Inaugurazione anno giudiziario 2008 T.A.R. Sicilia – Catania, relazione del presidente Dr. Vincenzo Zingales

relazione 20/03/08
Scarica PDF Stampa
INTRODUZIONE ED INDIRIZZI DI SALUTO.
Eccellenza reverendissima, Onorevoli nazionali e regionali, Autorità civili e militari, Signori Avvocati, gentili Signore e Signori,
 
 
Anche per quest’anno adempio all’obbligo di procedere alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario della Sezione staccata di Catania del Tribunale amministrativo della Sicilia, svolgendo preliminarmente – come stabilito dall’organo di autogoverno della giustizia amministrativa con le delibere istitutive di tale cerimonia (delibere del C.P.G.A. adottate in data 08/11/2001 e 20/06/2002) – la relazione sull’attività giudiziaria e sulle riflessioni che da tale attività scaturiscono comprese le eventuali esigenze di modifica legislativa”, e quindi sull’andamento e sullo stato della Giustizia amministrativa nello scorso anno 2007 in questa circoscrizione giudiziaria.
Ma consentitemi, prima di leggere (solo parzialmente) tale relazione, di ringraziare, a nome di tutto il Tribunale che ho l’onore di presiedere, il Magnifico Rettore dell’Università di Catania, Prof. Antonino Recca, ed il Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia della stessa Università, Prof. Enrico Iachello, per avere consentito, in piena sintonia con la sensibilità istituzionale, la cortesia e disponibilità personale di cui sono dotati, che tale pubblica e solenne cerimonia si svolgesse nella cornice prestigiosa – e certamente più ampia e funzionale dell’attuale sede del TAR di Catania – di questa magnifica Aula magna della predetta Facoltà. E lo stesso ringraziamento va esteso egualmente al Preside della Facoltà di Lingue che ha la sede anche in questo storico e mirabile edificio già appartenuto all’ordine monastico dei Benedettini.
Come per tutte le analoghe cerimonie di apertura dell’anno giudiziario della Magistratura ordinaria e di quella contabile, anche quelle che si svolgono per l’inaugurazione dell’anno giudiziario della Magistratura amministrativa presso tutti i T.A.R. e le loro Sezioni staccate, e presso il Consiglio di Stato, costituiscono ineludibili occasioni per informare, attraverso la lettura delle relazioni, non soltanto magistrati e avvocati ma anche l’opinione pubblica sull’andamento e sulla prospettiva di questo settore della giustizia.
Mi sembra appena il caso di ricordare in proposito che, come prescritto dall’art. 101, 1° co., della Costituzione, “la giustizia è amministrata in nome del popolo, anche se – ovviamente – non dal popolo direttamente ma da magistrati reclutati per concorso (artt. 102, 2° co., e 106, 1° co., della Carta costituzionale) ed anche, per determinate funzioni, da magistrati onorari, e quindi non di carriera o “togati” (art. 106, 2° e 3° co., della Carta); e che tale solenne affermazione del principio secondo cui la funzione giurisdizionale è esercitata “in nome del popolo” non riveste un significato meramente e vacuamente formale o nominalistico di ossequio generico al popolo sovrano, ma esprime invece, attraverso il suggestivo richiamo all’istituto civilistico della rappresentanza (o della sostituzione dell’attività giuridica) che si esercita in nome e per conto di altri soggetti, l’unico e sostanziale collegamento possibile, in uno Stato democratico e di diritto, fra il giudice (non elettivo né politicamente responsabile) e la sovranità popolare di cui la legge – soltanto alla quale il giudice è soggetto per indefettibile garanzia costituzionale di ogni organizzazione statuale fondata sui principi della democrazia e del primato del diritto (art. 101, 2° co., Costituzione) – costituisce l’espressione fondamentale in quanto approvata dal Parlamento eletto dal popolo e quindi politicamente responsabile.
Anche se, in altri termini, il collegamento costituzionale ed istituzionale fra la sovranità popolare ed i giudici si esprime e si realizza non direttamente bensì indirettamente attraverso la mediazione della legge approvata dai rappresentanti del popolo, il “recupero” di un simulacro di contatto diretto e democratico fra cittadini e giudici può e deve avvenire, per legge ma prima ancora per consuetudine, con lo strumento della Relazione consuntiva sull’attività giurisdizionale svolta nell’anno giudiziario precedente.
È questo, dunque, l’unico modo rituale per dare visibilità in una sede pubblica ed in forma solenne al principio costituzionale che consacra il legame di fondo fra il popolo e i suoi giudici.
Ed è in questo quadro di riferimento, e per le finalità cui si è sommariamente accennato, che desidero innanzi tutto rivolgere, unitamente a tutti i Magistrati e funzionari amministrativi del T.A.R. Sicilia – Catania, un caloroso saluto ed un sentito ringraziamento a tutti gli intervenuti: Parlamentari europei, nazionali e regionali, autorità civili, militari, religiose, colleghi della Magistratura ordinaria, rappresentanti delle Università degli Studi, dell’Avvocatura dello Stato, delle Avvocature degli altri Enti pubblici, dei Consigli degli ordini degli avvocati, delle varie Associazioni forensi, delle Pubbliche Amministrazioni, delle imprese, dei sindacati, esponenti di tutte le espressioni della società civile, giornalisti ed operatori dei mezzi di comunicazione, che, con la loro presenza, dimostrano l’attenzione e l’interesse con cui tutte le componenti della società, e non soltanto gli addetti ai lavori, seguono il complessivo andamento della Giustizia amministrativa, divenuta sempre più un fenomeno di massa in tutto il Paese.
Ma lo stesso saluto e lo stesso ringraziamento vanno estesi al Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, ed al suo Presidente, Presidente del Consiglio di Stato, Dott. Paolo Salvatore, nonché al Presidente del T.A.R. Sicilia Dott. Giorgio Giallombardo ai quali mi legano antichi sentimenti di stima e di amicizia.
Un ulteriore particolare ringraziamento merita, poi, tutto il Foro della Sicilia orientale (e quindi di Catania, Messina, Siracusa, Ragusa ed Enna), ed anche occidentale, in quanto vanta una lunga e brillante tradizione anche nel settore della giustizia amministrativa ed ha sempre contribuito con professionalità e passione all’evoluzione giurisprudenziale di questo Tribunale. Ed eguale apprezzamento intendo rivolgere alla Società avvocati amministrativisti della Sicilia orientale ed alla Camera amministrativa di Catania, con il reiterato auspicio di una più incisiva e costante collaborazione con questo Tribunale, non solo e non tanto a livello propositivo, ma soprattutto ed essenzialmente in funzione di sostegno attivo a tutte le doverose richieste che vengono formalizzate e indirizzate da questa Presidenza ai competenti Uffici centrali della Giustizia Amministrativa per il miglioramento del servizio reso alla collettività.
Un cordiale saluto e ringraziamento, ovviamente, a tutti i colleghi Magistrati del T.A.R. Sicilia, all’Associazione Nazionale Magistrati Amministrativi ed all’Associazione Nazionale Magistrati. Ed un particolare saluto e ringraziamento rivolgo a tutto il personale di Segreteria di questo Tribunale che condivide quotidianamente, con encomiabile spirito di servizio, il gravoso impegno dei Magistrati.
Un pensiero affettuoso e riconoscente verso i Presidenti che mi hanno preceduto; in particolare i Presidenti, ultimi in ordine di tempo, Trovato e Delfa.
Ed infine, vorrei ricordare con particolare affetto il Presidente Giovanni Castiglione, già Presidente del T.A.R. Sicilia, che è venuto a mancare nell’agosto 2007.
Ciò premesso, dico subito che anche quest’anno sono stato costretto a redigere una Relazione che per alcuni aspetti risulta poco rituale ed ortodossa a causa della concomitanza, e quindi della perversa sinergia di azione, di una pluralità di eventi negativi che ostacolano (ed ostacoleranno sempre più in futuro ove non si ponesse immediato rimedio ad una situazione in rapido deterioramento) l’ordinato, normale e proficuo svolgimento dell’attività istituzionale di quest’organo giurisdizionale: innanzitutto, il permanere e l’acuirsi delle gravissime carenze di organico del personale di Segreteria (già ampiamente denunziate con le Relazioni del 2006 e del 2007); a ciò si aggiunga la sopravvenuta insufficienza logistica o inidoneità dell’attuale sede istituzionale; e, infine, la consequenziale situazione di parziale difformità dell’immobile dagli “standards” normativi di sicurezza. Su tali problemi, quindi, non ci si potrà sottrarre all’obbligo di soffermarsi adeguatamente più avanti.
 
 
1.     L’ANDAMENTO GENERALE DELL’ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE DEL T.A.R. SICILIA – CATANIA, NELLA SUA DIMENSIONE QUANTITATIVA.
 
 
Evidenti ragioni di contenimento della Relazione in limiti quantitativi e temporali accettabili, al fine di non tediare oltre misura l’uditorio, mi inducono a tralasciare i sia pur brevi e consueti accenni agli aspetti concreti dell’attuale stato complessivo della giustizia amministrativa in Italia (peraltro rientranti nell’ambito specifico della Relazione del Presidente del Consiglio di Stato) ed a concentrare l’attenzione sull’andamento generale dell’attività giurisdizionale di questo Tribunale, e quindi limitatamente alla sua circoscrizione che ricomprende, com’è noto, tutto il territorio delle 5 Province della Sicilia orientale.
Preliminarmente va detto che la Sezione staccata di Catania del T.A.R. della Sicilia, nonostante il grande impegno ed anzi l’abnegazione dei magistrati, le loro elevate capacità professionali, e la loro tensione morale ed ideale, non è riuscita neanche nell’anno 2007, ad avviare una inversione della tendenza all’accumulo di arretrato, tendenza già manifestatasi nel 2004 e negli anni precedenti, e cioè a definire nel merito un numero di giudizi superiore a quello dei ricorsi pervenuti nel corso dello stesso anno 2007. Dinanzi al T.A.R. Sicilia – Catania, infatti, al 31 dicembre 2007 pendevano 67.929 ricorsi, e quindi 1.244 in più rispetto a quelli pendenti al 31 dicembre 2006 che ammontavano a 66.685-.
Ovviamente il dato quantitativo della pendenza complessiva dei ricorsi si ricava aggiungendo a quello complessivo dell’anno precedente il numero dei ricorsi depositati nell’anno successivo di riferimento (per il 2007, n.3.403 ricorsi introduttivi del giudizio) e sottraendo, poi, da tale dato parziale il numero dei ricorsi definiti con sentenza di merito nello stesso anno di riferimento (per il 2007 n.2.159 ricorsi).
Più in particolare, il numero dei ricorsi introduttivi del giudizio depositati nel corso del 2007 ammonta, come già detto, a n. 3.403, mentre il numero dei ricorsi per motivi aggiunti proposti nello stesso periodo ammonta ad un totale di n. 640 (di cui 349 con nuova domanda cautelare).
Questi dati complessivi vanno sottoposti ad una breve analisi per comprenderne le ragioni e fornire elementi di riflessione.
Occorre considerare, invero, che in base alla nota riforma del processo amministrativo introdotta con la legge n. 205/2000 (ed in particolare, per quanto qui rileva, con l’art. 3 di tale legge, che ha modificato profondamente l’art. 21 della legge T.A.R. n. 1034/1971), tutti i provvedimenti adottati dalle Amministrazioni in pendenza di un ricorso tra la stessa parte ricorrente e la stessa Amministrazione resistente, connessi all’oggetto di tale ricorso introduttivo del giudizio, vanno impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti che confluiscono nello stesso fascicolo del ricorso originario o principale. Tuttavia, nonostante la connessione soggettiva ed oggettiva, tali controversie presentano spesso elementi di marcata diversità, sia in relazione ai fatti di causa che ai motivi di diritto delle pretese azionate, rispetto a quelli dedotti con l’originario atto introduttivo del giudizio. Sicché i predetti ricorsi per motivi aggiunti, ancorché confluiti ed inseriti in un unico alveo o contenitore processuale, possono essere considerati per certi aspetti, anche statistici, quali ricorsi autonomi nella misura in cui risultano attinenti a vicende successive e parzialmente diverse rispetto a quelle dell’originario rapporto giuridico amministrativo, e vanno, quindi, sommati al numero dei ricorsi originali (così come, del resto, avveniva prima della riforma del 2000, allorquando tutte le controversie successive a quella instaurata col deposito del ricorso originario dovevano essere necessariamente proposte con separati ricorsi ai quali, al momento del deposito in Segreteria, veniva ovviamente assegnato un proprio numero progressivo di ruolo).
Pertanto, sulla base di tali considerazioni, può affermarsi che, in realtà, il numero effettivo dei ricorsi depositati al T.A.R. Sicilia – Catania nel 2007 è costituito dalla somma dei ricorsi originari (n. 3.403) e di quelli per motivi aggiunti (n. 640), per un totale di n. 4.043-.
Ma ovviamente, per evidenti motivi di omogeneità dei dati, nel calcolare la pendenza complessiva dei ricorsi si procede, come si è sinteticamente riferito, ad aggiungere al dato globale dell’anno precedente soltanto il numero dei ricorsi introduttivi o principali (e non anche quello dei motivi aggiunti), ed a sottrarre, poi, da tale somma, il numero delle sentenze definitive di merito.
Elenco ora altri dati statistici strettamente necessari ai fini di una percezione globale della dimensione quantitativa dell’attività giurisdizionale del T.A.R. Catania nel decorso anno giudiziario.
Sono state tenute nel corso dell’anno 2007   n. 80 udienze pubbliche e n. 96 adunanze camerali o camere di consiglio, per un totale di n. 1.943 procedimenti trattati in udienza pubblica e n. 4.100 in adunanze camerali.
Sono stati definiti nel merito n. 2.159 procedimenti, con n. 2.044 sentenze definitive, delle quali n. 181 emesse nella forma di sentenze c.d. “brevi”, in sede di esame, in camera di consiglio, di istanze di misure cautelari. In relazione, poi, a tali domande e procedimenti sono state emanate n. 1.541 ordinanze di definizione della fase cautelare e n. 594 ordinanze istruttorie (per un totale di n. 2.135 pronunzie).
Sono stati, inoltre, emessi n. 50 decreti ingiuntivi ai sensi dell’art. 8 della già menzionata legge n. 205/2000 (soltanto 36 dei quali sono stati opposti), n. 166 decreti presidenziali decisori per i casi di rinunzia al ricorso, cessazione della materia del contendere, estinzione del giudizio e perenzione previsti dal successivo art. 9, 1° e 2° comma, della stessa legge n. 205/2000, e n. 343 decreti cautelari presidenziali a norma del precedente art. 3 che ha modificato l’art. 21 legge T.A.R. n. 1034/1971.
Ma, come si è già accennato all’inizio dell’esposizione della dimensione quantitativa dell’andamento giurisprudenziale del T.A.R. Sicilia – Catania, nonostante gli sforzi profusi nell’anno che è trascorso, residua una notevole quantità di ricorsi accumulati negli anni, anche precedenti, che non potrà essere assolutamente smaltita in tempi brevi, tenuto conto, in particolare, del “saldo negativo” fra nuovi ricorsi “in entrata” e sentenze definitive “in uscita”.
Il problema dipende soprattutto dalla insufficienza dell’organico di diritto dei magistrati rispetto all’imponenza del contenzioso nonché, sia pure in parte, dalla grave insufficienza del personale di segreteria (sulla quale, ancora una volta, ci si soffermerà specificamente appresso, stante la insostenibilità della situazione che si riverbera, negativamente anche sulla attività giurisdizionale delle quattro Sezioni in cui si articola il T.A.R. Catania).
Nel 2007 prestavano servizio presso le attuali quattro Sezioni del T.A.R. Sicilia – Catania, che ha giurisdizione sulle cinque province della Sicilia orientale, 19 magistrati, compreso il Presidente di tutta la Sezione staccata, il cui carico di lavoro – come quello di tutti i magistrati amministrativi secondo i criteri dettati dal Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa fin dal 1989 – è fissato indicativamente in almeno 80 sentenze di merito all’anno (carico di lavoro, peraltro, ampiamente superato nei fatti, essendosi attestato ad una media di circa 120 sentenze per Magistrato, e cioè di una sentenza ogni 3 giorni) oltre ovviamente all’indefinito e non limitato carico relativo ai procedimenti cautelari, a quelli sommari, nonché a quelli afferenti ad altre varie tipologie di procedimenti e riti speciali camerali che si concludono con l’emanazione di ordinanze o decreti, che si sono attestati, nel 2007, attorno ad una media di 180 provvedimenti per magistrato.
Questa limitata dotazione organica dei magistrati, in perversa sinergia d’azione negativa con la gravissima carenza di organico del personale di segreteria, ha costituito sin dall’inizio del funzionamento di questo Tribunale nel 1977 e continua sempre a costituire – com’è inevitabile che accada per tutti gli uffici pubblici e soprattutto per quelli giudiziari – il principale fattore causale della formazione progressiva, della permanenza e dell’aumento dell’imponente numero di ricorsi pendenti.
Né può sottacersi che alla formazione ed al permanente aggravio di tale arretrato contribuisce, quale ulteriore (e sia pur minimo) fattore causale, anche la circostanza che l’Organo di autogoverno della magistratura amministrativa ha deliberato l’istituzione della 4a Sezione del TAR Sicilia – Catania (con entrata in funzione dal 1° aprile 2005) pur in presenza di un numero di soli quattro magistrati disponibili (compreso il Presidente di tale Sezione) e quindi inferiore al prescritto numero minimo di cinque magistrati. A tutt’oggi, si attende (e credo si attenderà ancora per tutto il 2008 e forse oltre) l’assegnazione almeno di un altro magistrato da aggiungere ai 19 in servizio, in modo da poter comporre ognuna delle quattro Sezioni con il prescritto numero minimo di cinque giudici, eliminando così la situazione di squilibrio numerico in atto per la necessità di dover assegnare 5 magistrati a tre Sezioni e soltanto 4 magistrati alla residua Sezione.
E non è ovviamente ipotizzabile, né legittimamente attuabile, il rimedio dell’aumento del carico di lavoro oltre il numero massimo mensile di 12 fascicoli e quindi di 12 cause da decidere nel merito, così come specificamente e dettagliatamente prescritto – con le dovute differenziazioni ed eccezioni – nei criteri di massima sui carichi di lavoro dei magistrati approvati il 18.12.2003 dall’organo di autogoverno della magistratura amministrativa. E ciò per la semplice quanto decisiva ragione che, a prescindere dalla probabile illiceità disciplinare del comportamento dei Presidenti che procedessero a decretare l’assegnazione ai magistrati (in qualità di relatori) di cause in violazione dei cennati criteri inderogabili sui limiti massimi mensili del carico di lavoro di merito, non si può ragionevolmente pretendere ed esigere dai magistrati una produttività a tal punto esasperata da compromettere o vulnerare (se non addirittura eliminare) il valore della qualità del “prodotto giustizia” sostanzialmente imposto ai giudici attraverso l’obbligo, prescritto da specifiche normative processuali, di redigere motivazioni adeguate in fatto e diritto a tutela di tutte le parti in giudizio. Come scriveva, invero, un illustre magistrato e docente, (Pajardi, L’etica del magistrato, in Giur. It. 1979, n. 2, 45 e sgg.), l’esercizio della funzione giurisdizionale “non è un lavoro che si possa valutare solo con le statistiche, e quando diventasse un lavoro prevalente di quantità sarebbe forse la fine di ogni garanzia”.
E tanto più tale affermazione appare condividibile ove più si rifletta alle molteplici difficoltà che incontrano i magistrati, così come gli avvocati, nel procedere alla interpretazione di normative molto spesso complesse, frammentarie, farraginose, oscure e contraddittorie, nonché al loro necessario coordinamento, ed alla ricostruzione sistematica di istituti giuridici vecchi e nuovi, sottoposti anche a frequenti mutazioni ontologiche.
Appare, quindi, conforme ai principi di buon andamento e di efficienza affermare che produttività e qualità del “servizio giustizia” costituiscono entrambe valori e risultati da perseguire contemperandoli necessariamente in un giusto equilibrio.
Se ciò è vero, come non sembra dubitabile, i rimedi realisticamente ipotizzabili per invertire la rilevata tendenza al “saldo negativo” del servizio giustizia reso dai Tribunali amministrativi sembrano essere, ad avviso di chi scrive e vi parla, essenzialmente tre:
a)                       l’istituzione di “sezioni stralcio” per la definizione dell’arretrato più risalente nel tempo;
b)                      l’intensificazione della frequenza delle c.d. udienze tematiche, o monotematiche, che da saltuarie e sporadiche potrebbero e dovrebbero divenire ordinarie;
c)                       ma, soprattutto, l’ampliamento degli organici della magistratura amministrativa, in generale, e, in particolare, della dotazione organica dei magistrati da assegnare al T.A.R. Catania.
        Quanto al primo di tali rimedi, mi limiterò a ricordare che le “sezioni stralcio” composte in gran parte da magistrati amministrativi collocati a riposo, vennero previste in un decreto-legge del 2001 poi decaduto per la fine della legislatura, e che, nonostante successivi tentativi e sollecitazioni, non sono state più previste in disegni o proposte di legge.
        In ordine, poi, alle “udienze tematiche” o “monotematiche”, così definite nella prassi giudiziaria amministrativa perché in esse dovrebbero poter confluire ricorsi aventi sostanzialmente identico oggetto e contenuto, incentrati quindi su di un unico “tema” o questione principale, ancorché proposti in anni differenti da soggetti diversi ma nei confronti (normalmente) di una medesima Amministrazione (pur non escludendosi la possibilità che la stessa tematica o problematica si ponga in termini sostanzialmente identici od analoghi anche in controversie pendenti con Amministrazioni diverse), deve purtroppo rilevarsi l’estrema difficoltà degli uffici di Segreteria di questo Tribunale nella ricerca ed individuazione degli innumerevoli ricorsi caratterizzati o connotati da identità o analogia di tematiche e quindi di contenuti.
        Ed invero, va subito precisato in proposito che, al di fuori delle specifiche ipotesi di ricorsi soggettivamente e/o oggettivamente connessi in senso strettamente processuale che vengono segnalati dai difensori, con apposite istanze di riunione ed istanze di prelievo, ai Presidenti delle Sezioni interne, ed al di fuori di sporadiche od occasionali indicazioni di qualche avvocato relativamente all’esistenza di cause suscettibili di proficua trattazione in una o più udienze tematiche o monotematiche, l’esiguità dell’organico del personale di Segreteria di questo Tribunale, integralmente assorbito dal disbrigo dei numerosi e gravosi incombenti processuali giornalieri, impedisce quella attività di ricerca ed individuazione sistematica di ricorsi che presentano identità o analogia di contenuti al fine di renderne possibile una trattazione unitaria davanti alle singole Sezioni interne competenti per materia, così da implementare e trasformare in ordinarie le rare udienze tematiche che, allo stato, possono realisticamente predisporsi (in questo come nella maggior parte dei T.A.R.).
        Quanto, infine, al problema essenziale dell’aumento degli organici dei magistrati amministrativi, rinvio alle brevi considerazioni che saranno formulate appresso a proposito delle necessarie modifiche legislative in materia di giustizia amministrativa.
 
