obiettivi primari[54]. La valutazione dell’impatto della direttiva non si riduce a un semplice inventario dei casi esaminati dai giudici nazionali, dagli organi arbitrali o dalla stessa Corte Europea di Giustizia[55], trattandosi piuttosto di determinare la misura in cui la direttiva realizza gli scopi previsti in relazione ai diversi settori interessati: se assicura, cioè, un’adeguata protezione ai danneggiati, se contribuisce a scoraggiare l’immissione sul mercato di prodotti pericolosi, se offre agli operatori una sicurezza giuridica sufficiente per facilitare gli scambi intracomunitari, et cetera. Stando alle conclusioni delle relazioni[56], che effettivamente indicano alcune aree problematiche[57], ma che riconfermano tutte lo stato di forma della direttiva, non si può quindi che concentrarsi su alcuni punti focali e di attrito con il settore dell’intelligenza artificiale. Stando alla quarta relazione infatti, «in modo generale la direttiva viene percepita come strumento che garantisce l’equilibrio tra la tutela dei consumatori e gli interessi dei produttori. La maggior parte dei contributi alla relazione confermano che la direttiva 85/374/CEE è uno strumento che offre possibilità concrete di ricorso per ottenere il risarcimento e un indennizzo adeguato del pregiudizio causato da prodotti difettosi.»[58]. Il giudizio finale sulla direttiva nel suo complesso risulta quindi essere positivo, in quanto essa, con i suoi problemi, riesce comunque a mantenere «un livello comune di tutela dei consumatori, nonchè una base comune per la responsabilità dei prodotti di prodotti difettosi»[59], cosa che porta a concludere che «sia prematuro proporre, allo stadio attuale, una revisione della direttiva»[60]. Stante l’immutabilità presunta della direttiva dunque, è utile però notare quali siano i principali punti di contatto con la questione dell’intelligenza artificiale: è evidente che l’intera applicabilità della direttiva in questo ambito gioca sulla nozione di prodotto in primis, che funge da presupposto basilare, mentre, in secundis, dalla compatibilità con la definizione di difetto. A tal proposito, con una risoluzione del 16 febbraio 2017, il Parlamento Europeo invita la Commissione ad adoperarsi per la formulazione di un progetto di atto normativo che tenga conto delle dovute differenze del mondo della robotica rispetto alla normale produzione industriale[61]. Si riconosce infatti non solo che l’era nella quale «robot, bot, androidi e altre manifestazioni di intelligenza artificiale sembrano in grado di avviare una nuova rivoluzione industriale, suscettibile di toccare tutti gli strati sociali»[62], ma anche che, a causa della notevole crescita del settore della robotica negli ultimi anni[63] e della accresciuta importanza della presenza di macchine autonome ed intelligenti in forza di una prospettiva di vantaggi economici, nonché di una corrispondente «preoccupazione circa gli effetti diretti e indiretti sulla società nel suo complesso»[64], si manifesta necessaria una regolazione del fenomeno e del nuovo settore. Come emerge anche dalla risoluzione stessa[65], è evidente che «l’autonomia dei robot solleva la questione della loro natura alla luce delle categorie giuridiche esistenti e dell’eventuale necessità di creare una nuova categoria con caratteristiche specifiche e implicazioni proprie», dato che «nell’attuale quadro giuridico i robot non possono essere considerati responsabili in proprio per atti o omissioni che causano danni a terzi e che le norme esistenti in materia di responsabilità coprono i casi in cui la causa di un’azione o di un’omissione del robot può essere fatta risalire ad uno specifico agente umano (…), e laddove tale agente avrebbe potuto prevedere ed evitare tale comportamento nocivo del robot» e che inoltre «i fabbricanti, gli operatori, i proprietari o gli utilizzatori potrebbero essere considerati oggettivamente responsabili per gli atti o le omissioni di un robot». Bisogna considerare inoltre che «la responsabilità da prodotto e le norme che regolano la responsabilità per azioni dannose sono applicabili ai danni causati dai robot e dall’intelligenza artificiale»[66] e che «nell’ipotesi in cui un robot possa prendere decisioni autonome, le norme tradizionali non sono sufficienti per attivare la responsabilità per i danni causati da un robot, in quanto non consentirebbero di determinare qual è il soggetto cui incombe la responsabilità del risarcimento nè di esigere da tale soggetto la riparazione dei danni causati»[67]. Tutto questo porta poi a riscontrare «palesi carenze dell’attuale quadro normativo in materia di responsabilità contrattuale dal momento che le macchine (…) rendono inapplicabili le norme tradizionali»[68] e che «per quanto riguarda la responsabilità extracontrattuale, la direttiva 85/374/CEE riguarda solamente i danni causati dai difetti di fabbricazione di un robot e a condizione che la persona danneggiata sia in grado di dimostrare il danno effettivo, il difetto nel prodotto e il nesso di causalità tra difetto e danno e che pertanto la responsabilità oggettiva o senza colpa potrebbero non essere sufficienti (…) a coprire i danni causati dalla nuova generazione di robot, in quanto questi possono essere dotati di capacità di adattamento e apprendimento che implicano un certo grado di imprevedibilità nel loro comportamento»[69]. Fermo restando dunque che il legislatore europeo riconosce di dover intervenire e creare ex novo la disciplina che regola direttamente il settore della robotica, non resta che guardare all’applicabilità concreta della disciplina ad oggi vigente, ossia quella regolata dalla direttiva 85/374/CEE, e guardarne la compatibilità con le caratteristiche specifiche presentante dal settore dell’intelligenza artificiale nel suo complesso.

