La condotta ascrivibile a terzi interrompe il nesso causale che rende imputabile il datore di lavoro per l’evento occorso al lavoratore

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La condotta ascrivibile a terzi interrompe il nesso causale che rende imputabile il datore di lavoro per l’evento occorso al lavoratore ove non vi sia prova della sua conoscenza o della sua colpevole ignoranza.

La Cassazione con una sentenza dal rilevante contenuto argomentativo sconfessa la Corte di merito che vede il “datore di lavoro, come tale, portatore di un debito di sicurezza di ordine generale nei confronti dei dipendenti” (Cassazione Penale, Sez. IV, 21 dicembre 2020, n. 36778 ud. 2 dicembre 2020 Presidente Piccialli, Relatore Pavich)

La quarta sezione della Corte di Cassazione attraverso il provvedimento in esame ha ritenuto di sottolineare che la responsabilità del datore di lavoro per pratiche incaute attuate dai lavoratori deve essere vagliata sotto il profilo della conoscenza o della colpevole ignoranza, evitando di guisa che, l’eventuale responsabilità per colpa si possa tramutare in responsabilità oggettiva.

 

Indice degli argomenti

  1. L’obbligo giuridico di impedire l’evento e l’equivalenza causale di cui all’art. 40 cpv c.p. nel contesto della sicurezza sul lavoro;

2.      Accertamento del nesso causale tra condotta del datore di lavoro e l’evento;

  1. Il fatto;

4.      Le premesse motivazionali che conducono alla sentenza della quarta sezione della Corte di Cassazione del 21 dicembre 2020 n. 36778;

5.      La decisione dei Giudici di Piazza Cavour e la conferma del principio di giurisprudenziale.

 

  1. L’obbligo giuridico di impedire l’evento e l’equivalenza causale di cui all’art. 40 cpv c.p. nel contesto della sicurezza sul lavoro.

L’articolo 40 cpv c.p. recita che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionare”, questa la matrice dei c.d. reati commissivi mediante omissione, laddove, l’obbligo giuridico acquisisce forma e rilievo nella posizione di garanzia che si ricollega al principio di offensività.

In altre parole, la norma individua a monte quei beni giuridici bisognosi di una tutela rafforzata e ne impone la protezione attraverso una condotta idonea ad impedire l’evento lesivo, di modo che, il reato omissivo improprio assume la sua connotazione nella violazione dell’obbligo di impedire il verificarsi di un evento tipico ai sensi di una fattispecie commissiva-base.

Il decreto legislativo 81/08 in materia di salute e sicurezza sul lavoro descrive gli obblighi del datore di lavoro (artt. 15 e segg.) e conferisce determinatezza all’illecito colposo, ottemperando ai dettami imposti dal principio di legalità, anche se, non individua specificamente tutte le possibili prescrizioni atte a governare compiutamente rischi vari e complessi connessi alla tematica in oggetto.

Sempre a mente del medesimo decreto, il datore di lavoro dovrà così analizzare i rischi specifici connessi alla propria attività e adeguare la normativa, dall’impronta generalizzante, alle caratteristiche della propria impresa.

Sul punto, anche la normativa civilistica – art 2087 del cod. civ.- pur non comprendendo descrizioni di dettaglio, come quelle rinvenibili nelle varie leggi organiche previste in materia antinfortunistica, sancisce il carattere assoluto e indisponibile dell’integrità fisica del lavoratore che non può essere sacrificata per le finalità economiche della produzione.

  1. Accertamento del nesso causale tra condotta del datore di lavoro e l’evento.

Secondo l’articolo 2 del D.P.R. 1124/65, l’infortunio è l’evento occorso al lavoratore per causa violenta in occasione di lavoro e da cui sia derivata la morte o l’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che comporti l’astensione dal lavoro per più di tre giorni.

Tale causa la violenta viene ad essere imputata in capo al datore di lavoro, laddove, si possa giungere a provare che l’omissione delle specifiche regole prevenzionistiche è causa dell’evento.

  1. Il Fatto

Dopo l’assoluzione in primo grado dal reato di omicidio colposo con violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, la Corte di Appello aveva condannato il datore di lavoro di un’azienda alla pena di otto mesi di reclusione, con pena sospesa, in virtù della sua posizione di garanzia per un infortunio accaduto a un lavoratore dipendente, il quale, introdottosi nell’ambito dell’area di un grosso macchinario attraverso un varco realizzato abusivamente e privo del dispositivo di blocco di sicurezza, si era infortunato mortalmente perché schiacciato dalle parti della macchina stessa messisi in movimento improvvisamente. La Corte aveva motivato il provvedimento de quo, riferendo che la responsabilità era da attribuirsi al datore di lavoro per aver omesso la dovuta vigilanza sulla realizzazione del cancelletto abusivo e sulla sua utilizzazione, addirittura, dall’istruttoria dibattimentale era emerso che il datore di lavoro era privo di ogni conoscenza circa la modifica effettuata dagli operai sul macchinario.