 
 
3. L’ANDAMENTO DEL TAR SICILIA-CATANIA SOTTO IL PROFILO QUALITATIVO E CONTENUTISTICO DELL’ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE: QUESTIONI SOSTANZIALI E PROCESSUALI DI MAGGIOR RILIEVO AFFRONTATE NEL 2007.
 
 
La ricognizione o l’analisi dell’andamento o dello stato dell’amministrazione della giustizia in una determinata circoscrizione non può, ovviamente, esaurirsi e consistere in una mera e fredda rilevazione ed elencazione dei dati quantitativi e statistici che connotano l’esercizio della funzione giurisdizionale in un certo ambito territoriale e nel limitato periodo di tempo di un anno solare, ma deve estendersi necessariamente sino a ricomprendere il profilo qualitativo e contenutistico costituito dagli orientamenti seguiti e dai principi affermati dagli organi giurisdizionali nell’arco temporale considerato.
A tale necessaria inclusione degli orientamenti giurisprudenziali nell’area concettuale della nozione di andamento dell’attività giudiziaria deve pervenirsi non solo, e non tanto, in forza della stessa definizione e latitudine di contorni del termine andamento, che esprime e designa ontologicamente l’idea dello svolgimento o del movimento di qualcosa nel tempo, sia estrinsecamente che intrinsecamente, ma soprattutto in considerazione della precipua finalità della Relazione (cui si accennava all’inizio) orientata ad offrire ai consociati anche una rassegna del prodotto, per così dire, del servizio giustizia nella realtà territoriale in cui essi vivono e operano, e di divulgare anche per tale via, al di fuori delle riviste giuridiche specializzate e degli specifici siti informatici, la conoscenza della giurisprudenza amministrativa che maggiormente può interessare i soggetti privati e le Pubbliche Amministrazioni, e cioè, in definitiva, l’opinione pubblica.
Si deve, quindi, procedere ad una sintetica ricognizione – senza alcuna pretesa di sistematicità e men che mai di esaustività – delle più rilevanti questioni, sia sostanziali che processuali, affrontate e risolte nel corso dell’attività giurisdizionale del 2007.
L’esposizione delle massime giurisprudenziali, selezionate da questo Presidente sulla base delle varie pronunzie (sentenze, ordinanze e decreti) ritenute meritevoli di segnalazioni dai Presidenti e dai Magistrati delle quattro sezioni interne di questo Tribunale, viene articolata ed ordinata secondo l’ordine numerico delle quattro Sezioni e quindi seguendo il criterio della ripartizione interna delle varie materie attribuite alla competenza di ciascuna delle predette Sezioni con gli appositi decreti presidenziali di ripartizione annuali sulla base dei criteri di massima previsti dall’art. 13, 1° comma, n. 6, della legge 27-4-1982, n. 186.
Dall’esame di tale variegato panorama giurisprudenziale viene, così, a delinearsi il quadro d’insieme che, nei suoi aspetti essenziali ritenuti più rilevanti da chi vi parla, può essere sommariamente tratteggiato come segue (ma ovviamente, per intuitive ragioni di contenimento in tempi ragionevoli dell’esposizione orale, in questa sede dovrò necessariamente limitarmi a dare una sintetica e rapidissima lettura, o meglio indicazione generica, soltanto di quelle pronunzie che rivestono una maggiore rilevanza anche sotto il profilo economico-sociale, e quindi un più immediato e palpabile interesse per l’opinione pubblica, della quale occorre tenere sempre desta l’attenzione).
 
 
1a SEZIONE
 
 
In materia di Edilizia ed Urbanistica, sono stati espressi i seguenti orientamenti:
1)      Con sentenza del 30.1.2007, n. 179, dopo aver rilevato che la rielaborazione parziale non comporta un’approvazione parziale del P.R.G. e che i vizi relativi al mancato recepimento delle osservazioni o al loro rigetto possono essere fatti valere esclusivamente in sede di approvazione del piano regolatore generale, momento in cui diviene attuale la lesione, la Sezione ha espresso l’importante principio secondo il quale va rimossa quella confusione, per altro sussistente in molte realtà della Regione Sicilia, secondo la quale il centro storico è tale ove sussistano abitazioni “datate”.
La normativa che qualifica il concetto di centro storico è, infatti, volta al mantenimento ed al recupero di realtà culturali che, ove non abbiano in sé un carattere propriamente storico (non siano, cioé, centri storici espressivi, ex art. 2 del citato d.m. n. 1444/1968, degli agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti), siano, ex art. 55 della l.r. n. 78/1971, seppur di recente formazione (e, quindi, sicuramente non siano centri storici), agglomerati urbani contraddistinti da valori storici, urbanistici, artistici ed ambientali.
In carenza di questi presupposti, la delimitazione della Zona Omogenea “A” diventa illegittima.
 
2)      Con sentenza del 14.3.2007, n. 474, ha, inoltre, ulteriormente precisato i limiti per l’applicabilità della normativa prevista dall’art. 20 della l.r. 4/2003 – relativa soprattutto alle chiusure con tettoie – stabilendo che la progettazione di tali opere non deve porsi in contrasto con le sole norme legislative urbanistiche che non regolamentano la sagoma, il volume e le superfici utili e che, comunque, individuino il corpo realizzato quale espressione di una costruzione avente le dette caratteristiche.
La realizzazione di dette opere non può quindi trovare un limite negli strumenti urbanistici in quanto tali, ma nelle norme urbanistiche quali espressione di disposizioni legislative.
Pertanto, in quanto regolato da una procedura a sé, detto intervento, per sua natura, non si colloca in nessuna delle tipologie di recupero urbanistico previste dall’art. 20 della l.r. 71/1978.
Né, diversamente, proprio per la considerazione che la realizzazione delle opere in esame non comporta giuridicamente alcuna variazione di superfici utili e di volume (così come le opere interne, altrimenti non avrebbe alcun senso la loro inclusione in una disposizione che regola detti interventi), si può dire che realizzino una nuova costruzione, sicché, ove siano rispettose di tutte le norme urbanistiche che prescindano dai parametri di riferimento sopra indicati, possono essere realizzate, senza la possibilità di alcun impedimento diversamente giustificato.
La norma, del resto, nel suo complesso, appare concepita o come una sorta di sanatoria anticipata (non sconta, infatti, alcun regime di oneri concessori, richiedendo il solo pagamento di una tariffa invero assimilabile, per le sue caratteristiche, ad una oblazione, in quanto relazionata in maniera fissa ed uguale per tutti i Comuni della Regione e calcolata uniformemente secondo la superficie dell’opera) o, come previsto al comma 5, come una vera e propria sanatoria, posto che la procedura da essa prevista si applica anche “per la regolarizzazione delle opere della stessa tipologia già realizzate”.
 
3)      Con sentenza del 16.4.2007, n. 647, poi, ha espresso importanti principi in tema di impugnabilità delle concessioni edilizie, stabilendo che ove la lesività della difformità di un fabbricato da una concessione edilizia ovvero la conformità dello stesso ad un provvedimento concessorio originariamente illegittimo (perché contrastante con gli strumenti urbanistici) emergano in epoca posteriore, sollecitando interessi dei vicini prima non intaccati, è possibile proporre tempestiva impugnativa avuto riguardo al termine decadenziale decorrente proprio dall’emersione del fatto lesivo e non dalla effettiva conoscenza acquisita della concessione.
Sicché, l’impugnativa proposta con i motivi aggiunti dopo anni dalla trasformazione contestata con il ricorso principale va ritenuta tardiva e non può essere comunque consentita in quanto fatta dipendere dalla parziale esibizione degli atti da parte del Comune, richiesti, anch’essi tardivamente.
 
Con la medesima decisione, inoltre, la Sezione ha precisato che ove venga contestata la trasformazione edilizia come dipendente da una previa necessaria concessione edilizia, piuttosto che con la autorizzazione resa dal Comune, non sussiste l’interesse a ricorrere ove non sia sostenuto o dimostrato che la concessione asseritamente necessaria non avrebbe potuto essere rilasciata, per altro, secondo il modulo procedimentale previsto dall’art. 13 della l.n. 47/85.
 
4)      Con sentenza del 3.5.2007, n. 762, ha stabilito che in tema di governo del territorio sussiste un interesse particolarmente tutelato alla diffusione delle notizie inerenti il suo controllo, sicché vi é un interesse protetto alla conoscibilità non solo delle concessioni edilizie, ma, in ossequio al principio del controllo partecipativo, di tutti i procedimenti volti al governo del territorio, quali gli elenchi, di cui all’art. 13 della l.r. 17/1994, concernenti i provvedimenti repressivi adottati dal Comune.
 
5)      Con sentenza del 3.7.2007, n. 1158, ha ribadito l’importante principio secondo il quale  ai fini del riconoscimento del danno da illegittimo ritardo nel rilascio di una concessione edilizia, la configurabilità del danno emergente (maggiore costo di costruzione) e del lucro cessante (mancata maturazione del reddito per lo sfruttamento degli immobili) richiede quale necessario termine di paragone la realizzazione della costruzione, mancando la quale, viene meno la base di calcolo su cui liquidare il danno.
 
6)      Con sentenza del 12.7.2007, n. 1227, si é precisato che tutti i progetti relativi all’installazione di impianti eolici in-shore ed off-shore devono essere sottoposti al giudizio di compatibilità ambientale e quelli che ricadono anche parzialmente all’interno di siti d’importanza comunitaria (SIC), devono contestualmente attivare le procedure relative alla valutazione d’incidenza. Sotto tale profilo, ai sensi dell’articolo 9 della legge regionale 3 maggio 2001, n. 6, l’organo deputato al rigetto preliminare del progetto è l’Assessorato Regionale al Territorio ed all’Ambiente e non già la Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali, che è inserita tra l’altro in un diverso Assessorato
 
7)      Con sentenza del 6.9.2007, n. 1395, ha chiarito che la trasformazione del P.R.G., quale effetto dell’esame e dell’accoglimento di un’opposizione di un soggetto terzo (in quanto non proprietario dell’area cui la modifica si rivolge), comporta la ripubblicazione dello strumento e la riedizione della procedura garantista delle osservazioni.
In particolare,occorre distinguere due ipotesi di modifica del P.R.G.: la prima, secondo la quale dall’accoglimento delle osservazioni comportanti una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano adottato, si fa discendere una modifica immediata del testo del piano stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova pubblicazione ed alla conseguente raccolta delle ulteriori osservazioni; la seconda ipotesi, invece, per effetto della quale la delibera comunale di deduzioni non implica volontà di modifica immediata del piano regolatore, ma solo accettazione delle richieste e proposta di modifiche d’ufficio rivolta alla regione.Per tale motivo non occorrerà una nuova pubblicazione, con la conseguenza che il testo del piano agli effetti di salvaguardia, sarà quello adottato con la prima deliberazione, ancorché destinato ad essere modificato).
 
8)      Sempre in tema di Piani regolatori, con sentenza del 9 ottobre 2007, n. 1631, il Tribunale ha chiarito che nel caso di variante al P.R.G. che si limita a regolare soltanto un’area di proprietà esclusiva del ricorrente, riconosciuto il diritto dello stesso di essere preavvisato individualmente, non sussiste l’interesse acché questi si dolga, altresì, del mancato deposito della delibera, al palese fine di conoscenza indifferenziata da parte dei terzi.
Il ricorrente, infatti, non é terzo nel procedimento e, come tale, ha il diritto alla notifica individuale, sicché non gli giova sostenere la mancata conoscibilità della delibera in capo ai terzi, i quali, per altro, sono indifferenziati destinatari di permanenza di un vincolo a verde pubblico (per cui, invero, non si capisce di cosa dovrebbero dolersi).
 
Inoltre, in tema di risarcimento del danno, ha chiarito che  l‘annullamento dell’atto di diniego opposto ad una domanda pretensiva determinato dalla lesione di interessi legittimi procedimentali (difetto di motivazione) non comporta alcun giudizio in ordine alla spettanza o meno del bene da conseguire, sicché la domanda di risarcimento del danno causato da detto illegittimo provvedimento non può essere accolta ove persistano in capo alla P.A. significativi spazi di discrezionalità amministrativa pura, in sede di riesercizio del potere, e la parte istante non si sia limitata a chiedere il mero danno subito per effetto di un’illegittimità procedimentale sintomatica di una modalità comportamentale non improntata alla regola della correttezza, ma abbia richiesto l’intero pregiudizio derivante dal mancato conseguimento del bene della vita, costituito dalla richiesta pretensiva.
Qualora, pertanto, la rilevata illegittimità derivi da un vizio formale del procedimento, dal suo semplice annullamento, in mancanza della dimostrazione che la pretesa del ricorrente fosse pienamente fondata, non possono farsi derivare conseguenze ulteriori rispetto al ripristino della situazione preesistente e all’attività rinnovativa dell’Amministrazione.
 
9)      Con sentenza del 9.10.2007, n. 1633, in tema di condono edilizio, si é chiarito che nell’ipotesi di procedura di cui all’articolo 35 della legge n. 47 del 1985, la mancanza dei documenti richiesti per la concessione del condono edilizio non impedisce il perfezionamento del silenzio-assenso, che si perfeziona anche se manchino i presupposti per l’accoglimento della domanda .
In tal caso, il silenzio assenso formatosi può essere rimosso solo mediante l’esercizio del potere di annullamento di ufficio da parte del Comune, misura di autotutela che consente di contemperare il ripristino della legalità con l’esigenza, pure avvertita dal legislatore, di rendere effettivamente praticabile l’istituto del silenzio accoglimento.
Con la medesima decisione, riepilogativa dell’intera materia, si é chiarito, inoltre, che per il condono stabilito dalla l.n. 724/94 il Legislatore ha determinato, diversamente dal precedente, i requisiti necessari per il formarsi del silenzio accoglimento, richiedendo l’avvenuta allegazione della documentazione, la cui carenza preclude la formazione del silenzio assenso
Inoltre, la norma del condono edilizio del 1994 non prevede forme di conguaglio dell’oblazione, quale elemento tipizzante la procedura e presupposto, unico, della prescrizione più breve prevista dalla proceduta del 1985.
Il mancato versamento di quanto dovuto a titolo di oblazione inibisce la stessa possibilità di ottenere la concessione in sanatoria e, quindi, determina l’improcedibilità della domanda, sicché la questione relativa alla prescrizione può riguardare soltanto quanto dovuto a titolo di conguaglio.
Infine, ai fini della prescrizione della oblazione, per la procedura del 1994, il dies a quo decorre dalla presentazione della domanda, ove corredata da tutti i documenti ritenuti necessari e puntualmente prescritti dalle succitate disposizioni normative, ovvero dalla satisfattiva integrazione della stessa.
 
10)    Con sentenza del 15 ottobre 2007 n. 1666, sempre in tema di condono edilizio, si é ricostruita la materia relativa all’ultimo condono del 2003.
Con la sentenza, dopo aver precisato che l’assenza dell’impugnativa dell’ordinanza di demolizione non può riverberare i suoi effetti sulla diversa procedura per la sanatoria edilizia successivamente introdotta, posto che detto nuovo procedimento supera, vanificandolo, quello precedente, stante che l’Amministrazione deve ripronunziarsi, alla luce della diversa normativa, sull’istanza di condono, si é altresì chiarito che il diniego di concessione edilizia in sanatoria, ai sensi dell’art. 10 bis della l.n. 241/90, è illegittimo, ove non preceduto dalla tempestiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda.
Né è possibile invocare, da parte dell’Amministrazione comunale, l’art. 21 octies l.n. 241/90, che introduce un’eccezione al delineato sistema in presenza di attività priva di alcun margine di discrezionalità, stante che l’adozione di un atto di condono presuppone una valutazione dei suoi presupposti che non consente di annoverare lo stesso fra quelli vincolati .
 
Il Tribunale ha posto il rilevante principio secondo il quale,, mentre con i precedenti condoni era possibile la sanatoria dell’immobile relativamente vincolato anche se contrastante con le norme urbanistiche, ora, con la normativa del 2003, ciò non è più possibile, ostando alla regolarizzazione la compresenza del vincolo non assoluto (in linea di principio rimuovibile con il parere dell’Autorità competente) e della non conformità alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
 
11)    Con sentenza del 15.10.2007, n. 1667, si é ribadito il principio secondo il quale nel caso di mutamento di destinazione senza opere, un volta irrogata la sanzione, ai sensi dell’art. 10 – L. 47/85, si realizza de iure il ripristino dell’ordine urbanistico violato e pertanto viene meno la illegittimità del comportamento di chi ha commesso l’infrazione edilizia.
Una volta realizzata la legalizzazione dell’opera il comune si spoglia di ogni ulteriore potere sanzionatorio afferente allo stesso abuso già sanato e non può pertanto chiedere successivamente conguaglio della sanzione pecuniaria già irrogata, senza violare i principi di certezza, determinatezza e definitività ai quali deve essere uniformata l’attività sanzionatoria espletata dalla P.A.-
 
12)       Con sentenza nr. 1319 del 26.07.07 la Sezione ha affermato che l’agrumeto è cultura specializzata che rientra nella previsione di tutela di cui all’art. 2 comma 5 della L:R: 71/78, a norma del quale “… Nella formazione degli strumenti urbanistici generali non possono essere destinati ad usi extra agricoli i suoli utilizzati per colture specializzate, irrigue o dotati di infrastrutture o impianti a supporto dell’attività agricola, se non in via eccezionale quando manchino ragionevoli possibilità di localizzazioni alternative. Le eventuali eccezioni devono essere motivate”.
 
E’ stato quindi precisato che nelle aree destinate a parco sub-urbano, è incompatibile la destinazione agricola dei fondi con la suddetta previsione, perché la prima consente l’uso dei suoli al fine della produzione agricola, che è attività organizzata su base produttiva e quindi presuppone un preciso rapporto con la proprietà fondiaria, implicando l’uso organizzato di mezzi e risorse per la coltivazione del suolo, mentre la seconda presuppone la fruibilità pubblica del territorio, con destinazione collettiva del bene paesaggistico ed ambientale che vi si presuppone esistente, ed è quindi destinata ad essere trasformata nella sua consistenza dall’azione dei pubblici poteri i quali dovranno realizzarvi le opere infrastrutturali necessari alla suddetta fruizione collettiva.
Inoltre, la norma regionale di cui al menzionato art. 2, comma 5, prescrive che usi extra agricoli dei suoli possono essere ammessi solo laddove non sussistano soluzioni alternative e che tale deroga alla regola generale del divieto di uso extra agricolo dei suoli deve essere sorretta da approfondita motivazione.
Per effetto della previsione di tutela di cui al citato art. 2 comma 5 L.R. 71/78 non è quindi ammissibile l’approvazione di un programma di edilizia pubblica e convenzionata ai sensi della L.R. 86/91, perché il divieto di utilizzazione extragricola di cui alla L.R. 71/78 è tassativo ed ammette solamente la eccezione ivi prevista, ossia la motivata deroga con dimostrata impossibilità di localizzare gli interventi difformi altrove.
La ratio di tale tutela va ravvisata nella considerazione di valore che il legislatore regionale ha consacrato nella redazione dell’art. 2 comma 5 della L.R. 71/78: secondo tale disposizione, la tutela delle culture agricole specializzate è vista come garanzia di sviluppo equilibrato dell’economia e del territorio, in una logica di rapporto con i suoli rispettosa delle loro capacità di sostentamento della popolazione e dell’economia (oggi si direbbe) in termini eco-compatibili, e, quindi, in un quadro di sviluppo armonico che presuppone investimenti e ricerche nel settore dell’agronomia (aspetti questi che possono essere tutelati solo dalla tendenziale stabilità delle destinazioni dei suoli, in assenza delle quali, di fronte al crescente espansionismo edilizio, qualsiasi investimento di sviluppo sulle culture agricole di valore sarebbe irrealizzabile, perché dopo poco tempo potrebbe essere facilmente vanificato dall’edificazione).
 
13)    Con sentenza n. 638 del 16 aprile 2007, analizzando l’art.16 della L.R. n.30/2000, il quale prevede l’obbligo di astensione per gli amministratori relativamente alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado, si è affermato che tale obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.
Si è altresì esclusa la possibilità di estendere tale disposizione al di là delle tassative previsioni di legge, in quanto le disposizioni in tema di astensione vanno ritenute di stretta interpretazione, avuto riguardo alla necessità di contemperare l’interesse pubblico all’imparzialità dell’azione con l’interesse, altrettanto meritevole di tutela, a non impedire l’ordinario svolgimento dell’attività amm.va nonché quello a che gli obblighi di servizio dei pubblici impiegati non vengano elusi mediante comodi espedienti.
 
In secondo luogo, prendendo posizione sulla problematica della motivazione in materia di pianificazione urbanistica, che vede divisa la giurisprudenza, la Sezione ha affermato che la destinazione delle singole aree non abbisogna di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali – di ordine tecnico discrezionale – seguiti nell’impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l’espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni, come accade quando si sia proceduto in precedenza al rilascio in loro favore di una concessione edilizia o addirittura si sia in presenza di giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su domanda di concessione, o quando esista un piano di lottizzazione approvato e convenzionato.
 
Infine, esaminando la problematica degli standards relativi a servizi, la Sezione ha affermato che gli atti di pianificazione urbanistica impongono congrua motivazione nel caso di superamento degli standards minimi di cui al d.m. 2 aprile 1968.
 
14)    Con sentenza n. 850/07 del 21/05/2007, esaminando il caso del Piano Particolareggiato del quartiere Ortigia di Siracusa, la Sezione ha affermato che il termine di validità dei piani particolareggiati, decennale ai sensi dell’art. 16 L. 17 agosto 1942 n. 1150, si applica solo alle disposizioni di contenuto espropriativo e non anche alle prescrizioni urbanistiche di piano che rimangono pienamente operanti e vincolanti senza limiti di tempo fino all’eventuale nuova approvazione di un nuovo piano attuativo. Pertanto, conformemente all’orientamento assunto dalla locale Commissione Tributaria, ha concluso nel senso che il Piano Particolareggiato per il recupero del centro Storico di Ortigia è divenuto inefficace, per decorso del termine decennale, quanto alle previsioni ablatorie, mentre rimane in vigore a tempo indeterminato quanto agli interventi privati di recupero del patrimonio immobiliare, soggetti all’osservanza di allineamenti e prescrizioni di zona del Piano stesso.
 