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 NOTE

 [1] A mero titolo di esempio, si può citare qui l’art. 2043 CC, con tutte le conseguenze del caso. La scelta del regime ordinario di responsabilità non sembra però affatto adeguato al presente stato di cose per regolare un settore come quello dell’I.A., dove la complessità dei dispositivi e la difficoltà di provare il nesso causale per il danneggiato sono le cause principali di insuccesso in contenzioso (A. Bertolini, Robots as Products: The Case for a Realistic Analysis of Robotic Applications and Liability Rules, 5 (2) Law Innovation and Technology, 214, 236 (2013)).

[2] Si veda G. Ponzanelli in La responsabilità civile, Profili di diritto comparato, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 107.

[3] Ibidem; si veda anche P. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Giuffrè editore, Milano, 1961, pp. 43-45.

[4] Per quanto riguarda l’input europeo alla legislazione in materia, si deve dire che gli organi dell’Unione si resero conto della necessità di una disciplina europea uniforme proprio a causa della difformità di regolazione a livello nazionale che avrebbero potuto causare una distorsione del mercato in tale settore. Più concretamente, alcuni paesi venivano riconosciuti come problematici per una piattaforma uniforme di mercato proprio perché non regolavano con un regime di responsabilità sufficientemente duro e rigido, come invece facevano altri paesi: un regime di responsabilità meno rigoroso portava all’eliminazione di quei costi, come quelli relativi all’organizzazione del processo produttivo, ai controlli di qualità, ai premi assicurativi, per fare solo alcuni esempi, che invece in altri paesi erano obbligatori per non incorrere in sanzioni risarcitorie più dure. Nel primo tipo di paesi rientrava anche l’Italia, tra i molti altri, che si adeguò solo nel 1988 alla disciplina europea. (Si vedano a tal proposito G. Alpa, U. Carnevali, F. Di Giovanni, G. Ghidini, U. Ruffolo, C. M. Verardi, La responsabilità per danno da prodotti difettosi (d.P.R. 24 maggio 1988, n. 224), in Leggi commentate, n. 32, Milano, 1990, pp. 1-4; G. Alpa, La dottrina sulla responsabilità del produttore. Il rischio di impresa alle soglie del 1992, in AA. VV., La civilistica italiana dagli anni ’50 ad oggi tra crisi dogmatica e riforme legislative, CEDAM, Padova, 1991, pp. 23-25; C. Castronovo, Problema e sistema nel danno da prodotti, Giuffrè, Milano, 1988, pp. 13-16; R. Pardolesi, La responsabilità per danno da prodotti difettosi, in Nuove leggi civili commentate, CEDAM, Padova, 1989, 497 ss.)

