Intenzione e intenzionalità

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L’intenzionalità è uno stato mentale relativo a qualcosa ma non strettamente causale con altri stati del mondo, Brentano osserva che non deve esservi obbligatoriamente una realtà delle cose o eventi a cui si riferiscono tali stati mentali essi diventano oggetti in quanto rappresentati nel soggetto, l’intenzionalità diventa quindi elemento che distingue gli stati mentali dagli stati puramente fisici ma, come osserva Frenge, non vi è nulla nello stesso stato mentale che permette di distinguere tra i casi in cui si pensa ad autentici oggetti reali dai casi in cui gli oggetti non esistono.

Nel tentativo di superare il groviglio derivante dalla questione dello status ontologico degli oggetti intenzionali, Chisholm ha concentrato la propria attenzione sui termini della logica simbolica usata nelle descrizioni, in questo tenendo presenti due aspetti, il primo per cui ogni enunciato è composto da altri enunciati di cui si devono conoscere i valori di verità (logica vero funzionale), il secondo dal riferimento su cui si appoggia l’enunciato e non dal significato in se stesso ( logica estensionale), i limiti di quanto qui sostenuto sono stati evidenziati da Searle osservando che l’analisi della logica simbolica risolve le peculiarità del linguaggio ma non quella degli stati mentali che fanno riferimento ai fenomeni mentali precedenti al linguaggio che li descrive.

Nella ricerca di collegare la logica del linguaggio con l’analisi della mente Russell introduce il concetto di “attitudini proposizionali”, ossia l’attitudine del soggetto verso la proposizione la quale non è che la rappresentazione del significato da condividere fra differenti enunciati, in altre parole il collegamento di un particolare enunciato proferito o scritto con lo stato mentale che ha indotto a quel particolare enunciato stesso.

Quine nel domandarsi se l’intenzionalità sia un fenomeno reale ritiene che l’indeterminatezza derivante dalla nostra possibilità di tradurre in espressioni linguistiche varie lo stesso concetto mostri l’errore nel credere dell’esistenza di stati mentali che manifestino intenzionalità, non resta quindi che elaborare un’analisi comportamentistica dell’uomo (Quine), il tutto viene quindi a ridursi a una semplice interpretazione olistica come sostenuto da Davidson e Putman.

La riduzione dei fenomeni mentali all’aspetto puramente psicologico, come detto da Quine, non soddisfa molti scienziati cognitivi per cui si è elaborata una teoria computazionale della mente rifacendosi alla teoria dei computer.

Assumendo i simboli il ruolo di proposizioni nelle rappresentazioni mentali ( attitudini proposizionali), Fedor avanza l’ipotesi che la mente possiede un insieme di regole utili a determinare quali operazioni si possano eseguire su tali rappresentazioni, questo tipo di rappresentazioni mentali costituirebbero quindi un “linguaggio del pensiero” innato che spiegherebbe il comportamento psicologico umano, in ultima analisi la mente manipolerebbe i simboli senza conoscere quello che rappresentano seguendo i soli aspetti sintattici.

La circostanza che non vi deve essere corrispondenza obbligatoria tra pensiero e oggetti o eventi reali del mondo ( solipsismo metodologico) induce Putnam ad affermare un’incompatibilità tra psicologia delle attitudini proposizionali e spiegazioni computazionali della psicologia non potendo questa trattare gli aspetti di significato dipendenti dal mondo, infatti Fodor afferma che solo quello che è formalmente rappresentato dentro il sistema cognitivo può essere oggetto di manipolazione secondo le regole e rappresentazioni proprie del sistema.

Questo tuttavia da una parte impedisce il rapporto con il mondo reale, dall’altra appare semplicemente posporre il problema di una spiegazione dell’ intenzionalità ( Richardson), d’altronde il concentrarsi sugli aspetti sintattici e sulle regole interne al sistema cognitivo trova un’ulteriore limite sulle informazioni che noi usiamo le quali in parte sono di origine culturale e sociale ( Heidegger).