15)    Con sentenza n. 1426 del 17 settembre 2007, richiamandosi al recente precedente delle SS.UU. della Cass. Civ. 28.2.2007, n. 4633, la Sezione ha escluso la giurisdizione amministrativa per le azioni di nunciazione, nel caso di specie a tutela di una “servitus altius non tollendi”, perché, pur nell’ampia accezione della definizione della materia urbanistica ed edilizia ai fini del riparto della giurisdizione, nessuna prerogativa pubblicistica si rinviene nell’ipotesi in questione, ove viene contestata un’attività di mera gestione di beni pubblici, parimenti a qualsiasi proprietario privato, nel corso della quale è stata lesa la proprietà privata, per cui non viene contestato l’esercizio di una potestà pubblica, ma solo il pericolo al diritto di proprietà immobiliare.
 
 
In materia di Organi della P.A. sono stati espressi i seguenti orientamenti:
 
1)                Con sentenza del 16.1.2007, n. 72, si è affermato che, al fine di stabilire la giurisdizione sulle controversie afferenti provvedimenti provenienti dagli Ordini professionali occorre indagare, di volta in volta, se sussista una normativa espressa che affidi all’Organo deliberante di ogni singolo Ordine una funzione giurisdizionale ovvero, per le medesime fattispecie, meramente amministrativa.
Ove, però, detto affidamento non vi sia, occorre porre mano ai principi generali che regolano la materia della ripartizione della giurisdizione.
Ne consegue che appartiene alla giurisdizione del G.A. la questione afferente alla ammissione delle liste relative alla formazione del Collegio provinciale dei Revisori dei Conti, trattandosi di questione afferente la procedura prevista come amministrativa dalla vigente normativa e non potendosi l’ipotesi riferire neanche potenzialmente ad un diritto politico secondo lo schema dell’art. 2 della L. 2248/1865 – All. E, sull’abolizione del contenzioso, non essendo previsto, inoltre, alcun richiamo alla normativa disciplinante le procedure relative agli Ordini professionali (DL. LGT. 23/11/1944 n. 382), e posto, infine, che il Decreto del Presidente della Repubblica 8 luglio 2005 n. 169 – Regolamento per il riordino del sistema elettorale e della composizione degli organi di ordini professionali – non è riferibile all’Ordine dei Consulenti del Lavoro.
 
2)                Con sentenza del 9.10.2007, n. 1629, si è stabilito che ai sensi dell’art. 53, comma 23, della Legge finanziaria 2001 (L. 23.12.2000, n. 388), applicabile anche in Sicilia in quanto norma di contenimento della spesa pubblica, gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale.
Le disposizioni regolamentari, stante la competenza degli Organi di governo locale, non possono essere demandate al Sindaco del Comune, ma, nel sistema nazionale (ex art. 48 T.U.E.L.), alla Giunta, mentre, in quello siciliano, al Consiglio comunale.
 
Inoltre, si è precisato che la sottoscrizione congiunta delle concessioni edilizie da parte del responsabile del procedimento (che non appone la sua sigla a verifica dell’istruttoria, ma come organo deliberante) e dell’Assessore concretizza una violazione del principio della separazione dei poteri, da ritenere, ormai, caposaldo della gestione degli enti locali.
 
 
In materia di conflitti interorganici, la Sezione ha formulato importanti orientamenti in tema di funzionamento degli organi assembleari degli Enti locali, rapporti tra deliberazione e pareri, nomina e revoca del Presidente del Consiglio e degli Assessori, confermando ed approfondendo, su quest’ultimo aspetto, la propria giurisprudenza degli anni precedenti.
 
1) Con sentenza n. 236 del 30 gennaio 2007, la Sezione ha affermato che:
La mozione di sfiducia al Sindaco da parte del Consiglio Comunale, ai sensi dell’art. 10, comma 2, della l.r. 35/1997 deve essere motivata.
La motivazione della revoca possiede una doppia valenza. Nei confronti del singolo destinatario è garanzia di tutela della posizione di interesse legittimo che quest’ultimo vanta alla permanenza in carica. Ma al contempo, nei confronti dell’elettorato, assolve allo scopo di interesse pubblico di rendere palesi le ragioni della “crisi” politica, consentendo ai cittadini ed alla comunità di trarne le dovute conseguenze sul piano della valutazione politica degli eletti.
I consiglieri comunali hanno a disposizione uno strumento ulteriore per esprimere il loro disaccordo politico con la gestione dell’Ente, determinando la cessazione dalla carica dell’Amministrazione, ossia le dimissioni ultradimidium, che producono l’effetto estintivo del mandato in maniera del tutto analoga alla mozione di sfiducia.
Non sussiste, però, identità di effetti tra l’ipotesi di presentazione di un atto di dimissioni contestuali della metà più uno dei consiglieri comunali e l’ipotesi di presentazione da parte degli stessi di una mozione di sfiducia al Consiglio comunale. Difatti, mentre le dimissioni sono immediatamente efficaci ed irrevocabili e non necessitano di alcun atto ricognitivo da parte del consiglio, producendo l’effetto dello scioglimento del predetto organo solo se il numero dei dimissionari sia pari alla metà più uno, la mozione di sfiducia dà, invece, vita ad un dibattito in seno all’organo assembleare, al termine del quale chi l’ha presentata può anche, eventualmente, mutare opinione e confermare la propria fiducia al sindaco.
 
2) Con la sentenza n. 282 del 15 febbraio 2007, in tema di revoca del Presidente del Consiglio Comunale, sono stati affrontati importanti aspetti sui quali la Sezione ha così statuito:
 
-I) Condizioni per la revoca del Presidente del Consiglio comunale: lo Statuto comunale può prevedere ipotesi e procedure di revoca del Presidente del Consiglio Comunale, con riferimento a fattispecie che integrino comportamenti incompatibili con il ruolo istituzionale super partes che esso deve costantemente disimpegnare nell’Assemblea consiliare.
 
-II) Natura e ruolo del Vice Presidente del Consiglio comunale: è illegittima la previsione di una decadenza automatica dalla carica di Vice Presidente del Consiglio Comunale, in dipendenza dal venire meno della carica di Presidente, posto che le due funzioni -seppure la prima è gregaria alla seconda sotto il profilo dell’esercizio dei poteri – sono completamente autonome tra loro sotto l’aspetto della nomina e dunque si tratta di cariche con pari dignità e autonomia che, come tali, devono essere separatamente ed appositamente disciplinate.
 
-III)   Possibilità che le Commissioni consiliari siano presiedute da consigliere diverso dal Presidente: E’ legittimo che la presidenza delle Commissioni Consiliari sia distinta dalla presidenza del Consiglio Comunale, a mente dell’art. 20 della L.R. 7/92 
 
-IV)   Motivazione della deliberazione consiliare in presenza di parere tecnico contrario alla proposta: in presenza di un parere tecnico contrario espresso dal Responsabile del servizio sulla proposta di deliberazione, la motivazione che sorregge la decisione dell’organo deliberante di disattendere il suddetto parere ed approvare egualmente la proposta, deve essere adeguata, proporzionata e, soprattutto, espressa nell’atto deliberativo come parte integrante e sostanziale di esso, non essendo assolutamente sufficiente la mera affermazione “tautologica” che la proposta è “regolare” o “legittima”, specie, poi, se tale affermazione è contenuta solamente nel dibattito registrato a verbale tra i Consiglieri presenti o meramente contenuta in dichiarazioni di voto.
 
-V) Sulla procedura di modifica dello Statuto Comunale: ogni modifica Statutaria deve essere adottata nel rispetto delle prescrizioni procedimentali imposte dalla legge (art. 4 l. 142/90 come recepito in Sicilia dalla L.R. 48/91) che sancisce una procedura tipica, generale, cogente ed inderogabile a tutela dell’interesse dell’intera comunità ad avere la possibilità di partecipare alla formazione e quindi anche alla modifica della principale norma locale che fonda l’autonomia del Comune. La norma costituisce un obbligo procedimentale in capo alla Giunta, volto ad aggravare responsabilmente la “formalizzazione” della proposta medesima che, come tale, può provenire da chiunque, anche dai consiglieri comunali stessi, (con la conseguenza che la Giunta non può “rifiutarsi” in questi casi di approvare lo schema della proposta di modifica). La proposta così rigorosamente “formalizzata” è adottata dalla Giunta ai fini, dapprima, della sottoposizione al pubblico per le eventuali osservazioni (se pervengono al Comune) e poi (con queste ultime, se sussistenti), per la sottoposizione al Consiglio ai fini della trattazione e della decisione. Naturalmente, la Giunta medesima, nell’approvazione dello schema di modifica proveniente dall’iniziativa di terzi, può formulare osservazioni (sia di merito che di legittimità) e/o proporre integrazioni e modifiche ulteriori, che saranno del pari sottoposte al pubblico nella fase della pubblicizzazione e poi al Consiglio per la decisione.
 
3)      Con la Sentenza n. 283/07 del 15 febbraio 2007, in tema di revoca del Presidente del Consiglio Comunale, oltre ad essere confermato quanto appena espresso nella sentenza n.282/07, sono stati affrontati ulteriori importanti aspetti sui quali la Sezione ha così statuito:
 
I) Notifica del ricorso contro la revoca del Presidente del Consiglio Comunale: In tema di ricorso da parte del consigliere comunale contro la deliberazione con la quale gli è stato revocato l’incarico di Presidente del Consiglio, il TAR Catania ha affermato che la notifica va effettuata nei confronti del Comune e di tutti i Consiglieri comunali presenti e votanti alla seduta.
 
II) Legittimazione del Sindaco: Il Sindaco, laddove non sussistano vincoli interni derivanti da apposita deliberazione dell’organo che ha emanato l’atto e che impegni l’Ente a difendere l’atto impugnato può intervenire in giudizio a sostegno del ricorrente o dei controinteressati, perché la sua posizione sostanziale di interesse non coincide necessariamente con la posizione processuale di parte resistente, che invece ha natura e carattere meramente formale ed istituzionale. Laddove, però, il Sindaco “quale organo” scelga di assumere una posizione processuale a favore del ricorrente consigliere comunale e contro il Consiglio Comunale, tale costituzione sarà ammissibile solo nei limiti in cui sarebbe ammissibile la proposizione di un ricorso da parte del Sindaco stesso, ossia nei limiti della legittimazione ad impugnare gli atti del Consiglio Comunale, che la giurisprudenza riconosce solo laddove sono lesivi delle rispettive sfere di competenza e di responsabilità.
 
4)      Coerentemente con tale giurisprudenza, con la sentenza nr. 696 del 20 aprile 2007, dopo aver confermato che:
A) La “sfiducia” al Presidente del Consiglio Comunale è illegittima, in quanto non prevista dall’Ordinamento degli Enti locali, come peraltro costantemente affermato anche dalla giurisprudenza di questa Sezione (cfr. per tutte, TAR Catania, I, 1227/2005, 1181/2006, 282/07 e 283/07).
                           B) Lo Statuto comunale può prevedere ipotesi e procedure di revoca del Presidente del Consiglio Comunale, con riferimento a fattispecie che integrino comportamenti incompatibili con il ruolo istituzionale super partes che esso deve costantemente disimpegnare nell’Assemblea consiliare;
                            
                           La Sezione ha disatteso un recente revirement del CGA, secondo il quale lo Statuto potrebbe prevedere l’istituzione di una mozione di sfiducia politica per il Presidente del Consiglio, considerata la nuova collocazione dell’Ente locale nel quadro costituzionale derivante dalla riforma del titolo V.
 
E’ contenuta nella sentenza, poi, una approfondita analisi della disciplina della delibera consiliare con la quale si approvano i verbali delle sedute precedenti, e nella quale è ammissibile solo la correzione formale di errori di verbalizzazione, dovendosi ritenere illegittima, per violazione del procedimento di convocazione del consiglio e del principio di corrispondenza tra deliberazione ed ordine del giorno, l’uso della delibera di approvazione dei verbali delle sedute precedenti per modificare, rielaborare o rettificare dichiarazioni in precedenza rese.
 
5)      Con la successiva sentenza n. 697 del 20 aprile 2007, la Sezione ha poi annullato una delibera di revoca di un consigliere comunale dalla carica di vice presidente del Consiglio comunale per il solo fatto che era stato revocato il Presidente e riafferma la autonomia della carica dalla figura del Presidente medesimo.
 
6) Continuando l’approfondimento della tematica delle deliberazioni consiliari, con sentenza n. 759 del 3 maggio 2007, la Sezione ha affermato che:
E’ illegittimo l’atto deliberativo che sia stato adottato senza la preventiva acquisizione del parere di regolarità tecnica per violazione dell’art. 53 comma 1 della l. 142/90.
Sicché detto parere va acquisito anche sulla proposta di delibera inerente la revoca del Presidente del Consiglio Comunale, in quanto i presupposti di tale provvedimento sono rigorosamente disciplinati ed attengono esclusivamente alla violazione dei doveri di imparzialità e degli altri doveri istituzionali connessi alla carica e pertanto la loro sussistenza può essere valutata dal funzionario responsabile del procedimento, anche a garanzia della trasparenza e della correttezza dell’azione amministrativa a tutela degli stessi consiglieri comunali.
 
7) Con sentenza n. 765 del 3 maggio 2007, inoltre, la Sezione ha affermato che:
-la revoca dell’Assessore Comunale da parte del Sindaco, posto che gli art. 41 d.lgs.vo n. 267/2000 e 12 l.r. n. 40/92 impongono una circostanziata relazione sulle ragione del provvedimento e, quindi, una effettiva motivazione, va ritenuto atto amministrativo e non atto politico e, in quanto tale, sindacabile dal G.A.;
e che:
-l’illegittima revoca dell’assessore da parte del Sindaco può comportare la risarcibilità, in via equitativa, del danno subito da quest’ultimo alla propria immagine, senza necessità di prova della evitabilità dell’evento dannoso, in quanto è ivi configurabile un’ipotesi di danno evento "puro”.
 
8) Ancora in tema di nomina e revoca di Assessori comunali, con sentenza n. 1723 del 23 ottobre 2007, la Sezione ha affermato il principio secondo cui a norma dell’art. 12, comma 1, della L.R. n. 7/1992, sussiste l’ obbligo per il Sindaco a comprendere nella Giunta i nominativi di coloro che sono stati presentati come futuri assessori all’atto della presentazione della propria candidatura.
 
 
In materia di Enti locali e Referendum per modifiche territoriali, si deve segnalare la sentenza nr. 1984/2007 con la quale si è affermato che:
In Sicilia, a norma dell’art. 8, commi 3 e 7 bis della L.r. 30/2000, quando il progetto di referendum ai fini della modifica territoriale di un Comune implica una variazione di popolazione inferiore al 30% del totale, l’Assessorato regionale, investito della verifica della legittimità della proposta ai sensi dell’art. 10 comma 2 della medesima legge, tutte le volte in cui non raggiunga nel procedimento con la partecipazione del Comune interessato un sufficiente ed adeguato apprezzamento degli elementi di fatto (storici, giuridici, economici, sociali, territoriali e simili) che facciano escludere l’esistenza di un interesse generale della comunità locale alla partecipazione al referendum, deve dare applicazione all’apprezzamento di merito già svolto dal legislatore regionale che al comma 3 della disposizione di cui all’art. 8 della citata L.R. 30/2000 ha previsto che “per popolazione interessata si intende l’intera popolazione residente nel Comune”.
Correlativamente, spetta all’Assessorato apprezzare l’interesse della comunità locale alla piena partecipazione al referendum in materia di istituzione di nuovi Comuni, nei limiti di cui al citato art. 8 commi 3 e 4 della L.R. 30/2000, salvo che l’istituzione del nuovo Comune interessi una quota di popolazione superiore al 30% del totale, nel qual caso il comma 7 bis del citato art. 8 impone che il referendum sia comunque aperto a tutta la popolazione residente nel Comune o nei Comuni d’origine.   
 
 
II) Nei giudizi sul “silenzio” della P.A., la sezione ha affrontato importanti tematiche che sono state oggetto delle seguenti sentenze:
 
1) Con sentenza n. 281 del 15 febbraio 2007, la Sezione ha ritenuto esperibile lo speciale rimedio dell’art. 21 bis nel caso della procedura di nomina dei tecnici che devono provvedere alla determinazione endo-amministrativa dell’indennità di esproprio, laddove non è stata accettata dal privato proprietario l’offerta iniziale dell’Amministrazione stessa. Il TAR ha ritenuto la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda, affermando che la giurisdizione del giudice ordinario inizia dall’avvenuta determinazione della indennità, ma non abbraccia il procedimento amministrativo previsto dal medesimo art. 21 DPR 327/2001 che resta soggetto alla più generale cognizione del giudice amministrativo.
 
2) Con sentenza n. 715/07 del 24 aprile 2007, la Sezione ha ritenuto ammissibile nel rito del silenzio anche il ricorso volto a sanzionare l’inerzia della P.A. nella speciale materia della tutela dei rinvenimenti archeologici: dopo aver premesso che, nell’attuale quadro normativo, disciplinato dal d.to l.vo 42/04, è prescritto che i beni di interesse archeologico appartengono allo Stato (art. 91, d.to l.vo 42/04) e che la legge, tuttavia, prevede che al proprietario del suolo spetti un “premio” determinato secondo precisi parametri di valore, per il ritrovamento (art. 92 comma 1 d.to l.vo 42/04), la sezione ha qualificato come interesse legittimo la posizione di quest’ultimo, quando aspira all’ottenimento del premio di rinnovamento e, pertanto, ha considerato esperibile, nell’inerzia sostanziale dell’Amministrazione che tale premio deve determinare e corrispondere, il ricorso con il rito speciale contro il silenzio.
 
 
3) Con sentenza n. 717/07 del 24 aprile 2007, la Sezione, premesso che in linea di principio, si ritiene non esperibile il ricorso ex art. 21 bis l. 1034/71, qualora il “silenzio” della P.A. è qualificato, poiché il silenzio rigetto, infatti, è provvedimento negativo e va come tale impugnato nei termini; nel silenzio accoglimento o assenso, manca il presupposto “sostanziale” per accedere al rito del 21 bis l. 1034/71, perché in quest’ultimo caso si ricorre contro l’”inerzia” dell’Amministrazione, tuttavia, l’inammissibilità di principio dell’azione ex art. 21 bis l. 1034/71, va commisurata anche al concreto interesse che è fatto valere. E quindi, a miglior precisazione dei principi già formulati, è stato affermato che, quando la norma prevede un meccanismo di silenzio accoglimento della istanza del privato e quest’ultimo manifesta il proprio interesse ad ottenere il titolo espresso, allora l’Amministrazione è comunque tenuta al rilascio del documento formale nel quale il titolo deve essere contenuto, con esperibilità, per il caso di omissione a provvedere, del rito speciale previsto dall’art. 21 bis l. 1034/71.
Ciò tanto più ove, come nella disciplina del condono del 2003, il silenzio assenso opera solo “ex post” ossia a condizione (che deve essere accertata in istruttoria) che sussistessero al momento della presentazione della istanza tutti i requisiti di legge per l’assenso tacito
 
4) Con sentenza n. 723 del 24 aprile 2007, la Sezione ha sancito l’importante principio secondo cui è possibile ricorrere con il rito speciale del silenzio contro l’inerzia dell’Amministrazione locale nel riconoscimento dei debiti fuori bilancio, affermando che La valutazione dei debiti fuori bilancio quando derivano dal riconoscimento giudiziale di una pretesa azionata contro l’Ente ex art. 194 comma 1 lett. “a” d.lgs.vo n. 267/2000 (sentenze esecutive) finisce con il trasfondersi in un atto obbligato e costituisce esercizio di un potere rigorosamente vincolato. Sicché è possibile azionare la procedura del silenzio.
 
 
In materia di tutela dell’ambiente, ed in particolare in ordine alla nota problematica della bonifica della Rada di Augusta, con la sentenza n. 1254 del 20/07/2007 si è affermato che:
 
Ai sensi dell’art. 14 ter, c. 6, della L. n. 15/2005 (che ha modificato la L. n. 241/1990), le determinazioni – assunte in Conferenza dei Servizi – che siano in sé vincolanti ed autoesecutive, sono immediatamente impugnabili.
Ciò non esclude che esse debbano essere recepite nel provvedimento finale dall’Amministrazione responsabile del procedimento, avendo quest’ultima la facoltà di disattenderne, in tutto o in parte, il contenuto.
 
Tale provvedimento finale ha valenza costitutiva, in quanto sostituisce le precedenti (già esecutive) determinazioni adottate in Conferenza dei Servizi, e ne rinnova il contenuto, facendo perciò decorrere ex novo i termini per l’esecuzione degli obblighi imposti.
 
Da ciò consegue l’onere, in capo ai destinatari, di riproporre un nuovo gravame contro tale provvedimento, a pena di acquiescenza e la conseguente inammissibilità dei ricorsi proposti contro le determinazioni della Conferenza dei Servizi.
 
Le prescrizioni, adottate nelle Conferenze dei Servizi convocate per determinare le modalità degli interventi di bonifica di un sito di interesse nazionale, non possiedono una valenza generale tale da attribuire loro natura di atti di indirizzo politico, nonostante la loro incidenza sui livelli produttivi e di occupazione dell’area coinvolta.
Si tratta, infatti, di atti amministrativi gestionali, come tali di competenza del Direttore Generale e non del Ministro.
 
Quando nella Conferenza dei servizi sono svolti esami e valutazioni relativi a più procedimenti, anche se “connessi”, è necessario che il provvedimento finale sia adottato procedimento per procedimento, riprendendo, esponendo e chiarendo, nella misura necessaria, le determinazioni assunte che sono relative a ciascun destinatario, singolarmente considerato (altrimenti l’azione amministrativa sconterebbe un grave deficit comunicativo, tale da renderla incerta, approssimativa e come tale viziata da eccesso di potere).
 
L’applicabilità della normativa contenuta nel D. Lgs. n. 152/2006 – ius superveniens – incontra il solo limite della intangibilità delle situazioni giuridiche già definite. In particolare, ai sensi dell’art. 264, lett. i), che ha abrogato la previgente disciplina (D. Lgs. n. 22/1997), sono fatti salvi solo i procedimenti che si siano conclusi con una autorizzazione espressa degli interventi di bonifica, mentre si applicheranno le norme del T.U.A. ai procedimenti che, pur culminati in Conferenze di Servizi, non si siano tradotti in alcun atto finale avente efficacia esterna.
 