[5] Si veda a tal proposito il quadro che viene definito da A. Valsecchi, Commentario d.P.R. 24 maggio 1988 n. 224, sulla disciplina del danno causato da prodotti difettosi, in Resp. Del Produttore e Nuove forme di Tutela del Consumatore, a cura di U. Draetta e C. Vacca, in Quaderni per l’arbitrato e per i contratti internazionali, n. 7, Milano, 1993, pp. 19-23.

[6] Si fa qui riferimento all’attività della Corte Europea di Giustizia soprattutto e in particolar modo riguardo all’art. 13 della direttiva, di cui poi si parlerà, che lascia impregiudicati i diritti derivanti dalle discipline anteriori alla legislazione nazionale che fossero in favore del danneggiato, sia esso controparte contrattuale o terzo. Si possono prendere come esempi due delle sentenze più famose a tal proposito, come la sentenza María Victoria Sanchez vs Medicina Asturiana SA (C-183/00, http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:62000CJ0183&from=IT) e la Henning Veedfald vs Århus Amtskommune (C-203/99, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:61999CJ0203&qid=1523400197899&from=EN).

[7]Per maggiori informazioni riguardo alla vicenda storica connessa alla talidomide si consulti W. Lenz, A short history of thalidomideembryopathy, in Teratology, vol. 38, nº 3, settembre 1988, pp. 203-15.

[8]Per i riferimenti storici si faccia sempre riferimento a W. Lenz, A short history of thalidomide embryopathy, in Teratology, vol. 38, Institute of Human Genetics, Munster University Press, nº 3, settembre 1988, pp. 203-15, mentre per la parte legale conseguente, che si trascinò per molti anni fino ad oggi, si può far riferimento per l’Italia alle fonti primarie che regolano l’erogazione di indennizzi ai mutilati, come, in ordine cronologico di novità, la legge 24 dicembre 2007, n. 244, il decreto legge 24 giugno 2016, n. 113, articolo 21-ter, come convertito dalla legge 7 agosto 2016, n. 160, nonché infine decreto ministeriale 17 ottobre 2017, n.166, che regola la disciplina dell’inclusione ed esclusione delle malformazioni dall’elenco delle coperture legali.

[9]Si ricordi che la talidomide, inventato dalla ditta tedesca Chemie Grünenthal, non fu introdotta in USA perché Celgene Thalidomidenel 1957 non ottenne l’autorizzazione all’immissione nel mercato del prodotto da parte di FDA, che individuava proprio nel farmaco la causa di disturbi neurologici periferici. In USA dunque gli effetti del farmaco furono molto minori che in Europa, dove invece si registrano 6000 casi accertati di danni menomativi da talidomide. (W. Lenz, op.cit., ibidem)

[10] Si veda a tal proposito l’interessante prospetto storico che ne fa G. Ponzanelli in La responsabilità civile, Profili di diritto comparato, Il Mulino, Bologna, 1992, cap. 5, parr. 1 e ss., pp. 101 e ss.

[11] Si rammenti G. Alpa, U. Carnevali, F. Di Giovanni, G. Ghidini, U. Ruffolo, C. M. Verardi, La responsabilità per danno da prodotti difettosi (d.P.R. 24 maggio 1988, n. 224), in Leggi commentate, n. 32, Milano, 1990, pp. 2-3, nonché G. Alpa, La responsabilità del produttore nei progetti di diritto uniforme, in Riv. Dir. Int. Priv. Proc., 1977, pp. 339 e ss.; R. Ficker, Harmonisation efforts of product liability in Europe, Relazione presentata al X congresso internazionale di diritto comparato (Budapest, 1978); infine L. Serio, Sulla proposta Direttiva della commissione CEE in tema di responsabilità per danno da prodotti, in Riv. Dir. Civ., 1978, II, pp. 508 ss.

[12] Si veda a tal proposito F. Petrini, La crisi energetica del 1973. Le multinazionali del petrolio e la fine dell’età dell’oro (nero), in 15 (3) Contemporanea, 445, 445-473 (2012).