I medesimi Giudici incaricati rappresentavano, altresì, che se il dipendente avesse fatto uso dell’apposito varco, predisposto dalla casa produttrice del macchinario munito di apposite fotocellule, il macchinario si sarebbe automaticamente bloccato, consentendo in sicurezza l’operazione di rimozione del materiale che lo aveva inceppato.

  1. Le premesse motivazionali che conducono alla sentenza della quarta sezione della Corte di Cassazione del 21 dicembre 2020 n. 36778.

Le premesse motivazionali dei Giudici di legittimità hanno valenza puramente procedurale e sono tutt’altro che trascurabili.

Infatti, nel provvedimento sottoposto al vaglio di legittimità, è ictu oculi evidente il contrasto fra l’oggetto specifico dell’imputazione originaria e il disposto comminato dalla Corte di appello.

Infatti, nel mentre, il decreto di citazione a giudizio di primo grado poneva a carico del datore di lavoro l’addebito di avere disposto la realizzazione del cancelletto abusivo, la Corte di Appello aveva ravvisato la condotta criminosa del datore di lavoro nel non avere esercitato il dovuto controllo su quanto accadeva all’interno dello stabilimento e, quindi, anche sulla realizzazione ad opera degli operai del varco utilizzato dal lavoratore infortunato, secondo i principi della culpa in vigilando.

L’assunto non sfuggiva al riesame degli Ermellini che traducevano l’operato della Corte di Appello quale importante lesione il diritto di difesa dell’imputato.

  1. La decisione dei Giudici di Piazza Cavour e la conferma del principio Giurisprudenziale.

I Giudici della IV sezione, nel provvedimento in commento, riconfermavano la propria giurisprudenza di legittimità, andando a ribadire che “E’, allora, del tutto pertinente il richiamo del ricorrente all’arresto giurisprudenziale in base al quale non può essere ascritta al datore di lavoro la responsabilità di un evento lesivo o letale per culpa in vigilando qualora non venga raggiunta la certezza della conoscenza o della conoscibilità, da parte sua, di prassi incaute, neppure sul piano inferenziale (ossia sulla base di una finalizzazione di tali prassi a una maggiore produttività), dalle quali sia scaturito l’evento (Sez. 4, n. 20833 del 15/05/2019, Stango, n.m.).

Del resto in termini affatto analoghi si è espressa la giurisprudenza di legittimità in altro, recente arresto, in base al quale, in tema di infortuni sul lavoro, in presenza di una prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni volte alla tutela della sicurezza, non è ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell’esigibilità del comportamento dovuto omesso, ove non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza, di tale prassi (Sez. 4, n. 32507 del 16/04/2019, Romano, Rv. 276797).

Nel caso di specie, si ripete, neppure è stata argomentata nella sentenza impugnata la prova dell’esistenza di una prassi in tal senso; ma, quand’anche tale prova fosse emersa in giudizio, sarebbe stato comunque necessario accertare ulteriormente – quanto meno in via logica, e non certo sulla sola base dell’astratta posizione di garanzia – che il datore di lavoro fosse, o dovesse necessariamente essere, a conoscenza della prassi incauta.”

Provvedimento, perfettamente coerente con quanto riportato anche in altra sentenza di altra sezione e di poco precedente, (Corte di Cassazione – Sentenza n. 11546 del 15 giugno 2020 civile Sez. Lavoro – Pres. Raimondi – Est. Lorito -) laddove, viene ribadito, in presenza dei medesimi presupposti fattuali, nel caso di specie “il fatto del terzo aveva assunto il carattere dell’assoluta imprevedibilità, inopinabilità ed esorbitanza secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, sì da porsi quale causa esclusiva dell’evento”, ed essendo connesso, in quanto tale, al comportamento di terzi, lo stesso non poteva essere evitato attraverso la diligenza richiesta dalla disposizione di cui all’art. 2087 c.c..

Diligenza che non può ispirare la predisposizione di misure idonee a prevenire ogni evento lesivo ma solo quelle da reputarsi comprese  entro confini di ragionevolezza e prevedibilità. “Né può desumersi un obbligo assoluto del datore di lavoro di adottare, in applicazione dell’art. 2087, ogni cautela diretta a garantire un ambiente di lavoro a ‘rischio zero’ quando di per sé il pericolo di una lavorazione non sia eliminabile, così come non può ragionevolmente pretendersi l’adozione di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo per l’integrità psicofisica del lavoratore.

Ove applicabile, un siffatto principio importerebbe quale conseguenza l’ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile, e nonostante l’ambito dell’art. 2087 cod. civ. riguardi una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non meramente possibilistici.”

E ancora, posto che l’art. 2087 cod. civ., “ha un ruolo di norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. (vedi fra le tante, Cass. 14/1/2005, n. 644; Cass. 1°/2/2008, n. 2491; Cass. 3/8/2012, n. 13956; Cass. 8/10/2018, n. 24742)”, deve concludersi che perché possa dirsi integrata la fattispecie in esame sarà necessario esaminare la condotta in termini di riconducibilità all’autore e rimproverabilità della stessa, in termini di comportamento omissivo, attraverso un preciso giudizio di colpevolezza.

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Eugenio Salvatore

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