Il modello di responsabilità ambientale, vigente nel nostro ordinamento, rientra nell’alveo della responsabilità di tipo aquiliano, di tipo soggettivo. Ciò risulta confermato dall’accoglimento espresso, nel D. Lgs. n. 152/2006, del principio “chi inquina paga”.
Da ciò derivano numerose conseguenze in punto di diritto: innanzitutto, l’onere, in capo alla P.A. – in qualità di parte attrice – di accertare e provare la responsabilità dell’inquinamento donde l’illegittimità dell’accollo indifferenziato delle attività e degli oneri di bonifica di un sito contaminato sui produttori che su di esso operano, senza il previo accertamento, con procedimento partecipato, delle relative responsabilità.
Consegue, poi, che i costi di risanamento, in caso di c.d. “inquinamento diffuso”, siano a carico della stessa Amministrazione e che il proprietario incolpevole risponda, ove la P.A. abbia provveduto alla bonifica, secondo quanto previsto dalla disciplina dell’azione di ingiustificato arricchimento, ex art. 2041 c.c., vale a dire previa prova dell’arricchimento – sia nell’an che nel quantum e nei limiti della stessa – e comunque entro il limite del valore dell’immobile bonificato.
 
Nel procedimento amministrativo di bonifica deve essere compiuto ogni sforzo per identificare il responsabile dell’abuso e per ottenere da esso il ripristino e/o il pagamento del relativo costo e di tale accertamento deve esistere nel provvedimento congrua illustrazione e corrispondente obbligo di motivazione.
 
Sono illegittime le determinazioni amministrative che pongono in tutto o in parte a carico del proprietario o del detentore di un fondo i costi e gli oneri, anche procedurali, di bonifica dei suoli o dell’ambiente dai danni derivanti dall’inquinamento se non ne viene accertata rigorosamente la responsabilità e quindi al di fuori dello specifico apporto causale all’inquinamento riconducibile alla sua attività.
 
Il proprietario dell’immobile contaminato deve essere coinvolto nel procedimento di accertamento dei fattori di inquinamento oltre le soglie e della relativa quantità, quale che possa essere il titolo della responsabilità – principale o sussidiaria – che grava sul medesimo.
 
Si esclude che possa ritenersi sussistente, a carico del proprietario, qualsiasi forma di “responsabilità da posizione”, la quale non può configurarsi – surrettiziamente – neppure facendo riferimento ai vantaggi connessi all’esercizio dell’impresa.
In materia di sanzioni amministrative, l’art. 3, c 1, della L. n. 689/1981, esclude qualsiasi forma di responsabilità oggettiva, e pertanto, quest’ultimo regime non può essere invocato neppure nell’ipotesi in cui si intendesse sottolineare l’aspetto sanzionatorio, superando la natura di risarcimento in forma specifica degli obblighi di bonifica.
 
In tema di inquinamento “diffuso”, ossia in quei casi in cui detto accertamento non sia possibile, la bonifica resta a carico della P.A. ed i relativi vantaggi dei privati proprietari o detentori dei fondi bonificati, in termini di aumento di valore del fondo, potranno costituire giusta causa di recupero delle corrispondenti somme a carico dei titolari dei diritti reali sui fondi medesimi, nei limiti ordinari delle azioni di arricchimento. E’ in ogni caso è da ritenersi necessaria ed inderogabile la partecipazione dei privati titolari di diritti reali sui fondi oggetto di bonifica (o comunque sui fondi nei quali sono localizzate o localizzabili le fonti di inquinamento) al procedimento amministrativo per l’adozione dei provvedimenti di bonifica e disinquinamento, sia al fine dell’accertamento della responsabilità, che a quello della determinazione delle modalità e dei costi della bonifica.
Alla luce del d.lgs 152/06, o l’Amministrazione accerta la responsabilità dell’inquinamento o è la stessa Amministrazione che dovrà procedere alla bonifica, per poi operare il recupero delle somme a carico delle imprese, in relazione al rapporto che esse hanno con il sito bonificato, ma salvaguardando in questo caso l’apporto partecipativo di queste ultime, specie in punto di modalità dell’intervento, e fermo restando, comunque, che a carico del proprietario incolpevole il recupero degli oneri della bonifica potrà avvenire solo nel limite dell’arricchimento di valore che il disinquinamento avrà apportato al fondo.
 
L’imputazione della responsabilità a titolo di colpa o dolo risulta, peraltro, confermata dalla formulazione adottata nell’art. 311, c. 2, del D. Lgs. n. 152/2006, nella quale il legislatore ha operato una scelta a favore della riconduzione della responsabilità per inquinamento nell’alveo della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c..
 
La disciplina – speciale – sul danno ambientale esclude che possa applicarsi la generale disciplina codicistica di cui agli artt. 2050 c.c. (responsabilità per esercizio di attività pericolose) e 2051 c.c. (responsabilità per danni da cose in custodia), disposizioni che, peraltro, operano soltanto nel campo dei rapporti tra soggetti privati e considerato, altresì, che l’indicata normativa si qualifica come disciplina speciale esaustiva dell’illecito ambientale e che pertanto esclude la concorrente applicazione della disciplina generale di codice civile.
 
Nel campo della tutela ambientale, sussistono profili di discrezionalità tecnica e profili di discrezionalità amministrativa, tra i quali non deve verificarsi commistione.
La (prima) fase, in cui dominano le valutazioni di natura scientifica, costituita dall’istruttoria tecnica sui progetti di bonifica, è condotta dagli enti cui la legge affida tali compiti (ANPA, ARPA ed Istituto Superiore della Sanità, ex art. 15 D. M. 471/1999) e in essa il Ministero dell’ambiente non può interloquire attraverso la prescrizione di modifiche tecniche ai progetti presentati.
 
Ai sensi dell’art. 240 del D.lgs. n. 152/206, la Messa.In.Sicurezza. di Emergenza (MISE). può essere disposta solo in caso di eventi di contaminazione improvvisi e non in caso di contaminazione di carattere storico.
L’obiettivo perseguito dall’istituto della M.I.S.E. è di mero contenimento della fonte di inquinamento della matrice ambientale ed in questo si distingue dall’istituto della bonifica che mira, invece, al reale recupero del tessuto ambientale compromesso, attraverso interventi ben più complessi, radicali e strutturati.
 
 
Relativamente a varie problematiche del processo amministrativo, meritano di essere segnalate le seguenti pronunzie:
 
1)      Con sentenza del 20.3.2007, n. 481 la Sezione ha chiarito che l’istruttoria che l’amministrazione deve compiere al fine di provvedere non può e non deve essere supplita dall’istruttoria che si svolge in sede processuale, laddove il giudice può approfondire aspetti che non appaiano convincenti e/o che siano controversi, ma la cui emersione sia avvenuta già nel procedimento, mentre egli non deve finire per integrare, attraverso le valutazioni e/o gli accertamenti affidati ad esperti tecnici (consulenti, verificatori) la mancante istruttoria.
 
2)      Con sentenza del 20.3.2007, n. 482, si è affermato che la valutazione di “inevitabilità” del contenuto dell’atto vincolato emanato in violazione delle garanzie partecipative (che costituisce solo una delle ipotesi in cui l’art. 21 octies della L.n. 241/1990 consente il “salvataggio” dell’atto “giusto nella sostanza” ma carente sotto il profilo formale o procedimentale) non può essere compiuta in assenza di adeguata motivazione, atteso che, diversamente opinando, si consentirebbe all’amministrazione, in pratica, di confezionare i propri provvedimenti interamente o quasi in sede processuale; dall’apprezzabile finalità “conservativa” di atti sostanzialmente corretti e legittimi non si può trasmodare nella ben diversa finalità di favorire soluzioni estemporanee e postume costruite dall’amministrazione attraverso l’integrazione della motivazione e l’utilizzazione impropria del meccanismo dell’art. 21 octies, comma secondo, della legge sul procedimento.
 
3)      Con sentenza del 16.4.2007, n. 651, la Sezione ha riaffermato il principio della c.d. pregiudizialità amministrativa, sostenendo in particolare che l’’immediata, tempestiva impugnazione dei provvedimenti illegittimi implica la possibilità per il privato di conseguire il bene della vita, o il risarcimento in forma specifica, con vantaggio per il privato stesso e per l’amministrazione, la quale evita esborsi di ingenti somme a titolo risarcitorio. Consentire che l’azione risarcitoria sia del tutto svincolata dalla previa demolizione di atti illegittimi significa trasferire le conseguenze dell’illegittimità dallo stato-apparato (tenuto a conformarsi all’annullamento del provvedimento, o a risarcire in forma specifica il privato) allo stato-comunità, che quindi sopporterà la sanzione risarcitoria, ovvero la monetizzazione del bene della vita che il privato non ha potuto ottenere o conservare. In altre parole, al privato si lascerebbe la scelta di lasciare consolidare atti illegittimi, per chiedere poi entro il termine prescrizionale il risarcimento, ovvero di reagire all’illegittimità tentando, innanzitutto, di conseguire o conservare il bene della vita sotteso. Ove simili scelte fossero imposte (anziché da una ricostruzione interpretativa, per altro, come si è visto, tutt’altro che univoca anche all’interno della stessa giurisprudenza del g.o.) da una previsione normativa, esse sarebbero sospettabili di incostituzionalità, per violazione dei principi di buon andamento dell’amministrazione, e quindi di efficienza della stessa (correttamente intesa, non come affrancamento dal controllo giurisdizionale, bensì come adeguata capacità dell’amministrazione di curare gli interessi pubblici che le sono affidati con il minimo sacrificio possibile degli interessi privati coinvolti), di cui all’art. 97 Cost., nonché di ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost.
 
4)                Con sentenza del 30.1.2007, n. 163, si è chiarito che in sede di consulenza tecnica d’ufficio l’ulteriore indagine va pur sempre riferita a fatti accessori, rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza, e non a fatti o situazioni che, in quanto posti direttamente a fondamento delle domande e delle eccezioni delle parti, debbono essere provati da queste.
In particolare, nella specifica materia della richiesta del risarcimento del danno per danno alla salute derivante dall’illegittimo diniego di una concessione edilizia, possono entrare nel processo, tramite la consulenza tecnica, atti e documenti che precisano le patologie denunciate con il ricorso principale, attualizzandole, senza però, la possibilità di introdurre elementi probatori riguardanti aggravamenti o, ancor, più,. diversi stati patologici non rappresentati in giudizio.
 
5)                Con sentenza del 16.1.2007, n. 72, si è stabilito che è da ritenere processualmente inesistente (anche se dichiarato in Udienza Pubblica da difensore di altra parte non munito di delega), l’atto di rinuncia al mandato ove non siano rispettate le modalità di cui all’art. 85 c.p.c..
 
6)                Con sentenza del 3.5.2007, n. 761, si è ribadito che il giudizio di ottemperanza ha natura di procedimento contenzioso, il che rende imprescindibile il pieno rispetto del contraddittorio.
Consegue che anche il ricorso per l’ottemperanza del giudicato, così come gli incidenti ad istanza di parte nel suo ambito sollevati, va comunque notificato ai controinteressati.
 
7)                Con sentenza del 29.11.2007, n. 1920, si è statuito che l’atto organizzativo di un Ufficio pubblico, involgente il personale, ove immediatamente lesivo, perché volto a modificare sostanzialmente le aspettative degli interessati, va impugnato negli ordinari termini previsti dal processo amministrativo e non in occasione di un suo atto meramente applicativo, di pertinenza, sotto il profilo della giurisdizione, di altro giudice.
Diversamente, si consentirebbe una dilatazione dei termini perentori previsti dal processo amministrativo per la proposizione dei ricorsi.
 
 
 
2a SEZIONE
 
 
Relativamente a provvedimenti di Pubblica Sicurezza in materia di armi, con sentenza n. 1344/2007 è stato ritenuto legittimo il diniego di rinnovo della licenza di porto fucile per uso caccia decretata dal Questore nel caso in cui il richiedente sia legato da rapporto di parentela con personaggio di spicco della consorteria mafiosa denominata cosa nostra. Risulta, infatti, non censurabile la valutazione discrezionale eseguita dall’Amministrazione con riferimento ai possibili (o potenziali) rischi di lesione del bene tutelato che – in ipotesi, anche in assenza di uno specifico dolo del titolare dell’autorizzazione – possono discendere dal rapporto di parentela con un personaggio inserito in posizione di rilievo nella consorteria mafiosa, il quale – trovandosi in condizione di latitanza – potrebbe pretendere forme di “aiuto” e “collaborazione” cui non può essere opposto un valido rifiuto. E ciò, in particolare, in quanto l’associazione criminale di tipo mafioso si avvale, da una parte, per la realizzazione del programma criminoso, della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva; dall’altra parte, ai fini della sopravvivenza e dello sviluppo dell’organizzazione stessa, si affida anche ai concreti aiuti (del genere più vario) esigibili in forza di legami familiari e/o associativi.
 
 
In materia di Appalti pubblici di servizi, con sentenza n. 955/2007 relativa a gara d’appalto per l’affidamento del servizio di gestione e manutenzione di impianti tecnologici) è stato affermato che il godimento di uno speciale regime giuridico di favore da parte di un impresa concorrente (nella fattispecie, le agevolazioni contributive previste dalla L. 407/90 per l’assunzione di dipendenti), tale da rendere giustificata e non anomala l’offerta economica, deve essere riscontrabile e sussistente già al momento della presentazione dell’offerta, e non può invece essere ancorato ad eventi futuri (anche se probabili, quali le successive assunzioni di personale), pena la violazione del principio di serietà ed affidabilità dell’offerta e di par condicio fra i concorrenti.
 
 
In materia di telecomunicazioni, e in particolare di realizzazione di stazioni radio base, con sentenza n. 1697/2007 sono state ritenute illegittime le ordinanze con tingibili e urgenti adottate ai sensi dell’art. 54 T.U. EE.LL. n. 267 del 2000, allorché presupposto del provvedimento venga posta la situazione di “dissenso popolare” che si è venuta a delineare a seguito dell’inizio dei lavori di installazione dell’antenna. Il Collegio ha ritenuto illegittimi i provvedimenti per difetto di idonea motivazione riguardo i presupposti dell’esercizio del potere ordinatorio extra ordinem, in quanto l’esigenza di intervenire a tutela della sicurezza e pubblica incolumità era stata nella fattispecie all’esame del Tribunale solo genericamente accennata.
 
 
In materia elettorale relativamente all’onere probatorio, con sentenza n. 1818/2007 si è ribadita l’inammissibilità di ricorsi sostanzialmente “esplorativi” e si è affermato che l’attenuazione dell’onere probatorio che governa il giudizio elettorale, non può comunque spingersi fino al punto di abrogare il principio generale dell’onus probandi di cui all’art. 2697 c.c., o a farlo ritenere validamente rispettato mercè la semplice esposizione analitica dei vizi denunciati.
Il Collegio ha ritenuto che nella fattispecie esaminata non fosse sufficiente ad integrare il necessario “principio di prova” quanto la ricorrente asseriva, e cioè di avere personalmente o a mezzo di propri fedeli elettori, durante le operazioni di spoglio, sentito scandire dagli scrutatori il numero di preferenze espresse in proprio favore, in quanto la mera labiale affermazione, per di più proveniente dalla stessa parte interessata, è di per sé poco attendibile.
 
 
In materia di ammissione ai corsi di laurea a numero chiuso della facoltà di medicina e chirurgia, con sentenza n. 1932/2007 si è affermato, in conformità a recente avviso del C.d.S. (C.d.S. VI, 30.12.2005 n. 7622) che deve essere esclusa la possibilità di trasferimento dalla graduatoria dei posti riservati agli studenti comunitari a quella riservata agli studenti extracomunitari non residenti in Italia, in quanto finalizzata alla formazione di personale che, dopo il conseguimento del titolo di studio, è destinato a rientrare nel proprio Paese di origine, senza alcuna incidenza sulla situazione occupazionale italiana, la quale, invece, resta incisa dagli extracomunitari con regolare permesso di soggiorno.” Conseguentemente, non si è ritenuto ammissibile che il posto vacante riservato agli studenti extracomunitari, ancorché unico il concorso di ammissione, venga ricoperto da studente italiano.
 
 
A proposito di giurisdizione amministrativa in materia espropriativa e di “perpetuatio jurisdictionis, con sentenza n. 1805/2007, in una ipotesi in cui il ricorso era stato proposto dinanzi al TAR, sebbene competente al tempo della prima proposizione della domanda fosse il giudice ordinario, si è affermato che, essendo sopravvenuto l’art. 7 della L. 205 del 2000 che ha devoluto al giudice amministrativo tali controversie a decorrere dal 10 luglio 2000, la giurisdizione appartiene oggi al giudice amministrativo, in conformità al principio secondo cui l’art. 5 c.p.c. non può essere invocato, rispondendo ad esigenze di economia processuale, nelle ipotesi in cui la norma sopravvenuta o la nuova situazione di fatto portino ad attribuire la giurisdizione (o la competenza) al giudice adito che ne fosse originariamente sprovvisto.
 
 
 
3a SEZIONE
 
 
In materia di riparto di giurisdizione:
 
1)      Con sentenza n. 360 del 26 febbraio 2007 si è deciso che esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto la legittimità del fermo amministrativo o della iscrizione di ipoteca, in considerazione della sua natura di strumento inteso alla conservazione del bene ai fini del soddisfacimento del credito tributario e della sua conseguente inerenza, quale mezzo cautelativo e anticipatorio degli effetti espropriativi, all’espropriazione forzata lato sensu; in particolare l’iscrizione di ipoteca, di cui all’art. 77 d.P.R. 602 del 1973, è atto funzionale all’espropriazione forzata e, quindi, mezzo di realizzazione del credito (in linea con Cass. SS.UU. 31 gennaio 2006 n. 2053 in D&G, 2006, 11, 28, Consiglio di Stato IV 3 febbraio 2006 n. 412 in Foro amm. CDS 2006, 2, 428).
 
2)      Con sentenza n. 538 del 27 marzo 2007 si è deciso che rientrano nella giurisdizione del Giudice amministrativo le controversie afferenti alla dovutezza del prezzo chiuso nei rapporti conseguenti un contratto di appalto di opera pubblica, la cui spettanza sia negata dalla P.A. (la materia di prezzo chiuso nella Regione Siciliana è regolamentata dall’art. 45, comma 4, L.R.n.21/1985, nel testo novellato dall’art.57 L.R. 1993 n.10, la quale prevede che quando, fra la data fissata come termine di ricezione delle offerte, o quella in cui è pervenuta l’offerta, nel caso di trattativa privata senza gara, e la data di consegna anche parziale dei lavori, intercorre più di un anno, trova applicazione il sistema del prezzo chiuso, anche se inizialmente non stabilito, per cui l’applicazione dell’incremento del prezzo chiuso è conseguenza automatica del decorso di un termine superiore ad un anno tra la data di scadenza del termine di ricezione delle offerte e quella di consegna dei lavori, indipendentemente dalla proposizione di alcuna riserva; ne consegue che ogni qual volta si verifica il presupposto previsto dalla legge per l’applicazione del prezzo chiuso, tale istituto trova applicazione automaticamente).
 
3)      Con sentenza n. 1092 del 22 giugno 2007 si è deciso che la giurisdizione del Giudice amministrativo nelle controversie di revisione prezzi sussiste in forza dell’art. 244 del d.lgs 163/2006, che non limita più l’applicabilità della norma alle sole amministrazioni pubbliche di cui all’art.1, comma 2, del d.lgs 29/1993; infatti il principio stabilito dall’art. 5 cod. proc. civ., secondo cui la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente ed allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, senza che abbiano effetto i successivi mutamenti, essendo diretto a favorire, e non ad impedire, il verificarsi della "perpetuatio iurisdictionis", trova applicazione solo nel caso di sopravvenuta carenza di giurisdizione del giudice originariamente adito, ma non anche nel caso in cui il mutamento dello stato di diritto o di fatto comporti, invece, l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo al momento della proposizione della domanda.
 
4)      Con sentenza n. 1853 del 14 novembre 2007 si è deciso che non rientra nella competenza del Giudice amministrativo, bensì in quella del Giudice ordinario, la controversia promossa da una società cooperativa edilizia per contestare la pretesa del Comune a rimborsare le differenze economiche corrisposte da quest’ultimo ai proprietari delle aree per la espropriazione e la conseguente cessione in proprietà alla cooperativa stessa.
 
5)      Con sentenza n. 1973 del 4 dicembre 2007 si è deciso che a seguito della dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 33 del d.lgv. 31.3.1998 n. 80, come sostituito dall’art. 7 L. 21.7.2000 n. 205, con la sentenza n. 204 del 2004 della Corte Cost., l’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici servizi non si estende più a tutte le controversie, ma a classi di controversie; infatti sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi; conseguentemente rientra nella giurisdizione del Giudice ordinario la controversia relativa al pagamento di canoni di depurazione acque e fognature per un pubblico servizio svolto mediante un rapporto concessorio intercorrente tra Comune ed Ente Acquedotti Siciliani, relativo alla gestione da parte di quest’ultimo dell’acquedotto comunale.
 
6)      Con sentenza n. 245 del 9 febbraio 2007 si è deciso che è attribuita alla giurisdizione del giudice ordinario alla luce dei principi affermati dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 la controversia incentrata unicamente sulla condotta dell’ente pubblico, di cui si contesta la liceità, in quanto il danno al patrimonio si assume come conseguenza del comportamento omissivo e colposamente inerte del convenuto, che non ha provveduto al risanamento statico di opere pubbliche (in linea con Cassazione, S.U., 20 ottobre 2006, n. 22521).
 
7)      Con sentenza n. 1539 del 29 settembre 2007 si è deciso che le doglianze circa la legittimità del decreto di confisca emesso dal Giudice penale non possono essere fatte valere innanzi al Giudice amministrativo ma, al più, al ricorrere dei presupposti, innanzi al Giudice penale stesso; deve, pertanto, essere rivolta al Giudice penale qualunque doglianza relativa alla mancata partecipazione al procedimento che ha portato all’emissione del provvedimento di confisca o alla insussistenza dei presupposti per l’emissione del predetto provvedimento.
Innanzi al Giudice amministrativo possono trovare ingresso solo censure afferenti alla legittimità del provvedimento amministrativo di carattere autoritativo e comunque non riguardanti la titolarità del diritto reale sui beni confiscati, mentre nel caso in cui la P.A. emetta ordinanza di rilascio di un immobile, sul presupposto della sua appartenenza al demanio ed il privato occupante insorga avverso tale ordinanza, al fine di sentir negare la demanialità del bene ed accertare il proprio pieno e libero diritto di proprietà, la relativa controversia spetta alla cognizione del giudice ordinario, in quanto non investe vizi dell’atto amministrativo, ma si esaurisce nell’indagine sulla titolarità della proprietà e, quindi, è rivolta alla tutela di posizioni di diritto soggettivo.
 