[13] Si veda F.A. Orban, Product Liability: A Comparative Legal restatementForeign National Law and the EEC Directive, 8 Ga. J. Int’l & Comp. L. 342, 344 e 350 (1978).

[14] Si veda a tal proposito R. Pardolesi, La responsabilità per danno da prodotti difettosi, in Nuove leggi civili commentate, CEDAM, Padova, 1989, p. 509.

[15] Nella sentenza della Cassazione del 25/5/1964 n. 1270, gli ermellini enunciano un principio di diritto rivoluzionario per il nostro ordinamento: «una volta esclusa (come nella specie) ogni colpa del negoziante in ordine all’alterazione del prodotto alienato, ben può il giudice di merito nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, ricollegare l’avaria, attraverso un processo logico-presuntivo, alla difettosa fabbricazione del prodotto stesso, quale sua unica possibile causa, cioè praticamente ad una condotta colposa della ditta fabbricante, che la rende responsabile, ex lege aquilia, dei lamentati danni: così compiendo (come nel caso concreto) un corretto apprezzamento di fatto, che si sottrae, per sua natura, al controllo di legittimità.».

[16] Autore del famoso Rischio e responsabilità oggettiva, Giuffrè editore, Milano, 1961, con cui fece l’ingresso nel mondo della dottrina. In realtà vi erano altri autori favorevoli, come M. Bessone, Prodotti dannosi e responsabilità dell’impresa, in Diritto e procedura civile, Giuffrè, Milano, 1971, pp.112 ss.; U. Carnevali, La responsabilità del produttore, 2 ed., Giuffrè, Milano, 1979; F. Martorano, Sulla responsabilità del fabbricante per la messa in circolazione di prodotti dannosi, in Foro Italiano, Zanichelli, Bologna, 1966-V.

[17] Si veda in riferimento K.M. Nilles, Defining the Limits of Liability: A Legal and Political Analysis of the European Community Products Liability Directive, 25 Va. J. Int’l L. 729, 758 ss. (1984-85).

[18] Si veda la concurring opinion del giudice R. Traynor in Escola v. Coca-Cola Bottling Co., 24 Cal.2d 453, 150 P.2d 436 (1944), nella quale si esamina a fondo la problematica dell’immissione nel mercato di prodotti difettosi, riconducendo il  miglior sistema di imputabilità al regime di responsabilità oggettiva.

[19]Per la bozza della direttiva si guardi https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:51979PC0415&from=EN.

[20] Si ricordi che Gaston Thorn, sostituto di Roy Jenkins come capo della Commissione nel 1981, era notoriamente molto vicino a Giscard D’Estaign ed un fautore degli interessi francesi. Si ricordi anche che la Francia fu il primo paese europeo a costringere i propri produttori ad internalizzare il costo dei prodotti difettosi, con un approccio contrattuale: questo sarà anche uno dei motivi per cui la Francia farà fatica ad adeguare il proprio sistema di responsabilità a quello della direttiva del 1985. (D. J. Eppink, Life of a European Mandarin: Inside the Commission, Lannoo, Tielt 2007, pp. 221-222)

[21] Nicolas Jabko, professore alla Cornell University di New York, sintetizza efficacemente: «La Commissione Europea non era storicamente predisposta verso il liberismo di mercato. La preferenza della Commissione per l’intervento pubblico nell’economia era condivisa dai governi di molti Stati membri; la differenza era che i funzionari della Commissione avrebbero voluto centralizzare l’intervento pubblico ad un livello europeo piuttosto che nazionale». (N. Jabko, Playing the Market: A Political Strategy for Uniting Europe, 1985-2005, Ithaca, New York, Cornell University Press, 2006, pp. 47-48)

[22]Sempre Jabko afferma:«After a long period of Keynesian-style policymaking, neoliberal ideas gained ground in the 1970s and 1980s, while existing institutions continued to shape and constrain actors’ behavior.»N. Jabko, Playing the Market: A Political Strategy for Uniting Europe, cit., p. 29. Si veda anche M. Everson, C. Joerges, Reconfiguring the Politics – Law Relationship in the Integration Project Through Conflicts-Law Constitutionalism, 18 Eur. L. J. 644, 644 e ss. (2012).