L’infinità di informazioni che dobbiamo assumere può risolversi in una crescente difficoltà di elaborazione che viene risolta in termini olistici, con crescente perdita della capacità di elaborazione stessa fino a rimanere imprigionati dal processo di ragionamento ( Dennett- problema dei frames), si è avanzata l’ipotesi di un “modello distributivo parallelo” (connessionismo) che permetta di superare la rigidità di un sistema esclusivamente normativo.

In questa nuova configurazione vi è un sistema di nodi i quali permettono di modificare la configurazione interna al sistema, adattandolo alle esigenze locali, secondo stimoli di eccitazione o inibizione, il sistema nel reagire alle nuove esigenze che si presentano acquista una capacità di adattamento cognitivo che rafforza la teoria rappresentazionale della mente ( modello connessionista).

Dretske osserva che ogni stato trasporta informazione relativamente ad un altro stato esattamente per il grado per il quale dipende da quest’ultimo stato, in questa relazione deterministica il segnale informa intorno alla causa senza per questo avere una propria specificità per gli stati mentali, infatti ogni sistema fisico in cui gli stati interni dipendano in qualche modo statisticamente significativo da valori di grandezza esterni possono qualificarsi come sistemi intenzionali, è quindi il giusto genere di intenzionalità che definisce la mente, ossia un’intenzionalità delimitata e focalizzata.

Nella necessità di superare l’autoreferenzialità della teoria di Fodor, Dennett propone di adottare un’interpretazione olistica, non atomistica, degli stati mentali, inoltre rifacendosi al concetto di “mondi nozionali” precisa che questi non sono il mondo reale, ma solo un mondo possibile per il singolo in cui tutte le credenze e i desideri sarebbero veri e ragionevoli, questo permette di relazionare i “mondi nozionali” con gli stati intenzionali senza doverli obbligatoriamente collegarli al mondo reale ma al contempo valutandoli per la loro capacità di adattamento del sistema all’ambiente.

Si ha pertanto un’incorporazione dell’analisi dell’intenzionalità nel quadro concettuale evoluzionistico, tanto da indurre Dennett a sostenere che anche la legge comportamentistica classica dell’effetto, per cui il comportamento è modificato dalle ricompense o punizioni, non è che una forma interiorizzata di selezione naturale, essa stessa risultato della selezione naturale.

La complessità di una spiegazione soddisfacente dell’intenzionalità getta nuova luce sull’ affermazione di Mehrabian per cui il 55% di quello che trasmettiamo quando parliamo dipende dal linguaggio del nostro corpo, il 38% dal tono della voce e solo un 7% dalle parole che scegliamo ( regola 7-38-55), sebbene legalmente solo il 7% viene a vincolarci, proprio per la difficoltà di una registrazione e valutazione ma anche perché concentrarsi solo sulla forma scritta semplifica e definisce la determinazione di una volontà esplicita con una certezza sufficiente per regolare i rapporti socio-economici distinguendoli per questo dalle volontà “implicite” che possono dedursi dalle altre due fonti.

L’intenzionalità è qualcosa che nasce da un impulso non originale ma da un seme piantato in noi da un rapporto culturale ed evoluzionistico, circostanza che ci induce a ricercare la verità più che in un “duello” in un “duetto” ( Christian).

Ryle distingue fra processi fisiologici che avvengono nell’individuo per cui si usano appositi vocabolari fisiologici e il vocabolario mentale adottato per parlare dei comportamenti, tanto da indurre Wittgenstein all’osservazione su una possibile confusione linguistica.

I termini mentali, quale il dolore, sono per Ryle, Wittgenstein e Malcon oggetti di apprendimento in un contesto pubblico, tuttavia non possono essere considerati causa di comportamento essendo compenetrati gli stati mentali negli stati comportamentali, vi è quindi nel quotidiano la difficoltà nell’individuare sia il momento del sorgere dell’intenzionalità che quello della sua interpretazione circostanza che non può non riflettersi sul mondo giuridico.

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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