 
In materia di organi delle P.A. e conflitti interorganici:
 
1)      Con sentenza n. 671 del 19 aprile 2007 si è deciso che la regola secondo la quale i conflitti interorganici devono trovare soluzione all’interno dell’Ente, con conseguente difetto di legittimazione a ricorrere avverso provvedimenti di altri organi dello stesso Ente, trova un’eccezione tutte le volte in cui l’organo ricorrente impugni un atto ritenuto lesivo delle proprie competenze, in quanto, ad esempio, invasivo ovvero limitativo delle proprie attribuzioni (nel caso di specie con l’approvazione dell’emendamento che riduce i fondi di bilancio destinati al pagamento delle indennità di funzione viene violata la competenza della Giunta a determinare l’ammontare delle proprie indennità ed è compromesso anche il regolare funzionamento dell’organo stesso); l’impugnativa di deliberazioni e atti degli organi del Comune è, dunque, da ritenere ammessa laddove siano state incise le funzioni e le prerogative della Giunta e del connesso "munus", nonché il corretto funzionamento dell’organo (nella fattispecie si è ritenuto che l’approvazione dell’emendamento al bilancio, con cui il Consiglio ha decurtato di un terzo la somma necessaria a coprire la spesa per le indennità di funzione degli amministratori e dei gettoni di presenza dei consiglieri, determina la violazione degli artt. 151, 163 e 183 del D.Lgs. n. 267 del 2000, riducendo stanziamenti di spesa in relazione ad impegni già assunti, nonché dell’art. 19 della L.r. n. 30 del 23 dicembre 2000 e del relativo regolamento esecutivo, che fissano la misura minima delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza degli amministratori locali in Sicilia e che attribuiscono la competenza alla determinazione delle misure delle suddette indennità agli organi collegiali cui appartengono gli aventi diritto).
 
2)      Con sentenza n. 1183 del 9 luglio 2007 si è deciso che i consiglieri comunali non hanno un interesse protetto e differenziato all’impugnazione delle deliberazioni del Collegio di cui fanno parte al fine di sindacarne in sede giurisdizionale la legittimità, in quanto possono avere legittimazione ad impugnare gli atti del Consiglio soltanto nel casi in vengano lese le proprie prerogative afferenti al munus.
 
 
In materia di nullità dei provvedimenti amministrativi, con sentenza n. 1045 del 19 giugno 2007 si è deciso che l’art. 21 septies l. 241 del 1990 (come introdotto dalla legge 15/2005) definisce nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge. La novella del 2005 attribuisce le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per cui ai fini dell’ammissibilità del giudizio di ottemperanza, gli atti successivamente emanati dall’Amministrazione possono considerarsi emessi in violazione del giudicato solo allorché da questo derivi un obbligo talmente puntuale che la sua esecuzione debba concretarsi nell’adozione di un atto il cui contenuto sia integralmente desumibile dalla sentenza, mentre di fronte al giudicato che imponga un semplice vincolo alla successiva attività discrezionale dell’Amministrazione gli atti eventualmente da questa emanati sono soggetti all’ordinario regime di impugnazione, anche quando si discostino dai criteri indicati nella sentenza. Ciò in quanto in tale evenienza è configurabile solo un vizio di legittimità, a meno che l’esplicazione della residua potestà discrezionale si svolga senza alcuna considerazione delle statuizioni contenute nella sentenza, sì da risultare, in modo concludente, predeterminata ad eluderla.
Per ravvisare il vizio di violazione o elusione del giudicato – che comporta la nullità dei provvedimenti che ne sono affetti ed è deducibile in sede di ottemperanza, – non è sufficiente che la nuova azione amministrativa posta in essere dall’Amministrazione dopo la formazione del giudicato alteri l’assetto degli interessi definito dalla pronunzia passata in giudicato, ma è necessario che l’Amministrazione eserciti nuovamente la medesima potestà pubblica, già illegittimamente esercitata, in contrasto con il puntuale contenuto precettivo del giudicato amministrativo oppure tenti di realizzare il medesimo risultato con un’azione connotata da un manifesto sviamento di potere, mediante l’esercizio di una potestà pubblica formalmente diversa in palese carenza dei presupposti che lo giustificano.
 
 
In materia di Silenzio delle P.A., con sentenza n. 169 del 30 gennaio 2007 si è affermato che con le modifiche apportate dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15, è stato previsto che, decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3 dell’art. 2 legge n. 241 del 1990, il ricorso avverso il silenzio può essere proposto anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente, e che il d.l. 14 marzo 2005 n. 35 (successivamente convertito con modificazione dalla legge 14 maggio 2005 n. 80) ha ribadito che, salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3 dell’art. 2 legge cit., il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell’articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini regolamentari o di legge stabiliti per la conclusione del procedimento, ed è stato previsto, inoltre, che il giudice amministrativo, in tal caso, può conoscere della fondatezza dell’istanza. Purtuttavia va escluso che il Giudice amministrativo possa sostituirsi all’amministrazione adottando il provvedimento richiesto dal ricorrente in ragione del principio di separazione dei poteri; per cui qualora l’amministrazione debba compiere valutazioni di carattere discrezionale oppure nelle ipotesi in cui sia necessario effettuare accertamenti complessi durante l’iter procedimentale, il giudice amministrativo non può valutare la fondatezza dell’istanza o ordinare all’amministrazione l’emanazione di un certo provvedimento.
 
 
In materia di diritto di Accesso ad atti delle P.A., vanno menzionate le seguenti pronunzie:
1)      Con sentenza n. 62 del 15 gennaio 2007 si è affermato che l’art. 26 comma 4 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, nel disporre che il concessionario di esattoria deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento ed ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’Amministrazione, introduce due obblighi per la Società concessionaria: la conservazione per cinque anni; l’obbligo di esibizione a richiesta del contribuente. Conseguentemente, dal momento che la cartella esattoriale costituisce presupposto della iscrizione di ipoteca immobiliare, la richiesta di accesso, ai sensi degli artt. 22 e seguenti della legge n. 241 del 1990, alla cartella è strumentale alla tutela dei diritti del contribuente in tutte le forme consentite dall’ordinamento giuridico ritenute più rispondenti ed opportune. La cartella esattoriale, quindi, deve essere rilasciata, in copia, dalla società concessionaria al contribuente che abbia proposto, o voglia proporre ricorso avverso atti esecutivi iniziati nei suoi confronti.
 
2)      Con sentenza n. 604 del 5 aprile 2007 si è ritenuto che, in applicazione del punto n. 2 dell’Allegato 2 al d.m. 519 del 1995, nella parte in cui esclude l’accesso relativamente ai trasferimenti disposti a tutela della pubblica amministrazione e/o degli interessati connessi a vicende al vaglio dell’Autorità Giudiziaria, a collusioni con ambienti controindicati o malavitosi, a motivi di incolumità personale, sino a quando continuano a sussistere le situazioni per le quali sono stati adottati i relativi provvedimenti e comunque ad avvenuta definizione della posizione giudiziaria, va esclusa la possibilità di accedere ad atti relativi ad una proposta di trasferimento quando sono in corso indagini di polizia giudiziaria, dal momento che, al di là del fatto che l’atto richiesto sia da considerare “segreto” o “riservato”, comunque il medesimo ricade nell’ambito di quelli esclusi dall’accesso dall’art. 24 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e la riservatezza è evincibile dal fatto che l’atto è connesso con indagini di polizia in corso, per cui correttamente l’Amministrazione si rifiuta di consentire l’accesso.
 
3)      Con sentenza n. 1110 del 26 giugno 2007 si è deciso che a prescindere dalla qualificazione del diritto di accesso come situazione di diritto soggettivo o di interesse legittimo, in base all’art. 25 l. n. 241 del 1990 la mancata impugnazione del diniego nel termine non consente la reiterabilità dell’istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego, se meramente confermativo del primo. Solo in presenza di fatti nuovi, sopravvenuti o meno, è possibile la reiterazione dell’istanza e quindi l’impugnazione di un eventuale successivo diniego.
 
 
In materia di Attività della P.A., con sentenza n. 122 del 23 gennaio 2007 si è rilevato che l’art. 13 del DPR n. 276 del 2001 dispone che i Comuni, in conformità a quanto disposto dall’articolo 46 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, effettuano l’aggiornamento e la revisione delle anagrafi della popolazione residente sulla base delle notizie, raccolte con apposito modello in occasione del censimento generale della popolazione, riguardanti il cognome, il nome, il sesso, il luogo e la data di nascita, e il comune di residenza dei soggetti censiti; e si è ritenuto che sussiste l’obbligo dei Comuni di attivarsi al fine di effettuare l’aggiornamento e la revisione delle anagrafi della popolazione residente sulla base delle notizie, raccolte con apposito modello in occasione del censimento generale della popolazione, riguardanti il cognome, il nome, il sesso, il luogo e la data di nascita, e il comune di residenza dei soggetti censiti. Pertanto, in caso di mancato adempimento dell’obbligo predetto il Ministero dell’interno e l’ISTAT devono attivare nei confronti dei Comuni inadempienti le procedure necessarie.
 
 
In materia di Responsabilità della P.A. meritano di essere ricordate le seguenti pronunzie:
 
1)      Con sentenza n. 245 del 9 febbraio 2007 si è deciso che non trova tutela nell’ordinamento giuridico la pretesa azionata per chiedere il risarcimento dei danni asseritamene subiti per effetto della costruzione di un porto, dell’imbrigliamento di vari torrenti e della legittima apposizione di barriere frangiflutti in altra parte della costa, in quanto la realizzazione di dette opere, avvenuta nell’esercizio del potere amministrativo relativo all’uso e alla protezione del territorio, costituisce legittimo estrinsecarsi del potere amministrativo e l’interesse pubblico alla protezione e alla sistemazione di ampie parti della costa non può che considerarsi prevalente sugli interessi privati.
 
2)      Con sentenza n. 503 del 23 marzo 2007 si è deciso che per risarcire il lucro cessante — vale a dire l’utile economico che sarebbe derivato dall’esecuzione dell’appalto in caso di aggiudicazione non avvenuta per illegittimità dell’azione amministrativa (generalmente reputato pari al 10% dei 4/5 del valore dell’appalto, criterio cui fa riferimento la giurisprudenza in applicazione analogica dell’art. 345 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato F, sulle opere pubbliche, sostanzialmente riprodotto dall’art. 122 del regolamento emanato con D.P.R. n. 554/99 e, da ultimo, previsto dall’art. 134 d. legislativo 163/2006, che quantifica in tale misura il danno risarcibile a favore dell’appaltatore in caso di recesso della P.A., ciò sia allo scopo di ovviare ad indagini alquanto difficoltose ed aleatorie sia allo scopo di cautelare la P.A. da eventuali richieste di liquidazioni eccessive) — va riconosciuta la spettanza nella sua interezza dell’utile di impresa nella misura di cui sopra qualora l’impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare altrimenti le maestranze ed i mezzi lasciati disponibili per l’espletamento dell’appalto.
 
3)      Con sentenza n. 846 del 17 maggio 2007 si è deciso che la condanna al risarcimento dei danni richiede l’accertamento dei presupposti per verificare la fondatezza della relativa pretesa (lesione della situazione giuridica soggettiva, colpa o dolo, danno patrimoniale e nesso causale tra l’illecito ed il pregiudizio), secondo i principi che peraltro preesistevano al trasferimento nell’orbita della giurisdizione del giudice amministrativo. Infatti il risarcimento del danno innanzi al giudice amministrativo, laddove tale danno discenda da un’attività provvedimentale, non può prescindere dall’accertamento della colpa dell’amministrazione responsabile, da accertarsi mediante una penetrante indagine riferita non già all’elemento soggettivo del singolo funzionario agente, bensì alla p.a. intesa come apparato; purtuttavia la colpa dell’amministrazione deve essere valutata tenendo conto dei vizi che inficiano il provvedimento e, in linea con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, della gravità delle violazioni imputabili all’amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all’organo, dei precedenti di giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell’apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento.
 
 
In materia di appalti di servizi sono stati espressi i seguenti orientamenti:
 
1)      Con sentenza n. 29 del 9 gennaio 2007 si è deciso che va escluso che possa configurarsi un autonomo procedimento nell’ipotesi di annullamento, in via di autotutela decisoria, del precedente verbale (della commissione di gara) recante l’ammissione dei concorrenti (autonomo procedimento cui ricollegare l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento), unitario essendo il procedimento per la scelta del contraente privato da parte della Pubblica amministrazione procedimento che, sebbene articolato in varie fasi, si conclude soltanto con l’aggiudicazione definitiva, con la conseguenza che non è configurabile l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento (ai concorrenti) nel caso di riesame delle precedenti determinazioni assunte dalla commissione di gara circa l’ammissione alla gara di alcuni concorrenti, sempreché non sia già intervenuto il provvedimento di aggiudicazione definitiva (non dovendo tuttavia confondersi la comunicazione di avvio del procedimento, non necessaria, con l’obbligo di comunicare la data di nuova riunione della commissione, indispensabile ai fini del rispetto dei principi di pubblicità e trasparenza che pure devono presiedere allo svolgimento delle pubbliche gare).
Il principio di continuità e concentrazione della gara, che pure costituisce esplicazione dei più generali principi di buon andamento, imparzialità, trasparenza e correttezza dell’operato dell’amministrazione e che è finalizzato a garantire che le operazioni di gara si svolgano in modo imparziale, nel rispetto della par condicio dei concorrenti, può in concreto subire eccezioni in quelle particolari situazioni che obiettivamente impediscono la conclusione delle operazioni di gara in una sola seduta: tra esse può annoverarsi anche quella che legittima la rinnovazione del procedimento, tanto più quando tale rinnovazione è finalizzata all’eliminazione, in via di autotutela, di vizi di legittimità del precedente operato.
 
2)      Con sentenza n. 209 del 6 febbraio 2007 si è deciso che la ratio dell’art. 10, comma 1 bis, della legge n. 109 del 1994 è quella di tutelare il libero confronto tra le offerte fondato sulla circostanza che le imprese partecipanti si trovino in posizione di reciproca ed effettiva concorrenza. Pertanto altri fatti o situazioni, rispetto a quelli espressamente considerati nella norma predetta, sono capaci di alterare la segretezza, la serietà e l’indipendenza delle offerte e qualora dovessero verificarsi circostanze di tal genere, l’amministrazione appaltante deve procedere all’esclusione delle offerte formulate da imprese in posizione di collegamento formale perché sarebbero comunque violati i principi posti a tutela della libera concorrenza, della segretezza delle offerte e della par condicio dei concorrenti; tale conclusione è avvalorata dal fatto che l’art. 34, comma 2, del codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (approvato con il D. legislativo n. 163 del 2006) preveda espressamente detta causa di esclusione.
Ricorrono i presupposti fattuali del collegamento operativo nella fase di predisposizione della offerta, tale da concretare una oggettiva attenuazione della garanzia di segretezza e da rendere plausibile una reciproca conoscenza o un condizionamento delle rispettive offerte, allorché sono ravvisabili elementi che dimostrano una collaborazione tra imprese nella preparazione dei documenti di gara, sia per le contiguità operative che per le convergenze documentali, le une e le altre non spiegabili con la casualità ma con una attività comune.
 
3)      Con sentenza n. 1092 del 22 giugno 2007 si è ritenuto che va distinto l’appalto di servizi dalla concessione di servizio pubblico sulla base dei seguenti criteri: a) la natura unilaterale del titolo concessorio di affidamento del servizio pubblico, contrapposta al carattere negoziale dell’appalto; b) l’effetto accrescitivo della concessione, che attribuisce al privato concessionario una capacità estranea alla sua originaria sfera giuridica; c) il trasferimento di potestà pubbliche (autoritative o certificative) in capo al concessionario che opererebbe quale organo indiretto dell’amministrazione, mentre l’appaltatore eserciterebbe solo prerogative proprie di qualsiasi soggetto economico. Accanto ai sopra menzionati tradizionali criteri distintivi, in relazione all’importanza assunta a livello comunitario della distinzione tra appalto di servizio e concessione di servizio, ai fini della applicazione delle direttive comunitarie, si sono aggiunti altri criteri enunciati, tra l’altro, dalle stesse direttive comunitarie, dalla Commissione europea (comunicazione interpretativa CE del 29 aprile 2000) e dal Governo Italiano con la circolare dell’1 marzo 2002 della Presidenza del consiglio dei Ministri – Dipartimento delle politiche comunitarie, fatti propri dalla giurisprudenza amministrativa e ribaditi dalla Corte di Giustizia U.E.
 
4)      Con sentenza n. 1155 del 2 luglio 2007 si è deciso che non è possibile postulare l’esistenza di una aspettativa di rinnovo del contratto scaduto in favore del soggetto che ha svolto per un certo periodo un servizio pubblico, contrastando tale pretesa con i principi generali dell’ordinamento comunitario, ormai recepiti nell’ordinamento nazionale dall’art.57, comma 7, del Decreto legislativo 12 aprile 2006 n. 163 (Codice dei contratti pubblici).
 
5)      Con sentenza n. 1567 del 4 Ottobre 2007 si è deciso che i requisiti di partecipazione ad una gara sono diversi dai criteri di valutazione dell’offerta, anche perché questi entrano in gioco solo dopo che l’offerta ha superato positivamente il vaglio di ammissibilità, per cui cui la normativa nazionale e comunitaria riconosce una netta distinzione tra criteri soggettivi di pre­qualificazione e quelli oggettivi afferenti alla aggiudicazione; netta e inderogabile distinzione che oltre a trovare un preciso ed espresso riferimento nella normativa nazionale ha una sua sostanziale ed evidente logica: quella di separare i requisiti soggettivi di idoneità e partecipazione alla gara da quelli soggettivi attinenti alla offerta e alla aggiudicazione. La commistione dei due elementi, pertanto, incide negativamente anche sul principio di imparzialità, par condicio e segretezza dell’offerta.
 
 
In materia di Pubblico impiego non privatizzato, con sentenza n. 679 del 19 aprile 2007 si è deciso che in base all’art. 1, comma 18, della L. n.230 del 2005 i limiti per la cessazione dal servizio sia dei professori ordinari che degli associati sono da ritenersi riferiti al termine dell’anno accademico del compimento del 70° anno di età; ed il biennio di prosecuzione del rapporto di lavoro ex art. 16 D.Lgs. n. 503 del 1993 si aggiunge al citato limite di 70 anni, con la conseguente facoltàdi prosecuzione del servizio fino a 72 anni. Conseguentemente nel corso del suddetto biennio (70-72 anni) è conservata la titolarità "piena" delle funzioni assistenziali e primariati dei medici universitari.
 
 
In materia di Beni pubblici occorre ricordare le seguenti pronunzie:
 
1)      Con sentenza n. 845 del 17 maggio 2007 si è deciso che il nulla-osta urbanistico costituisce parere obbligatorio e vincolante ai fini del rilascio della concessione demaniale, così come l’autorizzazione edilizia costituisce titolo necessario per la realizzazione delle relative opere, in applicazione dell’articolo 31 della legge n. 1150 del 1942, le cui disposizioni sono oggi contenute nel T.U dell’edilizia e precisamente agli articoli 8, 12 e 15 del D.P.R. 380 del 2001 (vigenti in Sicilia con riguardo alle materie non oggetto di specifica legislazione regionale).
Le aree demaniali marittime rientrano nell’ambito della pianificazione dei Piani Regolatori Generali con conseguente apposizione di destinazione di zona alla cui compatibilità dovranno essere sottoposte eventuali richieste di concessioni demaniali; infatti, lo strumento urbanistico deve disciplinare tutto il territorio comunale ivi comprese le aree del demanio marittimo; ne discende che su tali aree possono incidere ambedue le competenze della Amministrazione comunale e di quella preposta al demanio marittimo e non è pertanto né illogico né incongruo, né che la zonizzazione si estenda sino al mare e neppure che le norme urbanistiche relative vi si applichino, anche in concorso con quella della autorità marittima.
Qualunque intervento sul demanio marittimo è soggetto a provvedimenti edilizi abilitativi dei Comuni competenti per territorio, come espressamente precisato all’articolo 1, comma 4 della legge regionale n. 15 del 2005 in materia di rilascio delle concessioni demaniali marittime.
Una specifica motivazione è necessaria ai fini della adozione del provvedimento di concessione del terreno demaniale, che, distogliendolo dalla destinazione ad uso pubblico, deve indicare le ragioni che inducono a ritenere la destinazione ad un uso diverso da quello istituzionale, compatibile e non pregiudizievole per l’interesse generale.
 
2)      Con sentenza n. 1539 del 29 settembre 2007 si è deciso che l’atto di autotutela ex art. 823 c.c. con riguardo ai beni pubblici (diffida allo sgombero) – da tenere distinto dal provvedimento in autotutela quale manifestazione del c.d. potere di secondo grado dell’Amministrazione – non necessita dell’avviso di avvio del procedimento anche in considerazione il fatto che, a seguito dell’ordinario svolgimento del procedimento di prevenzione, il bene appartiene definitivamente allo Stato e qualunque affermazione circa la titolarità dell’immobile in questione non avrebbe potuto trovare ingresso in sede amministrativa (in tale ipotesi, infatti, non può ravvisarsi alcuno spazio utile per un’eventuale cooperazione da parte del privato all’adozione dell’atto in questione) e, dunque, nessuna utilità avrebbe potuto avere l’avviso ex art. 7 legge 241/1990.
Con riguardo ad un immobile di proprietà dello Stato è legittimo il provvedimento che ne ordina lo sgombero, seppure con ritardo, in quanto ragionando diversamente la lentezza dell’amministrazione dovrebbe paradossalmente considerarsi causa di ineseguibilità della confisca di prevenzione.
L’istanza di revoca – attesa anche la possibilità di assimilarla al procedimento di revisione – non incide sulla definitività della confisca dell’immobile, già decretata dall’autorità giudiziaria ordinaria, e, quindi, sulla legittimità del consequenziale provvedimento di sfratto in via amministrativa in quanto l’amministrazione al contrario dovrebbe giustificare la ragione per cui, innanzi ad un provvedimento definitivo di confisca, non dispone l’immediata apprensione del bene orli di proprietà dello Stato.
 