[23]La protezione del consumatore fu inserita nel Trattato CEE (Art. 100a(3)) tra gli interessi da tenere in conto in fase di armonizzazione con l’Atto Unico Europeo del1986 (Art. 18). Nel 1993, con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, la protezione del consumatore divenne obiettivo esplicito (Trattato CE, Art. 153). Si veda a tal proposito S. Weatherill, EU Consumer Law and Policy, Cheltenham-UK, Edward Elgar Publishing Limited, 2005, cap. 4, pp. 92-142.

[24]Si veda Libro Bianco, Il completamento del mercato interno, COM (1985) 310 finale, 14 giugno 1985.

[25] Si veda sempre G. A. Benacchio, op. cit, pp. 37-56, in cui si parla dei problemi che ogni volta un atto legislativo deve affrontare per essere correttamente declinato nelle singole legislazioni nazionali, sottolineando l’apparentemente banale punto della lingua, sempre veicolo di errori nella traduzione e nella traslazione di concetti giuridici.

[26] Si veda infatti il considerando n. 18 della direttiva 2002/21/CEE («L’obbligo per gli Stati membri di garantire che le auto-rità nazionali di regolamentazione tengano nel massimo conto l’opportunità di una regolamentazione tecnologicamente neutrale, ossia che non imponga l’uso di un particolare tipo di tecnologia né che operi discriminazioni tra particolari tecnologie, non preclude l’adozione di provvedimenti ragionevoli volti a promuovere taluni servizi specifici, ove opportuno, per esempio la televisione digitale come mezzo per aumentare l’efficienza dello spettro.»).

[27] Si veda H.C. Taschner, Produkthaftung, Monaco, Beck, 1986, cap. 2, par. 7, pp. 45-46.

[28] Nella prima versione della direttiva infatti esso era escluso, mentre nella versione finale è invece incluso. Questo esclusione inizialmente venne vista come una vittoria della lobby dell’agricoltura, ma la deroga venne ben presto tolta proprio per la fragilità delle motivazioni alla base. Si affermava difatti che i prodotti agricoli fossero soggetti a «difetti nascosti», non visibili neppure al produttore, che però si ritrovava automaticamente responsabile. Altresì si diceva che fosse difficile individuare l’esatto momento in cui il difetto fosse sorto e che fosse altrettanto complesso dimostrare il nesso causale tra difetto e comportamento del produttore. La eventuale inclusione dei prodotti agricoli nel concetto di prodotto delineato dalla direttiva deve comunque essere esplicitamente previsto nei singoli atti legislativi nazionali, costituendo un punto di notevole differenza internazionale.

[29] Il quale viene fissato nella direttiva a settanta milioni di ECU (unità di conto europee) per i danni risultanti in morte o lesione personale da parte del produttore, anche e soprattutto per evitare contenziosi dovuti a danni bagatellari. Il punto in questione è in realtà il migliore esempio di come tale direttiva non cerchi tanto uniformità, quanto approssimazione: tale massimale è stato infatti adottato da Germania e Portogallo ad esempio, ma la Grecia, dopo averlo introdotto, lo ha eliminato. Alcuni stati hanno infatti l’abitudine di legare la responsabilità per rischio a massimali di risarcimento, in modo tale da favorire la copertura assicurativa. Si veda quanto detto in P. Machnikowski, European product liability, An analysis of the State of the art in the Era of New Technologies, Intersentia, 2016, cap. 1, par. II, pp. 28-29. Alcuni stati hanno infatti l’abitudine di legare la responsabilità per rischio a massimali di risarcimento, in modo tale da favorire la copertura assicurativa.

[30] Si veda P. Machnikowski, ibidem, ma anche G. Alpa, U. Carnevali, F. Di Giovanni, G. Ghidini, U. Ruffolo, C. M. Verardi, op. cit., cap. 5, par. 13, pp. 58-60.

[31] Ibidem.

[32] Ibidem.

[33] Si veda A. Bertolini, Robots as Products: The Case for a Realistic Analysis of Robotic Applications and Liability Rules, 5 (2) Law Innovation and Technology, 214, 239 (2013).

[34] Si veda G. Alpa, U. Carnevali, F. Di Giovanni, G. Ghidini, U. Ruffolo, C. M. Verardi, op. cit., pp. 9-12.

[35] Secondo l’avvocato generale Colomer infatti la direttiva dovrebbe applicarsi solo a casi di beni mobili prodotti industrialmente. Questa opinione è stata confermata da vari studiosi (M. Faure, W.Van Buggenhout, Produktenaansprakelijkheid. De Europese Richtlijn: harmonisatie en consumenten bescherming (deel 1)?, R. W., 1987-1988, cap. 1, 6, nonché dallo stesso avvocato generale Colomer nel celebre caso Henning Veedfald, reperibile in Case C-203/99, Veedfald v Arhus Amstkommune (2001) ECR I-3569, considerando 8-13.

[36] Tra i molti studiosi che discutono a tal proposito se ne segnalano tre: N. Birnbaum, Strict products liability and computer software, 12 Computer L. J. 135, 143-55 (1988); M. C. Gemignani, Product liability and software, 3 Rutgers Computer & Tech. L. J. 173, 189-99 (1981); L. B. Levy, S. Y. Bell, Software product liability: understanding and minimizing the risks, 1 High Tech L. J. 1, 8-15 (1990), nonché per ultimo S. J. Childers, Don’t Stop the Music: No Strict Products Liability for Embedded Software, 19 U. Fla. J. L. & Pub. Pol’y 125, 134-135 (2008).

[37] Vi è comunque la problematica di distinguere la causa del danno nella incorretta provvisione del servizio oppure nell’utilizzo di un prodotto difettoso di per sé stante: si tratta infatti di due ipotesi che si distinguono per l’incolpevolezza di chi fornisce il servizio, dato che nel primo caso l’inadeguatezza del servizio è attribuibile proprio al fornitore di esso, mentre nel secondo è il prodotto di per se stesso la causa della manchevolezza del servizio.

[38] Si ricordino Russell, Norvig, op. cit., p. 1034; Scherer, op. cit., pp. 363 e ss.

[39] In tal caso si eluderebbe l’annoso problema del riconoscimento di soggettività, capacità giuridiche, capacità di agire, nonché di intendere e di volere, garantendo una base oggettiva di valutazione, proprio come indica e suggerisce G. Sartor, op. cit., p. 12. Si andrebbe a guardare concretamente alla funzione che svolge l’automa, senza guardare allo stato mentale, adottando una prospettiva estremamente oggettiva, escludendo un’analisi caso per caso.

[40] Se ne parlerà più approfonditamente nel cap. 3.6., a proposito della nozione di prodotto data dalla direttiva UE. Si può qui anticipare che il problema principale è dato dalla considerazione o meno del software come incluso o separato dal prodotto di riferimento, o componente materiale (S. J. Childers, Don’t Stop the Music: No Strict Products Liability for Embedded Software, 19 U. Fla. J.L. & Pub. Pol’y 125, 140-141 (2008)).

[41] È noto come difatti le automobili conoscono cinque gradi di automatizzazione, dal grado zero, che corrisponde ad una totale assenza di automatizzazione, al grado cinque, che invece ne costituirebbe il grado massimo. Graduando in tal modo i livelli di automazione, è evidente che la categoria “automobili” si divide in tante sottocategorie quanti sono i diversi gradi, loro corrispondendo una diversa disciplina giuridica, dalla soggettività fino al criterio di imputazione della responsabilità. (Directorate-General for internal policies policy department B: structural and cohesion policies, Research for TRAN Committee – Self-piloted cars: The future of road transport?, March 2016, pp. 20-22)

[42] Si desumono dai casi combinati C-503/13 e C-504/13, Boston Scientific Medizintechnik v AOK Sachsen-Anhalt, considerando n. 38.