 
In materia di edilizia residenziale pubblica, con sentenza n. 1080 del 22 giugno 2007 si è deciso che va escluso che possano applicarsi ai programmi costruttivi adottati ai sensi dell’art. 25 della L.R. n. 22/96 e dell’art. 4 della L.R. n. 86/81 le procedure di pubblicazione e deposito previste dall’art. 3 della L. n. 71/78 per il progetto di P.R.G. e per quello di Piano Particolareggiato, in quanto l’art. 51 della L. n. 865/1971 richiamato, a proposito della procedura da seguire per i programmi costruttivi, dall’art. 16 della stessa L.R. n. 71/78 "demanda ai consigli comunali l’approvazione dei programmi costruttivi e la localizzazione delle aree su cui realizzarli, non prevedendo nessun periodo di tempo per la pubblicazione o il deposito degli stessi programmi".
Il Comune in ordine alla localizzazione dei programmi costruttivi aree gode di un potere discrezionale che, però, non esime l’Ente dal compiere tali scelte secondo criteri di ragionevolezza ed esternando le ragioni delle proprie determinazioni, sicché deve ritenersi illegittima la deliberazione di localizzazione che non contenga una specifica motivazione del perché si scelgano determinate aree e non altre.
Il limite massimo del 70%, previsto dall’art. 3 della L. n. 167/1962 di estensione delle zone da includere nei piani di edilizia economica e popolare, si applica anche al dimensionamento dei programmi costruttivi in questione e tale dimensionamento, secondo quanto disposto dalla giurisprudenza, incontra il duplice limite della proporzione fra fabbisogno complessivo calcolato e quota di alloggi riservata all’intervento pubblico e quello relativo alla proporzione tra alloggi progettati e superficie a tal fine vincolata.
 
 
4a SEZIONE
 
In materia di appalti di lavori pubblici sono stati formulati i seguenti orientamenti:
1)      Con sentenza n. 48 dell’11 gennaio 2007, è stato affermato che, dalla normativa vigente in materia di ammissione del concorrente agli appalti di opere pubbliche (artt. 15, comma 5, e 15 bis, commi 1, 5 e 6 del D.P.R. 25 gennaio 2000, n. 34 –nel testo introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. b, n. 2 del D.P.R. 10 marzo 2004, n. 93), si desume che : a) la durata di efficacia dell’attestazione S.O.A. è complessivamente di cinque anni purchè, prima dello scadere del triennio, l’impresa si sottoponga a verifica e questa dia esito positivo; b) gli effetti della verifica triennale, ove compiuta prima della scadenza del triennio, decorrono dalla data di scadenza del triennio medesimo, nel caso di esito positivo, e dalla data di ricezione della relativa comunicazione, da parte dell’impresa interessata, in caso di esito negativo; c)l’impresa ha l’onere di sottoporsi a verifica nell’imminenza della scadenza del triennio (almeno sessanta giorni prima di questa), dal momento che, ove la verifica sia compiuta dopo il triennio e dia esito positivo, i suoi effetti decorreranno non dalla scadenza del periodo triennale, bensì dalla ricezione della relativa comunicazione da parte dell’impresa stessa.    
2)      Con sentenza n. 221 dell’8 febbraio 2007, è stato affermato:
a) In tema di riunioni temporanee di imprese, l’art. 95, comma 6, del D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, dispone che “al mandatario spetta la rappresentanza esclusiva, anche processuale, delle imprese mandanti nei confronti della stazione appaltante per tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall’appalto…”; alla stregua di tale norma, deve pertanto ritenersi che la comunicazione del provvedimento finale (nella specie, si trattava dell’annullamento dell’aggiudicazione), effettuata nei confronti dell’impresa capogruppo e mandataria, faccia decorrere il termine per l’impugnazione anche nei confronti delle imprese mandanti.
b) L’art. 35 della legge 11 febbraio 1994, n. 109 consente le modifiche soggettive dopo la stipula del contratto d’appalto, ma non nella fase antecedente della partecipazione alla gara e dell’aggiudicazione, dal momento che, secondo la vigente normativa, per poter partecipare alla gara per l’affidamento di appalti o di concessioni di lavori pubblici, e stipulare i relativi contratti, le imprese devono essere adeguatamente qualificate e moralmente affidabili; è pertanto legittimo il provvedimento di annullamento, in via di autotutela, dell’aggiudicazione di una gara d’appalto, disposto per il fatto che tra le imprese costituenti l’ATI, che aveva partecipato alla gara d’appalto e che era rimasta aggiudicataria, una delle imprese mandanti aveva ceduto un suo ramo d’azienda in una fase precedente all’offerta.
3) Con sentenza n. 423 del 9 marzo 2007, è stata ritenuta illegittima l’esclusione da una gara d’appalto disposta perché l’impresa aveva inserito la documentazione, richiesta dal bando a pena di esclusione, all’interno del plico (che, a sua volta, conteneva anche, in busta chiusa e sigillata, l’offerta), ma non anche all’interno di un’ulteriore busta; la mancata collocazione all’interno di un’ulteriore busta della documentazione prodotta, infatti, non viola la ratio che ispira la normativa posta a base delle modalità di presentazione delle offerte, che ha il fine di tutelare la segretezza di queste ultime.
4) Con sentenza n. 1993 del 20 dicembre 2007, la Sezione, dopo aver ribadito che la gara d’appalto, ai sensi dell’art. 21 della legge n. 109/94, nel testo coordinato e modificato dalle leggi regionali n. 7/2002 e successive, va aggiudicata “all’offerta che più si avvicina –per difetto- alla media aritmetica delle offerte”, ha affermato che, a tal fine, vanno considerate anche le offerte presentate dalle imprese ricadenti nel c.d. “taglio delle ali”, atteso che quest’ultimo comporta l’esclusione fittizia e non reale delle offerte estreme (un tale principio appare sostanzialmente recepito dalla L.R. n. 20/2007).
 
In materia di partecipazione a concorsi pubblici, con sentenza n. 886 del 25 maggio 2007, è stato affermato che, ai fini dell’ammissione ai pubblici concorsi, l’equivalenza dei titoli di studio può essere riconosciuta solo da norme di legge, peraltro di carattere eccezionale e non suscettibili di interpretazione analogica (nel caso di specie, la Sezione ha escluso l’equipollenza tra il diploma di tecnico in colpocitologia, che si consegue al termine di un corso di durata biennale, e quello di tecnico di laboratorio medico, quale minilaurea avente durata triennale).
 
In materia di pubblica istruzione, con sentenza n. 797 del 10 maggio 2007, è stato sottolineato che, nel d.m. 4 agosto 2000, contenente le “determinazioni delle classi delle lauree universitarie”, all’allegato 11, il Ministero dell’università e della ricerca ha previsto, per la classe delle lauree in lingue e cultura moderne, tra le materie che possono essere oggetto dell’offerta formativa, l’archeologia e storia dell’arte musulmana (L-OR-11), dimostrazione questa della rilevanza dei predetti insegnamenti nella formazione culturale dei futuri docenti di lingue straniere, per cui i corsi di perfezionamento in “studi islamici” ed in “islamistica” sono “coerenti” sia con l’insegnamento delle lingue straniere che con l’insegnamento nelle scuole materne ed elementari, donde la necessità della loro valutazione, conformemente alle prescrizioni della tabella di valutazione dei titoli.
 
In materia di accesso agli atti della P.A. possono ricordarsi i seguenti orientamenti:
1)      Con sentenza n. 437 del 9 marzo 2007, è stato affermato che l’art. 22 della legge n. 241 del 1990, come sostituito dall’art. 15 della legge n. 15 del 2005, garantisce l’accesso ai documenti relativi ad un rapporto di pubblico impiego privatizzato, anche se le eventuali controversie attinenti al detto rapporto sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario (nella fattispecie Poste Italiane).
2)      Con sentenza n. 1525 del 29 settembre 2007, la Sezione ha chiarito, con riferimento ai rapporti tra accesso ai documenti e riservatezza, che la nuova disciplina, contenuta nell’art. 24 della legge n. 241/1990, come sostituito dall’art. 16 della legge n. 15/2005, appresta al primo una tutela più ampia che in passato, sotto due distinti profili. Anzitutto, l’individuazione dei casi in cui l’accesso può essere escluso per ragioni, tra l’altro, di riservatezza, può aver luogo solo con il regolamento governativo, mentre alle singole Amministrazioni viene sottratta ogni potestà d’intervento in materia. In secondo luogo, mentre nell’originaria versione dell’art. 24, l’accesso a documenti riservati era limitato alla sola “visione” degli atti amministrativi necessari alla cura dei propri interessi, nell’attuale versione dell’art. 24 tale previsione è stata sostituita dal nuovo comma 7, ai sensi del quale “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare e difendere i propri interessi giuridici”. E, a dimostrazione del fatto che non vi è una sfera considerata di assoluta riservatezza, lo stesso comma 7 aggiunge che l’accesso, sebbene solo “nei limiti in cui sia strettamente indispensabile”, è consentito anche “nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari”, e finanche “in caso di dati idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale”.
3)      Con sentenza n. 1877 del 17 novembre 2007, è stato affermato quanto segue: in virtù di quanto disposto dall’art. 9, comma 3, del D. L.vo 30 giugno 2003, n. 196 (codice in materia di protezione dei dati personali), il diritto di accesso ai dati personali di persone decedute può essere esercitato da coloro i quali hanno un interesse proprio, ovverosia agiscono a tutela dell’interessato, o per ragioni familiari meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento; ne deriva che, in presenza di tali presupposti, il diritto di accesso agli atti della cartella clinica di un parente defunto può essere esercitato anche soltanto da alcuni dei coeredi, non essendo necessario acquisire il preventivo ed unanime consenso dei coeredi.
 
In materia di sanità vanno menzionate le seguenti pronunzie:
1)      Con sentenza n. 583 del 29 marzo 2007, è stato affermato che, in applicazione del D.P.R.S. 25 ottobre 1999, la residenza sanitaria assistenziale (Rsa) (struttura extraospedaliera per anziani prevalentemente non autosufficienti e disabili non assistibili a domicilio) è quella dove si realizza l’integrazione tra interventi sociali e sanitari ed è inserita nella rete dei servizi territoriali, per cui non va qualificata struttura di ricovero e cura; conseguentemente, atteso che l’art. 2 del D.A. n. 463 del 2003, alla lettera c) del comma 1, circoscrive la competenza dell’Assessorato regionale “al rilascio delle autorizzazioni relative alle strutture ospedaliere pubbliche e private” e non essendo le Rsa strutture ospedaliere (ma territoriali), la competenza per le autorizzazioni non spetta all’Assessorato regionale, ma al Direttore generale delle Aziende UU.SS.LL.
2)      Con sentenza n. 1416 del 14 settembre 2007, è stato affermato che i Comuni, per il ricovero degli anziani non autosufficienti in strutture assistenziali, possono chiedere alle AA.UU.SS.LL. l’integrazione della retta pagata, e tale integrazione –gravante sul Fondo sanitario regionale entro un limite annuo di 500 milioni di lire- è pari alla c.d. “quota sanitaria” dell’intero importo versato in forza della disciplina contenuta nella L.R. 9 maggio 1986, n. 22; ne consegue che la normativa richiamata dev’essere interpretata nel senso che la spesa per il ricovero di anziani non autosufficienti va sostenuta, in linea di principio, dai Comuni, salva la quota che potrà essere rimborsata dal Fondo sanitario, entro l’onere complessivo di 500 milioni di lire, previo espletamento dei necessari procedimenti atti a distribuire tale somma complessiva, prima fra le varie Aziende sanitarie della Sicilia e poi, all’interno di queste, tra i vari Comuni che ne facciano richiesta.
 
In materia di elezioni va ricordata la sentenza n. 1694 del 18 ottobre 2007, con la quale è stato affermato che nei Comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti, l’art. 2, commi 2 e 4, della legge regionale siciliana n. 35/1997 dispone che ciascuna candidatura a Sindaco deve essere collegata ad una lista di candidati al Consiglio comunale; e che viene proclamato Sindaco il candidato che ottiene il maggior numero di voti. Mentre, ai sensi dei successivi commi 1 e 5, “l’elezione dei Consiglieri comunali si effettua con sistema maggioritario contestualmente alla elezione del sindaco”, con le seguenti modalità: -alla lista collegata al Sindaco eletto è attribuito il 60% dei seggi assegnati al Comune; all’altra lista che ha riportato il maggior numero di voti viene attribuito il 40% dei seggi; qualora altra lista non collegata al Sindaco eletto abbia ottenuto il 50% più uno dei voti validi, alla stessa è attribuita il 60% dei seggi; in tal caso, alla lista collegata al Sindaco è attribuito il 40% dei seggi; qualora più liste non collegate al Sindaco ottengano lo stesso più alto numero di voti, si procede alla ripartizione dei seggi tra le medesime per parti uguali; l’eventuale seggio dispari è attribuito per sorteggio; ciò comporta che nel caso in cui si presentino due sole liste, con due candidati alla carica di Sindaco, il 60% dei Consiglieri comunali va attribuito alla lista collegata al candidato a Sindaco il quale ha ottenuto il maggior numero di voti ed è stato, quindi, eletto; all’altra lista spetta il 40% dei seggi disponibili, nonostante l’eventuale maggiore numero di suffragi ottenuti, a causa del suo collegamento con il candidato a Sindaco non eletto; il riferimento legislativo alla metà più uno dei voti validi opera in funzione derogatoria rispetto ad una regola generale (dell’attribuzione del premio di maggioranza alla lista collegata al Sindaco eletto) ed è possibile derogare a tale principio soltanto nel caso in cui alla competizione partecipino più di due liste.
 
In materia di attività sportiva, in relazione ai drammatici eventi seguiti alla disputa della partita Catania-Palermo del 2 febbraio 2007, è stata adottata la sentenza n. 679 del 19 aprile 2007, con la quale è stato affermato:
a) Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla controversia riguardante il provvedimento con il quale la Federazione Italiana Gioco Calcio ha disposto la squalifica del campo di calcio di Catania, atteso che tale provvedimento non rientra nell’esercizio dell’autodichia disciplinare delle Federazioni sportive, né attiene a materia riservata all’autonomia dell’ordinamento sportivo.
b) Il provvedimento con il quale la FIGC ha disposto la squalifica del campo di calcio di Catania può essere impugnato anche da coloro che sono abbonati alle partite “casalinghe” della squadra di calcio, i quali sono titolari di un interesse personale, diretto e concreto.
c) La speciale competenza del T.A.R. Lazio-Roma è previsto dall’art. 3 D.L. 19 agosto 2003, n. 220, convertito nella legge 7 ottobre 2003, n. 280, solo nel caso in cui si tratti di controversia proposta da coloro che operano all’interno del mondo sportivo, in quanto tesserati, allorché siano stati aditi, preventivamente, gli Organi di giustizia sportiva, e che ne siano stati esauriti tutti i gradi.
d) Nel caso di disordini ed incidenti occorsi al di fuori dell’impianto sportivo, la responsabilità della squadra di calcio non può essere di tipo oggettivo.
e) Nel caso dei disordini ed incidenti occorsi il 2 febbraio 2007 al di fuori dello stadio di Catania, in ogni caso mancano alcuni requisiti integranti l’ipotesi della responsabilità oggettiva; ed invero, tra la condotta e l’evento dannoso deve essere rinvenibile un nesso di causalità materiale ben individuato e, inoltre, l’agente deve avere volontariamente tenuto una condotta che di per sé costituisce illecito, in ossequio al noto principio “qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu”.
 