[43] Si vedano a tal proposito A. Montanani, La responsabilità del “fornitore” nella disciplina europea del danno da prodotti difettosi, in Europa e Diritto Privato, Giuffrè, Milano, 2007, 195 ss.; P. Stanzione, Commentario al Codice del Consumo: inquadramento sistematico e processo applicativo, Assago, Ipsoa, Milanofiori, 2006; M. Baschiera, Dialogo antagonista tra la Corte di Giustizia delle Comunità Europee e corti nazionali: armonizzazione e responsabilità del fornitore-distributore, in La nuova giurisprudenza civile commentata, CEDAM, Padova, 2007, I, 80 ss.

[44]Si veda Y. Markovits, La directive C.E.E. du 25 juillet 1985 sur la responsabilità du fait des produits dèfecteux, Parigi, L. G. D. J., 1990, p. 209. Secondo altre teorie però, soprattutto belghe, il confine tra tali due figure dovrebbe essere rintracciato nella gradazione della colpa a carico del consumatore: un livello di colpa lieve è per l’appunto prevedibile, mentre un livello di colpa grave o di dolo invece non lo è.

[45] Nesso causale che peraltro non viene circoscritto dal punto di vista contenutistico nella direttiva. Pur essendo difatti la condizione necessaria per la responsabilità del produttore, fondata appunto sul solo rischio che si presenti un difetto nel prodotto, esso non viene collegato ad alcun criterio di individuazione: non si può arguire dalla direttiva se si tratti di un criterio di condicio sine qua non, oppure di regolarità causale, o ancora di prevedibilità del danno, lasciando il problema ermeneutico al legislatore particolare con l’unico limite del principio di effettività.

[46] Si veda sempre G. A. Benacchio, op. cit., cap. 9, par. 2, pp. 357-360, che spiega come il regime di responsabilità oggettiva sia stato appositamente scelto in virtù di politiche del diritto che favorissero il consumatore a discapito del produttore.

[47] Ciò non vuol dire che comunque il regime di responsabilità implementato nel singolo paese membro, che sia derogabile in melius rispetto alla direttiva, sia esente da critiche di conformità rispetto alla direttiva europea, come si può leggere al considerando n.13 alla Direttiva 374/1985. Si tenga inoltre conto del caso Sanchez, che si occupa proprio dell’art. 13 in questione e che si conclude affermando che «Ne consegue che il margine discrezionale di cui dispongono gli Stati membri al fine di disciplinare la responsabilità per danno da prodotti difettosi è totalmente determinato dalla direttiva stessa e deve essere dedotto dal tenore letterale, dalla finalità e dall’economia di quest’ultima. (…) Pertanto, l’art. 13 della direttiva non può essere inteso come diretto a lasciare agli Stati membri la possibilità di mantenere un regime generale di responsabilità per danno da prodotti difettosi che differisca dalla disciplina prevista dalla direttiva.».

[48] Si veda J. Stapleton, Product Liability, London, Butterworths, 1994, p. 192.

[49]Si veda a tal proposito il caso Veedfald, che si conclude, nella parte relativa a tale lettera dell’art. 7, affermando che «l’art. 7, lett. c), della direttiva deve essere interpretato nel senso che l’esenzione dalla responsabilità per mancanza di attività a scopo economico o di attività professionale non si applica al caso di un prodotto difettoso fabbricato ed usato nell’ambito di una prestazione medica concreta interamente finanziata con fondi pubblici e per la quale il paziente non deve versare alcun corrispettivo». Si tratta di un caso che chiaramente restringe il campo interpretativo e conseguentemente applicativo dell’art. 7, lett. c).

[50] La disposizione difatti asserisce: «Ai sensi dell’articolo 1, per «danno» si intende: a) il danno causato dalla morte o da lesioni personali, b) il danno o la distruzione di una cosa diversa dal prodotto difettoso, previa detrazione di una franchigia di 500 ECU, purché la cosa i) sia del tipo normalmente destinato all’uso o consumo privato e ii) sia stata utilizzata dal danneggiato principalmente per proprio uso o consumo privato. Il presente articolo lascia impregiudicate le disposizioni nazionali relative ai danni morali.».

[51] Si veda G. Alpa, U. Carnevali, F. Di Giovanni, G. Ghidini, U. Ruffolo, C. M. Verardi, op. cit., pp. 64-97.

[52] Si ricordi che i meccanismi di I.A. ad oggi sono governati per lo più dal processo di machine learning, declinato in più modalità (ad esempio il Deep Learning), che rende il dispositivo di riferimento imprevedibile per lo stesso programmatore.

[53] Si fa qui riferimento al Libro Verde del 1999, alla relazione della Commissione del 2000, nonché allo studio Lovell’s per la commissione stessa del 2003 e infine una relazione del 2011 sempre della Commissione europea. Si tratta perciò di un corposo gruppo di valutazioni, che servono a tracciare un bilancio provvisorio della disciplina dopo tre lustri di applicazione.

[54] Si veda Lovell’s Study, Responsabilità per danno da prodotti difettosi nell’Unione Europea: un rapporto per la Commissione europea, Parte I, par. 3, p. 3.

[55]La CGCE si è pronunciata sulla direttiva in due occasioni nell’ambito di ricorsi per inadempienza promossi contro la Francia (C-293/91, sentenza del 13.1.93, Rec. 1993, p. I-1) e contro il Regno Unito (C-300/95, sentenza del 30.5.97, Rec. 1997, p. I-2649).

[56] Ci si riferisce qui alla Prima, alla Seconda, alla Terza relazione e allo studio Lovell’s, che confermano il perseguimento di scopi di armonizzazione con successo, elogiando l’operato della commissione, pur sottolineandone alcuni punti deboli. La Quarta relazione fa notare che la direttiva ha fallito nel suo progetto di armonizzazione, ma che la Corte europea di Giustizia ha sopperito a queste manchevolezze definendo «il campo d’applicazione e l’attuazione corretta e uniforme della direttiva» (p. 11, IV relazione).

[57]  Il Libro Verde (pp. 18 e ss.) pone l’accento su diverse problematiche che erano emerse dall’applicazione concreta della direttiva, individuando come problematici i seguenti punti, poi confermati anche dalle seguenti relazioni: 1. onere della prova, che risulta essere eccessivamente gravoso in contiguità con un progresso tecnologico continuo; 2. rischio di sviluppo, che risulta essere la linea di confine tra la responsabilità e l’immunità del produttore, e costituisce la valvola attraverso cui poter o meno operare una richiesta risarcitoria; 3. la franchigia finanziaria, che deve essere adeguata ai valori correnti non solo di danno, ma anche di costi, pur essendo una misura deflattiva del contenzioso bagatellare; 4. termini di prescrizione e decadenza, che potrebbero risultare inadeguati in caso di danni lungolatenti, che hanno un trend di crescita negli ultimi anni (p.23); 5. obbligo di assicurazione, che non è previsto dalla direttiva, ma potrebbe essere una buona soluzione per coprire eventuali danni derivanti dal carattere difettoso dei prodotti venduti; 6. prodotti coperti dalla direttiva, che potrebbero ricomprendere anche i beni immobili; 7. danni coperti dalla direttiva, fra i quali non sono ricompresi i danni immateriali; 8. accesso alla giustizia, non sempre limpido e coerente con i principi della direttiva. Le seguenti relazioni (Lovell’s e 2011) riconfermano in pieno questi dubbi, ponendo l’accento sui prodotti ricompresi dalla direttiva.

[58] Si veda IV relazione, p. 11.

[59] Si veda IV relazione, p. 12.

[60] Ibidem.

[61] Si veda Risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017, recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica (2015/2103(INL)).

[62] Si veda considerando B della risoluzione 16/02/2017.

[63] Si veda considerando D della risoluzione 16/02/2017.

[64]Si veda considerando H della risoluzione 16/02/2017.

[65]Si veda considerando AC, nonchè AD della risoluzione 16/02/2017.

[66]Si veda considerando AE della risoluzione 16/02/2017.

[67]Si veda considerando AF della risoluzione 16/02/2017.

[68]Si veda considerando AG della risoluzione 16/02/2017.

[69]Si vedano i considerando AH e AI della risoluzione 16/02/2017.

Pier Francesco Zari

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