In tema di giudizio d’ottemperanza, con sentenza n. 634 del 16 aprile 2007, la Sezione ha ribadito il principio secondo cui al Commissario ad acta, “longa manus” del giudice amministrativo, vanno riconosciuti gli stessi poteri di quest’ultimo; in particolare, il Commissario medesimo va ritenuto titolare del potere di adottare i necessari provvedimenti amministrativi anche in deroga alle norme che disciplinano la competenza alla loro adozione.
Appare, poi, opportuno completare il delineato panorama giurisprudenziale riassumendo il contenuto di due decreti del Presidente della Sezione staccata di Catania del T.A.R. Sicilia con i quali si affrontano questioni processuali che rivestono notevole interesse pratico per le parti ed i loro difensori.
A) Con il primo di tali decreti presidenziali (D.P. n. 16 del 18.1.2007), si è cercato di dare una risposta al problema della lacuna esistente nell’ordinamento processuale amministrativo in ordine all’istituto della riunione dei ricorsi, che, così come sommariamente delineato e disciplinato dall’art. 52 del R.D. 17.8.1907, n. 642 (“Regolamento per la procedura dinanzi alle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato”), presuppone necessariamente la contemporanea pendenza delle cause da riunire davanti ad una medesima “sezione” del T.A.R. o del Consiglio di Stato, con ciò escludendo implicitamente la possibilità di trattazione congiunta, ed eventualmente di riunione, di cause pendenti dinanzi a sezioni diverse dello stesso organo giurisdizionale.
Si è, pertanto, ritenuto di potere ovviare a tale lacuna procedendo all’applicazione analogica nel processo amministrativo dell’art. 274, 2° comma, c.p.c., che consente al Presidente del Tribunale di ordinare che più cause connesse, pendenti dinanzi a sezioni diverse dello stesso Tribunale, vengano chiamate alla medesima udienza di una stessa sezione al fine di adottare i provvedimenti opportuni.
Tale applicazione analogica è stata affermata in base al seguente duplice ordine di correlate e convergenti argomentazioni:
1)                La riunione dei ricorsi nel processo amministrativo risulta attualmente disciplinata esclusivamente dall’art. 52 del R.D. 17.8.1907, n. 642 (“Regolamento per la procedura dinanzi alle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato”), il quale così testualmente dispone:
“Se alcuna delle parti, o la pubblica amministrazione, chieda che per ragione di connessione due ricorsi siano uniti e venga provveduto su di essi con una sola decisione, la sezione, udite le parti interessate, può ordinarne l’unione. Il Presidente può, anche quando non sia stata chiesta l’unione, ordinare d’ufficio che i due ricorsi siano chiamati alla stessa udienza, affinché la sezione possa giudicare della loro connessione e, ove si faccia luogo alla riunione, pronunciare sui due ricorsi con una sola decisione”.
“L’istituto della riunione dei ricorsi, così come sommariamente delineato e disciplinato dal predetto art. 52 opera, quindi, soltanto in presenza di particolari presupposti processuali (il cui verificarsi è meramente eventuale) costituiti, innanzi tutto, dalla contemporanea pendenza delle cause da riunire davanti ad una medesima “sezione” e cioè davanti al medesimo organo giurisdizionale della giurisdizione amministrativa, poi dall’esistenza di un nesso di connessione fra tali cause, ed infine dalla sussistenza di ragioni d’opportunità processuale che giustifichi la riunione dei ricorsi.
“Il tenore testuale dell’art. 52 in esame evidenzia, pertanto, l’attribuzione soltanto alla “sezione” (vale a dire del giudice amministrativo – TAR e Consiglio di Stato – nella sua istituzionale composizione collegiale) del potere di disporre la riunione delle cause, sicché il primo presupposto per poter addivenire ad una decisione unitaria dei diversi ricorsi pendenti è costituito dalla circostanza che le cause siano chiamate tutte alla stessa udienza e davanti alla stessa sezione. Conseguentemente, la giurisprudenza amministrativa ritiene impossibile riunire tra le loro non soltanto cause pendenti davanti a diversi TAR o davanti ad un TAR ed al Consiglio di Stato (cfr. tra le altre, TAR Marche, n. 33/1977, TAR Calabria Catanzaro, n. 235/1977, TAR Toscana, n. 627/1984, C.S., IV, n. 30/1976), ma ha negato anche la possibilità di riunire due o più ricorsi pendenti dinanzi alla sede ed alla sezione staccata dello stesso TAR (cfr., fra altre, TAR Emilia Romagna, Parma, n. 254/1978, e TAR Lazio – latina, n. 118/1983). In tutti questi casi, come in tutte le altre ipotesi di ricorsi connessi che non sia possibile riunire rispettando il dettato del menzionato art. 52, la dottrina e la prassi giurisprudenziale si sono sostanzialmente orientate – sia pure con alcune diversità di impostazioni dogmatiche e sistematiche e quindi di itinerari argomentativi – nel ritenere che l’unica possibilità offerta dallo strumentario dall’ordinamento processuale fosse quella di accertare il nesso di pregiudizialità amministrativa e la litispendenza, disponendo se del caso, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., la sospensione del processo amministrativo accessorio in attesa della definizione di quello principale (art. 31 c.p.c.), e cioè, in altri termini, del processo di annullamento e/o di accertamento e/o di condanna che, dal punto di vista logico – giuridico e cronologico, appare come un giudizio presupposto rispetto all’altro che viene sospeso;
“2) Ma la cennata soluzione della sospensione necessaria di un processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c., a causa dell’inapplicabilità, nei casi di pendenza di ricorsi connessi dinnanzi a sezioni interne diverse dello stesso TAR o della stessa Sezione staccata, del ripetuto art. 52, non appare, sotto vari aspetti, convincente, soprattutto ovi si consideri che l’istituto della sospensione ex art. 295 c.p.c. costituisce il rimedio estremo (o “residuale”) utilizzabile dal giudice soltanto nell’ipotesi che non si rinvengano nell’ordinamento processuale altri procedimenti di trattazione congiunta finalizzati all’attuazione dell’immanente principio di economia processuale ed al contestuale raggiungimento dello scopo di evitare il rischio di un possibile contrasto di giudicati.
“Occorre appena ricordare, infatti, che la conclusione negativa in ordine alla sussistenza di altre normative processuali (volte a consentire l’instaurazione di un “simultaneus processus”) applicabili nelle predette (e frequenti) ipotesi può scaturire soltanto dopo l’esito negativo della interpretazione o meglio integrazione analogica che l’art. 12, 2° comma, Disp. Prel. C.c. inderogabilmente prescrive al giudice in presenza del duplice presupposto dell’assenza di una “precisa disposizione” che preveda la fattispecie controversa (presupposto negativo) e della presenza nell’ordinamento di “disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe” (presupposto positivo). Ed invero, com’è assolutamente pacifico, le norme del codice di procedura civile sono applicabili nel processo amministrativo non solo quando siano richiamate dalle disposizioni regolatrici di quest’ultimo, ma anche per analogia, dato che il diritto processuale amministrativo costituisce un diritto speciale (e non eccezionale) nel più ampio sistema del diritto processuale generale, e dato che il codice di procedura civile costituisce in gran parte una legge generale contenente i principi fondamentali di ogni processo (cfr., fra le tante: A.P., 8.4.1963, n.6; C.S., V, 25.10.1963, n.894; C.S., VI, 10.6.1977, n.588; C.S., VI, 3.7.1981, n. 342; TAR Toscana, 30.9.1981, n. 532; TAR Lazio-Latina, 12.3.1982, n. 124);
“Procedendo, quindi alla ricerca di una possibile integrazione analogica (“analogia legis”) della sopra indicata lacuna della disciplina del processo amministrativo utilizzando gli strumenti ed istituti presenti nel processo civile, ci si accorge, innanzi tutto, che già con la menzionata sentenza della IV Sezione n. 588/1977 il Consiglio di Stato – colmando una delle maggiori lacune della Legge TAR n. 1034/1971, la quale non considera la competenza per connessione, di cui la competenza per accessorietà è una specie – ha affermato che “quelle medesime esigenze di economicità ed efficienza dei giudizi, ravvisabili nel processo civile, e che giustificano la vigenza di alcuni criteri di competenza tendenti alla concentrazione delle cause (art. 31 ss., c.p.c.) sono identificabili anche nel giudizio amministrativo” (punto 3 della motivazione, in fine), sicché “deve essere ammessa l’attribuzione alla cognizione del giudice, competente per la causa principale, della causa accessoria, così come fissato dagli artt. 31 e 40 c.p.c.” (inizio punto 4 della motivazione). E la giurisprudenza amministrativa successiva ha mantenuto ben fermo tale orientamento (cfr., fra le più recenti, CS. IV, 5.9.2002, n. 4502, e 19.8.2002, n. 4212);
“Ora, muovendo dai cennati caposaldi interpretativi il passo è breve per aggiungere al sistema, così delineato o ricostruito dalla giurisprudenza e dalla dottrina, l’ulteriore coordinata ermeneutica dall’applicabilità anche nel processo amministrativo, in forza di “analogia legis”, dell’art. 274, 2^ comma, c.p.c., il quale, disponendo che “ se….il presidente della sezione ha notizia che per una causa connessa pende procedimento davanti….ad altra sezione dello stesso tribunale, ne riferisce al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto che le cause siano chiamate alla medesima udienza davanti….alla stessa sezione per i provvedimenti opportuni”, integra sostanzialmente la previsione lacunosa del ripetuto art. 52 R.D. n. 642/1907, rivelandosi, in ultima analisi, come lo strumento processuale idoneo ad evitare il rimedio estremo della sospensione del giudizio accessorio (o “presupponente” o “pregiudicato”) ex art. 295 c.p.c.”.
B) Con il secondo di tali decreti presidenziali (D.P. n. 87 del 15.11.2007), si è cercato di eliminare la situazione di permanente e deleteria incertezza – sia dell’Ufficio ricezione ricorsi che del Presidente e dei magistrati delegati – in ordine alla necessità di iscrizione a ruolo, trattazione e decisione dei ricorsi irrituali o nulli, la cui frequenza si è recentemente intensificata non solo con il deposito direttamente presso tale ufficio ma anche attraverso l’invio al T.A.R. (e spesso al Presidente in persona) a mezzo del servizio postale.
Al fine, quindi, di conseguire l’obiettivo di una maggiore certezza in materia, col predetto decreto si è proceduto a tracciare una sommaria distinzione fra ricorsi irrituali o nulli ed esposti generici che non costituiscono ricorsi (e quindi inesistenti come tali sotto il profilo giuridico) in quanto privi di qualunque formulazione di domande giudiziali, e si sono, conseguentemente, impartite disposizioni vincolanti con le quali, in sintesi, si è ribadito l’obbligo dell’ufficio deposito o ricezione ricorsi di procedere all’iscrizione a ruolo nel Registro generale anche di tutti i ricorsi irrituali o nulli, con esclusione dei soli esposti radicalmente inqualificabili e quindi inesistenti come ricorsi.
         L’itinerario argomentativo formulato a sostegno di tale decreto presidenziale – che viene allegato in appendice alla presente Relazione – si sviluppa attraverso varie considerazioni essenziali delle quali appare opportuno trascriverne qui di seguito le più rilevanti:
“E’ appena il caso di rilevare o ricordare in proposito, in estrema sintesi, che l’obbligo dell’iscrizione nel Registro generale dei ricorsi anche degli esposti informali o ricorsi irrituali (o nulli) deriva innanzi tutto, costituendone un corollario ed un precetto automaticamente consequenziale, dal dovere decisorio “globale” del giudice codificato dall’art. 112 c.p.c. in base al quale “il giudice deve pronunziare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa….”; dovere che si articola e specifica anche nel potere-dovere di pronunziarsi con sentenza di rito, a norma dell’art. 279, 2° comma, n. 2, c.p.c. sulla eventuale nullità di atti processuali (fra i quali devono, ovviamente annoverarsi tutti gli atti introduttivi dei giudizi, ivi compresi i ricorsi irritali od esposti informali che dir si voglia) così come stabilito dall’art. 162 c.p.c. in relazione ai precedenti artt. 156 e seg., nonché nel potere-dovere di procedere alla verifica di ufficio della regolarità della costituzione delle parti in giudizio, così come prescritto dall’art. 182, 1° comma, c.p.c., e – specificamente per il processo amministrativo – dall’art. 17, 2° comma, R.D. 17.8.1907, n. 642.
         “E’ ovvio, infatti, che essendo la funzione giurisdizionale attribuita ai magistrati (ordinari, amministrativi, e contabili: artt. 102 e 103 Cost.), e poiché “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo…” (art. 111, 1° comma, Cost.) ed “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale” (art. 11, 2° comma, Cost.), soltanto ai magistrati, e non già alle Cancellerie e Segreterie giudiziarie, spetta il potere di valutare la ritualità o meno (e quindi l’ammissibilità, la validità, la regolarità, ecc.) di ogni atto introduttivo del giudizio, e quindi anche di quelli che “prima facie” o “ictu oculi” non presentano i requisiti minimi di esistenza o di validità prescritti dall’ordinamento processuale, ma che, ciononostante, vengono asseritamente ritenuti esistenti, validi ed efficaci dalle parti processuali che chiedono di depositarli presso i predetti apparati ausiliari degli organi giurisdizionali (si veda, fra le più recenti fattispecie di inammissibilità e nullità di ricorsi irritali o informali presentati a questo T.A.R., ma ritualmente ammessi al deposito con la formazione di un regolare fascicolo, iscrizione a ruolo nel Registro Generale, ed assegnazione consequenziale alla Sezione interna competente, il ricorso n. 9/2003 R.G., definito, appunto, con sentenza dichiarativa di inammissibilità e nullità, n. 690/2004 della 2^ sezione).
         “Ma il predetto obbligo di iscrizione a ruolo anche dei ripetuti ricorsi irritali o nulli deriva altresì, com’è noto, dal dovere più generale, imposto ai magistrati dagli artt. 2, 1° comma, e 3 della L. 13.4.1988, n. 117, di evitare il “diniego di giustizia” costituito dal rifiuto, dall’omissione o dal ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio (art. 3 cit., 1° comma), configurato come reato dall’art. 328, 1° e 2° comma, c.p. (“Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione”), nonché dall’analogo obbligo dei Cancellieri e Segretari di “compiere gli atti che sono loro legalmente richiesti (art. 60, n.1, c.p.c.), la cui omissione od il cui rifiuto è ugualmente sanzionato dall’art. 328 c.p.-“
         “CONSIDERATO peraltro che, alla stregua del delineato quadro normativo in materia e delle relative coordinate sistematiche ed ermeneutiche, l’esclusione o l’insussistenza dell’obbligo di iscrizione a ruolo si può legittimamente configurare – senza che ciò costituisca eccezione o deroga ai predetti principi – soltanto nelle marginali ipotesi:
a)                di esposti, spesso in forma epistolare (diretti al Presidente, ai Presidenti delle Sezioni interne, ai magistrati del TAR genericamente e collettivamente, o a singoli magistrati), contenenti mere sollecitazioni od esortazioni ad intervenire d’ufficio (il che non è ovviamente possibile) per rimuovere determinate situazioni di illegittimità, e/o la mera esposizione di tali situazioni e/o di fatti di esclusiva rilevanza penale (che, comunque, debbono essere inviati alle competenti procure della Repubblica in ossequio, al disposto dell’art. 331 c.p.p.), e/o la richiesta dell’esercizio di una funzione tipicamente amministrativa e non giurisdizionale (quale la vigilanza sulla corretta applicazione di leggi, regolamenti, circolari, di bandi concorsuali e di gare d’appalto, ecc.), e così via, senza la formulazione di alcuna vera e propria domanda giudiziale di annullamento e/o di riconoscimento di diritti e/o di condanna, ecc.;
b)      di esposti diretti ad altri organi giurisdizionali o a Pubbliche Amministrazioni, ed inviati al T.A.R. soltanto per conoscenza; e ciò perché in tali fattispecie non si può sicuramente scorgere ed individuare alcun atto introduttivo del giudizio ma, al contrario, soltanto atti giuridicamente irrilevanti o atti “processuali” inesistenti (e non già esistenti ma nulli), vale a dire atti privi totalmente degli elementi necessari alla loro qualificazione come atti inquadrabili e riconoscibili in una astratta fattispecie giuridica processuale e quindi da considerare “tamquam non essent” ed in suscettibili di sanatoria ex art. 156, ult. Co., c.p.c., proprio in quanto integralmente carenti degli elementi e requisiti essenziali per la loro qualificazione come atti sussumibili in un determinato tipo o in una determinata figura giuridica (dottrina e giurisprudenza pacifiche: cfr., fra le tante, Cass. 29.3.2004, n. 6194, Cass. 11.7.1975, n. 2271, Cass. 6.2.1962, n. 223)”.
A conclusione di questa rapida e sintetica rassegna della produzione giurisprudenziale di questo tribunale, è appena il caso di ricordare – non certamente agli “addetti ai lavori” ma all’opinione pubblica – che l’esposizione dell’andamento dell’attività giurisdizionale di un organo giudiziario sotto il profilo contenutistico degli orientamenti seguiti e dei principi affermati non può, ovviamente, includere il profilo della loro analisi critica o del loro commento, dato che, per un principio generale anche di natura deontologica, non spetta ai magistrati che hanno emanato le relative pronunzie o decisioni esprimere opinioni o giudizi al riguardo, potendo e dovendo tali valutazioni provenire soltanto da giuristi in genere ed anche eventualmente da magistrati estranei alle decisioni adottate, oltre che, in generale, dall’opinione pubblica.
 
 
4. RIFLESSIONI GENERALI MINIME SULL’ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE DEL 2007: PERMANE ANCORA IL DILEMMA – QUASI CERTAMENTE DESTINATO A PROTRARSI PER MOLTI ANNI – SUL SE LE REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA INTRODOTTE CON LE LEGGI N. 15 E N. 80 DEL 2005 ABBIANO MUTATO ANCHE LA FUNZIONE DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO, E PERMANE L’INCERTEZZA LEGATA ALL’INTERPRETAZIONE ED APPLICAZIONE DELLA SENTENZA N. 204/2004 DELLA CORTE COSTITUZIONALE.
 
 
Come espressamente previsto dalla già ricordate delibere istitutive della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario presso il Consiglio di Stato ed i Tribunali amministrativi regionali, la relazione sull’attività giudiziaria deve estendersi sino ad includere le “riflessioni che da tale attività scaturiscono, ivi comprese le eventuali esigenze di modifica legislativa”.
Procedendo, innanzitutto, all’elaborazione e formulazione delle riflessioni indotte dall’esame dell’attività giurisdizionale di questo Tribunale nello scorso anno, si possono in questa sede enucleare ed esporre brevemente alcune considerazioni sommarie di carattere generale.
In quest’ottica, quindi, sembra opportuno ricordare che, mentre al secondo semestre del 2004 è stato pervasivamente caratterizzato dalla criticatissima, quanto inaspettata, sentenza n. 204 della Corte costituzionale (da più parti “bollata” come antistorica ed ottocentesca, oltre che in contrasto con la stessa Costituzione e con l’ordinamento comunitario), che ha ridimensionato con notevoli imprecisioni e contraddizioni le materie di giurisdizione esclusiva del G.A. attribuite dalla legge di riforma n. 205/2000 (sentenza sulla quale ci si è a lungo e necessariamente soffermati nella Relazione letta all’inaugurazione dello anno giudiziario 2005); e mentre il 2005 deve senza dubbio ritenersi contrassegnato dall’introduzione nell’ordinamento delle modifiche organiche della disciplina generale del procedimento amministrativo; il 2007, così come il 2006, risulta essenzialmente connotato, a mio avviso, dalla negativa permanenza delle gravi incertezze connesse sia alle modifiche delle regole fondamentali e generali nella svolgimento della funzione amministrativa che al nuovo sistema di riparto della giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario, così come dettato dalla Corte Costituzionale.
1) In ordine al primo aspetto (relativo alle cennate modifiche), si deve osservare che a quasi quindici anni dal varo della L. 241/90, invero, le modifiche e le integrazioni apportate alla disciplina della c.d. “trasparenza” amministrativa con la legge n. 15 dell’11 febbraio 2005 e, ad appena un mese di distanza, con il decreto legge n° 35 del 14 marzo, convertito nella L. 14/5/2005, n° 80, hanno aperto un nuovo panorama e nuovi scenari normativi, ed hanno tracciato quindi nuovi territori da esplorare che prima d’ora erano esclusivo appannaggio della letteratura giuridica e di qualche frangia più o meno marginale o minoritaria (ma innovativa ed evolutiva) della giurisprudenza amministrativa.
Un primo rilievo generale che si può continuare a formulare, nell’ambito delle plurime coordinate ermeneutiche emergenti dalla ricognizione del nuovo quadro normativo, concerne la ratio e la finalità di fondo e complessiva della legge 15/2005, che sembra caratterizzarsi, ad un primo esame, come un intervento con più chiavi di lettura e di interpretazione. E ciò perché, se per un verso recepisce e chiarisce aspetti sui quali vi sono stati ampi ed accesi dibattiti dottrinari e giurisprudenziali, sotto altri aspetti introduce una disciplina che tende a preservare, maggiormente rispetto al passato, l’effettività e l’efficacia dell’azione amministrativa a scapito delle garanzie di tutela del cittadino ed in generale di tutti i soggetti giuridici incisi dall’attività della P.A.-
Limitandomi, per ovvie ragioni di concisione connesse alla sede ed ai limiti intrinseci tipici di ogni Relazione, al profilo probabilmente più denso di implicazioni dogmatiche e sistematiche, basti pensare che il nuovo regime sostanziale e processuale dell’annullabilità del provvedimento amministrativo delineato dall’art. 21 octies suscita perplessità e preoccupazioni sul significato di fondo o recondito di tale scelta legislativa, sulle conseguenze che ne derivano, o sui corollari che se ne possono trarre.
Ed invero, pur non potendosi sottacere o minimizzare la c.d. ansia sostanzialistica che ha animato il legislatore della riforma e che permea il nuovo impianto normativo, emergendo dai nuovi dati testuali in materia come il giudice amministrativo venga ormai essenzialmente chiamato a ricostruire il corretto contenuto dispositivo dei provvedimenti sia vincolati che discrezionali, tuttavia, fra l’altro, dubbi di costituzionalità possono sorgere nel constatare come la figura dell’annullabilità venga in gran parte stemperata e dissolta dal legislatore in quella di mera irregolarità giuridicamente irrilevante, in contrasto con i principi costituzionali in materia codificati dall’art. 113 della Carta fondamentale nella parte in cui (2° co.) prescrive perentoriamente che “la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”.
Il che, in ultima analisi, ha già generato l’interrogativo di fondo e preliminare – destinato a divenire sempre più immanente ed assillante – in ordine all’ ubi consistam e quindi al ruolo che, alla stregua del nuovo quadro normativo, il giudice amministrativo viene chiamato a svolgere nella attuale e nella futura società sempre più complessa e “globalizzata”: al di là cioè della tecnica legislativa più o meno approssimativa utilizzata e di alcune implicite ma erronee premesse dogmatiche da cui muove il nuovo impianto normativo, il legislatore ha inteso chiedere alla magistratura amministrativa, sia pure attraverso le consuete cautele nominalistiche ed il ricorso ai sempre più frequenti concetti indistinti o indeterminati, di trasformarsi, sostanzialmente, da giudici dei vizi amministrativi e (in determinate ipotesi) dei rapporti con la P.A. in giudici del risultato, e quindi – prevalentemente e tendenzialmente – in giudici del “merito” delle scelte discrezionali dell’Amministrazione?
La risposta, come di solito accade, potrà venire soltanto dalla faticosa ricostruzione del sistema attraverso l’interpretazione giurisprudenziale e dottrinaria.
Per il momento, emerge soltanto la consapevolezza di essere ancora una volta dinanzi ad una scelta di campo non facile e ad un “rebus” istituzionale tutto da decifrare ed anzi da inventare.
Si è aperto un capitolo nuovo per la storia della giustizia amministrativa in Italia: un capitolo tutto da scrivere a più mani e con un finale che risulti coerente con le coordinate di sistema e soprattutto col valore dell’effettività della tutela giurisdizionale. E cominciano, quindi, a vacillare molte certezze ed acquisizioni consolidate del diritto amministrativo e del diritto processuale amministrativo, perché siamo in mezzo al guado.
Molte altre riflessioni su molteplici e particolari tematiche e problematiche giuridiche di grande rilievo, sempre incentrate su tale dilemma di fondo, potrebbero e dovrebbero essere formulate, ma se ne deve fare necessariamente a meno per non correre il rischio di trasformare la Relazione giudiziaria in una Relazione ad un Convegno giuridico.
 
2) Quanto, poi, all’altro fattore di incertezza cui prima si accennava – vale a dire quello connesso alla controversa interpretazione ed applicazione della sentenza n. 204/2004 della Corte costituzionale – che ha negativamente continuato a contraddistinguere la giustizia amministrativa nello scorso 2007 (e continuerà a pesare sulla sua evoluzione anche nei prossimi anni, se non arriverà una modifica costituzionale che metta definitivamente a tacere le stucchevoli ed estenuanti diatribe sulla attribuzione al giudice amministrativo ed al giudice ordinario della giurisdizione su alcune materie), ci si deve limitare in questa sede a rilevare che la sentenza della Corte costituzionale n. 191 dell’11/05/2006, pur avendo in parte rettificato e/o precisato alcuni dei rigidi postulati sui quali è stata costruita la trama degli enunciati motivatori della precedente sentenza n. 204/2004 in materia di riparto di giurisdizione fra giudice amministrativo e giudice ordinario, non dissolve le aporie di fondo ed i dubbi ingenerati dalla pronunzia del 2004, che pertanto continuano a permanere sostanzialmente inalterati.
 
 
 
5. LE NECESSARIE MODIFICHE LEGISLATIVE DI CARATTEE PROCESSUALE, ORDINAMENTALE E SOSTANZIALE PER IL MIGLIORAMENTO DELL’ATTUALE SISTEMA DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA.
 
 
Le sommarie riflessioni cui si è accennato ci introducono direttamente sul terreno delle ulteriori riflessioni sulle “eventuali esigenze di modifica legislativa”, che, come si è già detto al paragrafo precedente, le ricordate delibere del C.P.G.A. istitutive della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario ricomprendono nell’ambito delle riflessioni sull’attività giudiziaria.
Tali esigenze di modifica, eufemisticamente definite “eventuali” devono invece ritenersi necessarie ed anzi permanentemente necessarie, com’è intuitivo, al fine di raggiungere l’obiettivo sempre sfuggente del miglioramento del servizio giustizia e di una maggiore effettività della tutela giurisdizionale.
La gamma delle modifiche necessarie comprende, ovviamente, non soltanto l’introduzione di nuove regole processuali, ma anche, e soprattutto, nuovi assetti ordinamentali e la rivisitazione di varie normative sostanziali.
Si formuleranno qui di seguito, quindi, alcune considerazioni minime al riguardo, sempre in ossequio alle già cennate ragioni di contenimento della Relazione e quindi, necessariamente, senza alcuna pretesa di sistematicità ed esaustività.
1)    Fra le molteplici esigenze che tutti gli operatori pratici del diritto e gli studiosi non possono non avvertire, probabilmente una delle più urgenti appare, se non altro perché legata alla reintroduzione di un indispensabile elemento di chiarezza nell’ordinamento e perché attiene ad una auspicabile modifica costituzionale, la necessità di una riforma dell’attuale farraginoso sistema di riparto della giurisdizione fra giudici ordinari e amministrativi.
Obiettivo che si potrebbe raggiungere o eliminando dall’art. 103 della Costituzione la riduttiva ed ambigua previsione della devoluzione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva soltanto “in particolari materie” e sostituendola con quella più semplice e lineare (ed esistente sostanzialmente già nel sistema francese e tedesco) della attribuzione di tale tipo di giurisdizione secondo il criterio dei c.d. “blocchi di materie” omogenee, variamente individuate, secondo i periodi storici e le mutevoli esigenze socio-economiche, dal legislatore ordinario; oppure, più semplicemente e radicalmente, modificando l’assetto costituzionale in materia di giurisdizione (artt. 102, 103, 113, ecc. Cost.) prevedendo che la cognizione di tutte le controversie nei confronti delle P.A. venga attribuita al giudice amministrativo, senza alcuna distinzione fra tutela di diritti soggettivi ed interessi legittimi, e configurando quindi i T.A.R. ed il Consiglio di Stato quale unici giudici della funzione amministrativa.
2)                Non si può, poi, non sottolineare la necessità dell’introduzione di una disciplina organica del processo amministrativo, procedendo finalmente all’emanazione di quella “apposita legge sulla procedura” preconizzata dall’art. 19, 1° comma, della legge n. 1034/1971, e vanamente attesa da oltre 36 anni.
Soltanto un codice di procedura amministrativa, che raccolga e coordini organicamente le sparse regole esistenti in ben cinque testi normativi processuali di carattere generale (R.D. n. 642/1907, R.D. n. 1054/1924, legge n. 1034/1971 istitutiva dei T.A.R., legge n. 205/2000, e codice di procedura civile), ed in vari testi normativi settoriali (basti pensare, fra altri: alla disciplina della tutela giurisdizionale del diritto di accesso ai documenti amministrativi contenuta nella legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo; alla nuova disciplina sulla tutela avverso il silenzio-rifiuto ed in materia di diritto di accesso introdotta con l’art. 3, commi 6-bis, 6-ter e 6-decies della legge n. 80/2005; alla disciplina sul contenzioso in materia di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, approvata col D.lgs n. 163/2006: in particolare gli artt. n. 244, 245 e 246; e così via), può contribuire alla risoluzione di gran parte dei numerosi problemi interpretativi ed applicativi che gli avvocati ed i giudici amministrativi si trovano quotidianamente ad affrontare nell’utilizzazione degli istituti e strumenti processuali.
3)                Passando ora dalle modifiche di carattere costituzionale e processuale a quelle di carattere ordinamentale od organizzativo, deve necessariamente rilevarsi come sia pura utopia, poi, pensare di risolvere, o quanto meno di avviare a soluzione, il problema dei cronici ed anzi endemici ritardi nella definizione delle controversie nel merito, senza dare una risposta concreta all’esigenza fondamentale di predisporre il rimedio naturale e strutturale di un aumento adeguato, nell’esclusivo interesse della collettività e quindi degli utenti del “servizio giustizia”, degli organici della magistratura amministrativa (e naturalmente, in stretta correlazione e proporzione, degli organici del personale di Segreteria).
Solo per tale via si potrà gradualmente eliminare il pesante arretrato di contenzioso pendente e fronteggiare le sfide del futuro della giustizia amministrativa nel rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo consacrato nell’art. 111 Cost.
Se funzione primaria ed insostituibile dello Stato di diritto e democratico è quella di amministrare giustizia, al fine del perseguimento della c.d. “pace sociale”, non appare allora più tollerabile che il ruolo organico dei magistrati amministrativi di 1° grado, (e cioè di quelli in servizio presso i T.A.R.) risulti attualmente fissato in 370 unità in base all’art. 14 della legge n. 205/2000 (che ha aumentato soltanto di sessanta unità, con decorrenza 1° gennaio 2001, il numero di 310 magistrati precedentemente previsti dalla tabella A allegata alla legge n. 186/1982), e che quello dei Consiglieri di Stato, giudici di appello, risulti fissato in 123 unità dalla stessa disposizione di legge (che, con eguale decorrenza dal 1° gennaio, ha aumentato di appena 13 unità il numero di 110 magistrati del Consiglio di Stato costituenti la datazione organica già determinata dalla stessa tabella A della legge n. 186/1982), per un totale complessivo soltanto di n. 493 magistrati amministrativi, e a fronte (poco più o poco meno) dei 1.500 magistrati amministrativi della Francia e dei 2000 della Germania!
Dinanzi al costante aumento delle materie attribuite alla giurisdizione del G.A., ed in presenza di un’imponente crescita della domanda di giustizia nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni non solo da parte dei cittadini e degli enti privati, ma anche (e sempre più) di altre Pubbliche Amministrazioni che alimentano costantemente il flusso cospicuo dei conflitti interorganici ed intersoggettivi, risulta estraneo ad ogni logica, ad ogni esperienza e ad ogni umana possibilità pensare che si possa smaltire in tempi ragionevoli l’imponente arretrato di oltre 600.000 cause pendenti dinanzi ai T.A.R. (di cui, come si è già detto, oltre 67.000 pendenti dinanzi a questo Tribunale), e di oltre 21.000 dinanzi al Consiglio di Stato (cifra, quest’ultima, comprensiva anche degli appelli pendenti dinanzi al Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana).
Non si può tralasciare di considerare, invero, che, dopo la pressoché totale eliminazione dei controlli preventivi di legittimità, ed a causa della ben nota e sostanziale inefficacia dei “filtri” costituiti dai rimedi giustiziali amministrativi non giurisdizionali (ricorsi gerarchici, ricorsi in opposizione, ecc.) la giustizia amministrativa costituisce sempre più l’unico ed effettivo “terminale” delle molteplici tensioni sociali ed istituzionali di cui sono costellati i difficili rapporti fra i soggetti privati e le P.A..
La realizzazione, sia pure graduale in un arco temporale di medio periodo (più o meno in dieci anni, vale a dire nel corso di due legislature), di un consistente e non irrisorio aumento degli organici della magistratura amministrativa (e, correlativamente e proporzionalmente, del personale amministrativo), dovrebbe finalmente inserire l’Italia, anche in tale settore, nel novero dei Paesi più civili ed evoluti dell’Europa occidentale. E tale aumento degli organici appare tanto più razionale e proficuo ove si consideri che se si destinassero e si spendessero le ingenti risorse finanziarie stanziate ed erogate annualmente dallo Stato in base alla ormai famosissima legge 24/03/2001, n. 89 (c.d. legge Pinto) – per risarcire i cittadini del danno derivante dal ritardo della definizione delle liti giudiziarie – al fine precipuo di potenziare, invece, le fragili strutture degli apparati giudiziari, aumentandone le risorse umane e materiali, non soltanto lo Stato (e quindi tutti noi contribuenti) risparmierebbe (e risparmieremmo) una spesa in costante crescita ed assolutamente improduttiva, ma avvierebbe a soluzione il problema della “ragionevole durate del processo”, giustamente consacrata dalla riforma, con la legge costituzionale 23/11/1999, n. 2, dell’art. 111 della Carta fondamentale per adeguarla al principio già sancito sin dal 1950 con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Mi sembra di poter affermare, senza essere troppo lontano dal vero, che anche per i mali o fenomeni negativi che affliggono la società e la funzionalità ed efficienza delle istituzioni debba valere il principio, universalmente noto ed applicato dalla scienza medica, secondo cui se è nota la causa della malattia o patologia ed è altresì nota la cura o terapia per eliminarla, sia pure lentamente, risulta inutile e dannoso per l’organismo limitarsi ad instaurare terapie sintomatiche o palliative che, come tali, curano soltanto gli effetti (senza eliminarne le cause). In altri termini, non si riesce a comprendere la ragione per cui il legislatore abbia ritenuto e ritenga (non certamente di risolvere ma) di fronteggiare od arginare, in via primaria, il gravissimo e storico problema dei ritardi evidenti della giustizia soltanto attraverso una forma di risarcimento del danno (patrimoniale o non patrimoniale) per equivalente (art. 2 della legge n. 89/2001 ed art. 2056 c.c.), con la conseguente previsione annuale nel bilancio dello Stato di un improduttivo dispendio o sperpero di notevoli risorse finanziarie in costante crescita esponenziale, anziché privilegiare la via maestra della tutela preventiva e quindi effettiva del diritto pubblico soggettivo di ogni soggetto dell’ordinamento alla ragionevole durata di ogni processo (o, se si vuole restare nella similitudine giuridica evocata dalla fattispecie normativa risarcitoria, la via maestra, per così dire, della reintegrazione in forma specifica di tale diritto, in analogia con la previsione di cui all’art. 2058 c.c. ed all’art. 35, 1° comma, D.lgs n. 80/1998, nel testo sostituito dall’art. 7 della legge n. 205/2000). Perché mai, cioè, i legislatori non abbiano tentato e non tentino di eliminare il male alla radice attraverso l’attuazione (sia pure progressiva, ma costante) del rimedio strutturale del potenziamento degli organici della magistratura amministrativa e del personale di segreteria, in sinergia di azione (ovviamente) con la parallela attuazione di efficaci riforme processuali finalizzate alla semplificazione e deflazione delle controversie con la P.A.-
Se, invero, la politica giudiziaria del legislatore per fornire risposta in tempi ragionevoli alla domanda di giustizia dei cittadini e degli altri soggetti (privati o pubblici) dell’ordinamento dovesse restare ancora e soltanto confinata, come purtroppo sembra, alla mera corresponsione di un prezzo o “monetizzazione” del danno da ritardo nella risposta giurisdizionale così come stabilito nel 2001 con la legge “Pinto”, ciò equivarrebbe ad una ammissione di impotenza e ad una sconfitta dello Stato e delle sue istituzioni nella misura in cui verrebbe ad essere sostanzialmente e fatalmente accettata ed attestata dal legislatore ordinario l’impossibilità di garantire se non la rapidità – il che è veramente difficile sia per l’imponente accumulazione di arretrato in ogni settore giurisdizionale che per le ben note ragioni ontologiche legate alla faticosa ricostruzione dei fatti ed interpretazione di normative generali e settoriali sempre più complesse e farraginose – almeno la semplice durata ragionevole dei processi consacrata dal legislatore costituente. Il che significherebbe anche, per tutta la collettività, rassegnarsi alla consequenziale mutazione genetica del risarcimento, formalmente previsto come sanzione per il ritardo della risposta giurisdizionale in ipotesi patologiche (come dovrebbe essere), in rimedio unico e pressoché costante ad una disfunzione che, per la sua estensione e diffusione generalizzata, costante e risalente nel tempo, e quindi priva delle connotazioni della transitorietà e della eccezionalità rispetto alla regola, non si può definire riduttivamente come “patologica”, bensì come disfunzione cronicizzata e quindi in un certo senso “fisiologica”. E ciò proprio perché il fenomeno, essendo progressivamente divenuto permanente ed essendosi quindi trasformato da eccezione in regola, è ormai immanente nel sistema con sporadiche e limitatissime eccezioni (determinate, com’è noto, o dall’imposizione per legge di tempi rapidi per la definizione di alcune categorie di controversie con la P.A. che fruiscono, per così dire, di corsie preferenziali e di riti speciali, o dall’esistenza di rare situazioni locali caratterizzate da Amministrazioni efficienti e comunque da un bassissimo tasso di litigiosità).
In altri termini, l’applicazione generalizzata ed abusata della “legge Pinto” ha determinato una sorta di “eterogenesi” dei fini originari del legislatore, essendosi di fatto tale strumento trasformato in un grimaldello per ottenere una forma spuria ed aggiuntiva di risarcimento da parte dello Stato, oltre quella eventualmente ottenuta dalla parte privata o pubblica che ha causato un danno effettivo col sul comportamento illecito o illegittimo. In relazione a tale duplicità di ristoro patrimoniale, ed al carattere aggiuntivo ed anomalo del risarcimento da ritardo che viene riconosciuto pressocché indiscriminatamente, non possono non sorgere seri e fondati dubbi di costituzionalità.
Sicché, in ultima analisi, deve ritenersi che sostanzialmente il legislatore, anziché predisporre gli strumenti strutturali e quindi idonei ad assicurare ed attuare concretamente il diritto alla ragionevole durata dei processi, secondo il dettato costituzionale, si è preoccupato soltanto di disciplinare prioritariamente le conseguenze sanzionatorie per le costanti violazioni di tale diritto, dettando una normativa assolutamente incapace di ridurre la durata dei processi anche perché inidonea a costituire un deterrente credibile, ed intervenendo così soltanto “a valle” del problema e di tali violazioni, e non già “a monte” per affrontare le vere cause del primo e ridurre al minimo le seconde.
4)        Quanto, infine, alle modifiche legislative di carattere sostanziale che si ritengono necessarie per il miglioramento complessivo dello stato della giustizia amministrativa, e quindi, in particolare, per il perseguimento sistematico e razionale dell’obiettivo del decremento della conflittualità con la conseguente maggiore rapidità ed effettività della risposta giudiziaria, mi limiterò ad evidenziare quelle che, a mio avviso, sembrano essere le due categorie o direttrici di interventi legislativi che, se mantenuti costanti nel tempo e coordinati nell’applicazione, possono e debbono costituire le “precondizioni” indispensabili per il decremento del complessivo tasso di litigiosità amministrativa e di un complessivo incremento della produttività del sistema di giustizia amministrativa.
A)              Da un lato, e innanzi tutto, occorre più incisivamente procedere ad un effettivo ed organico “disboscamento” e riordino delle inestricabili foreste normative intessute di disposizioni di rango primario (leggi formali e leggi in senso materiale) e secondario (regolamenti di varia natura, efficacia e tipologia), di provenienza sia nazionale che regionale e locale, che continuano a proliferare in maniera abnorme e a ritmi vertiginosi soprattutto nelle varie materie di cui si compone quello straordinario universo in espansione che è il diritto amministrativo attuale, con formulazioni spesso non soltanto disorganiche, frammentarie, imprecise e linguisticamente oscure, ma anche farraginose e contraddittorie nei contenuti.
Questo incontrollato e dilagante eccesso e ridondanza di produzione normativa, pur essendo in linea di principio finalizzata a fornire discipline complete o tendenzialmente esaustive delle varie materie, e ad evitare l’”horror vacui” delle c.d. lacune dell’ordinamento o dei c.d. casi fuori dal diritto, in realtà si traduce inevitabilmente, oltre che in un fattore di incremento delle liti giudiziarie che si scaricano in tutta la loro crescente complessità sulla giurisdizione, soprattutto in un fisiologico rallentamento delle pronunzie giurisdizionali che risentono delle molteplici difficoltà ed incertezze legate al momento interpretativo della fase decisoria delle controversie con le P.A. (e spesso tra le P.A.).
 
Non è certamente questa la sede per disquisire sui vari strumenti tecnici di riassetto o riordino normativo previsti, da ultimo, dalla legge n. 229/2003 e da altri successivi testi normativi (testi unici meramente compilativi o, invece, innovativi o normativi; leggi annuali di delega per la semplificazione ed il riassetto normativo; cofidicazioni; ecc..), ma si può e si deve rinnovare un pressante appello al Parlamento ed al Governo affinché questa complessa ed ormai improcrastinabile opera di riassetto e semplificazione permanenti delle stratificate fonti di cognizione del diritto venga sistematicamente ed organicamente accelerata, e ciò non soltanto a livello nazionale ma anche a livello regionale e locale.
B)           Occorre, poi, rilevare che un’ulteriore concausa generale dell’inflazione del contenzioso risiede indubbiamente nel costante scadimento del livello qualitativo dell’azione amministrativa dovuto a molteplici fattori causali riconducibili a sistemi inadeguati di reclutamento e selezione del personale soprattutto a livello regionale e locale, a carenti e poco rigorosi sistemi di riqualificazione e formazione permanente, alla mancanza di giusta valorizzazione del “merito” e della professionalità dei funzionari più preparati e capaci ed alla loro conseguente demotivazione, all’eccessivo frazionamento e decentramento di competenze ad enti o ad organi professionalmente (e/o anche culturalmente) non attrezzati per esercitarle, e così via.
        A tale complessivo degrado delle risorse umane delle P.A. è necessario ed urgente porre un argine invertendo decisamente la tendenza in atto attraverso adeguate modifiche delle vigenti procedure selettive e soprattutto attraverso il ripristino generalizzato di desueti criteri meritocratici e la “riscoperta” di antichi valori.
        A conclusione di queste sommarie riflessioni sulle esigenze di modifiche legislative, non si può non rilevare che, in realtà, quelle prospettate non costituiscono semplici aggiustamenti normativi ma vere e proprie riforme ineludibili per il sistema giustizia di questo Paese. E sulla strada di tali (e di altre) riforme occorrerà che il legislatore proceda speditamente per evitare anche in tale delicato e vitale settore un declino inarrestabile, pur nella consapevolezza che non esistono soluzioni semplici per problemi complessi, e che, comunque, anche le più efficaci riforme non possono costituire la panacea di tutti i mali che affliggono la giustizia, in quanto notoriamente risalenti e derivanti da una indefinita serie di fattori causali (anche di carattere culturale) sia generali che particolari. Del resto, quelle prospettate non sono riforme che postulano una “palingenesi” totale di vari settori dell’ordinamento, ma soltanto il necessario perseguimento di obiettivi di trasformazione intermedia e graduale nell’ambito della politica giudiziaria e dell’azione riformatrice generale di un Paese di antica civiltà giuridica.
 
 
 
6. LE GRAVI CARENZE DI ORGANICO DEL PERSONALE DI SEGRETERIA DEL T.A.R. SICILIA – CATANIA.
 
 
Giunti a questo punto dell’esposizione, non si può tralasciare di affrontare con la massima franchezza e fermezza, ovviamente con riferimento agli aspetti peculiari della circoscrizione territoriale della Sicilia orientale, il problema delle carenze organiche del personale di segreteria, che da sempre angustia molti T.A.R. d’Italia, ad eccezione di pochissime oasi felici, e che viene costantemente e doverosamente evidenziato in tutte le Relazioni di apertura dell’anno giudiziario per sottoporre all’opinione pubblica anche lo “stato” attuale di una componente essenziale del buon funzionamento della giustizia amministrativa di questo Paese.
La situazione in cui versa l’apparato amministrativo di supporto di questo Tribunale (che conta attualmente soltanto 33 dipendenti a fronte di un organico, peraltro assolutamente insufficiente, di 36 unità) è ormai una situazione di emergenza che suscita sempre più preoccupazione e disagio, sia pure con diversa intensità, fra tutti gli “addetti ai lavori” o i “protagonisti” del settore della giustizia amministrativa nella Sicilia orientale: magistrati e funzionari del T.A.R. di Catania, da un lato, ed avvocati amministrativisti, dall’altro.
Mi sembra pressoché superfluo ricordare, preliminarmente, che l’organizzazione o la struttura amministrativa di tutte le Magistrature costituisce componente indispensabile, ancorché con funzioni ausiliarie (o strumentali o “serventi”), del “servizio giustizia” erogato da ogni organo giurisdizionale. Ed egualmente intuitiva sembra la deduzione o la conseguenza sillogistica necessaria che discende da tale premessa: se per qualsiasi causa (strutturale e permanente, o contingente e transitoria) diviene insufficiente o diminuisce la dotazione organica, e con essa, quindi, anche il livello di efficienza, degli apparati preposti alla c.d. “amministrazione della giurisdizione” che si estrinseca nel cennato complesso delle attività amministrative strumentali o “serventi” rispetto alle funzioni giurisdizionali; o se, come accade sempre più frequentemente, il loro organico “di fatto” risulta inferiore e continua a diminuire rispetto a quello “di diritto” (come pure si verifica già da molti anni, per il TAR Catania); la risposta giurisdizionale globale e complessiva alla domanda di giustizia non può non risentirne negativamente non soltanto in termini quantitativi ma anche (sia pure in misura inferiore) sotto il profilo qualitativo e della tempestività delle pronunzie giurisdizionali, oltre che in relazione ai connessi e numerosi adempimenti di segreteria. E fra le cennate ripercussioni ed evenienze negative devono altresì annoverarsi, fra l’altro o a tacer d’altro, le reiterate sollecitazioni e lamentele da parte della classe forense e dell’utenza, con conseguente diminuzione oggettiva dell’immagine e della credibilità dell’Istituzione a livello di opinione pubblica, gli incrementi delle azioni (peraltro in vertiginosa crescita in tutta Italia) dinanzi alle Corti d’appello (in base alla c.d. legge Pinto) per ottenere la condanna dello Stato per i ritardi processuali, e così via.
Quanto sopra succintamente premesso, il Presidente di questa Sezione staccata non si è sottratto (nel predisporre e leggere le Relazioni del 2005, del 2006 e del 2007), e non può neanche ora sottrarsi al dovere istituzionale di lanciare un accorato grido di allarme e di denunziare in tutte le competenti sedi, alla classe forense, ai sindacati dei lavoratori ed all’opinione pubblica, l’inaccettabilità e la insostenibilità di una situazione di perdurante e pressoché inarrestabile depotenziamento della struttura amministrativa di questo Tribunale, rispetto alla quale questa Presidenza non ha ovviamente alcuna responsabilità; che potrebbe al contrario configurarsi proprio e soltanto nell’ipotesi inversa in cui avesse sottaciuto ed eluso – o minimizzato – il problema , rifugiandosi dietro i veli d’ipocrisia dell’ottimismo di facciata con il quale si crede, a volte, di poter mascherare l’immobilismo burocratico più deteriore. Perché il silenzio potrebbe essere scambiato per (o, forse, costituire) omissione, ed un comportamento oggettivamente acquiescente scambiato per complicità nelle disfunzioni.
E non mi sembra inutile precisare ancora, in proposito, che non è certamente la constatazione e la denunzia delle molteplici forme di degrado istituzionale e dei mali o “malesseri” del sistema, ancorché forti e impietose, ad alimentare la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni, ma, al contrario, è la sordità, l’indifferenza ed il silenzio “assordante” dei responsabili pubblici di fronte agli allarmi lanciati, e quindi, in ultima analisi, è la mancanza di reazione adeguata, e di risposte dimensionate alla sfida posta dai problemi e dall’emergenza, che genera ed alimenta la sfiducia a tutti i livelli.
Per passare dalle astratte enunciazioni generali e di principio, e dalla mera affermazione dell’insostenibilità o drammaticità della situazione di carenza e permanente emergenza lamentata, ad una prima esemplificazione dei contenuti reali o degli aspetti salienti in cui il fenomeno si manifesta, in modo da consentirne un’immediata percepibilità per tutti (o quasi) gli operatori del settore della giustizia amministrativa nella circoscrizione del T.A.R. Sicilia – Catania, è sufficiente, in questa sede, fare riferimento:
1)        alle notorie difficoltà quotidiane di tutti gli apparati di segreteria nel predisporre e rilasciare tempestivamente fotocopie, autenticate o meno, dei provvedimenti giurisdizionali e degli atti e documenti esistenti nei fascicoli di causa, e certificazioni varie;
2)        alle altrettanto notorie e quotidiane difficoltà di reperire e prelevare fascicoli di ricorsi connessi e da riunire con quelli già pervenuti all’esame, sia nella fase cautelare che in quella di merito, delle varie Sezioni competenti per materia, è ciò non soltanto per l’irrisorietà numerica del personale addetto alla movimentazione dei fascicoli (appena quattro unità teoricamente, che, di fatto, si riducono spesso a due) ma anche per l’avvenuta attivazione, già da molti anni, di un secondo archivio in un edificio separato da quello in cui ha sede il TAR (attivazione resasi necessaria per la crescita vertiginosa del numero dei ricorsi pendenti, giunti ora, come si è detto, alla cifra di n. 67.929);
3)        la sopravvenuta impossibilità da almeno sette od otto anni, di procedere continuativamente, come si è già precedentemente accennato, alla ricerca e selezione di ricorsi identici od analoghi relativi alle medesime vicende amministrative al fine di predisporre in ogni Sezione la fissazione di udienze (ordinarie o straordinarie) c.d. “tematiche” per arginare e, possibilmente, diminuire la formazione dell’arretrato;
4)        gli inevitabili ritardi con cui, a volte, tale esiguo personale addetto spedisce alla segreteria del C.G.A. Reg. Sic. i fascicoli delle cause decise in primo grado con sentenza avverso le quali viene proposto appello;
5)        le permanenti difficoltà nel procedere alla sostituzione dell’unico telefonista del Tribunale purtroppo deceduto nel corso del 2006, e già precedentemente in aspettativa da molti mesi per gravi motivi di salute, con tutti i conseguenti disservizi e disagi, sia per i magistrati che per il personale di segreteria, e con le conseguenti lamentele e proteste dell’utenza e dei vari uffici pubblici con i quali il T.A.R. deve mantenere, per la sua funzione, continui rapporti d’ufficio ed istituzionali: ed infatti, pur essendo stato individuato ed avviato al lavoro lo scorso 14 settembre dal competente Ufficio provinciale del lavoro, in base alla vigente normativa sui centralinisti telefonici ipovedenti, un nuovo centralinista, si attende ancora la fornitura ed installazione presso il Tribunale di una adeguata centrale telefonica “Braille”;
6)        e da ultimo, ma non per ultime nel novero di queste sommarie esemplificazioni configurabili prima facie, non soltanto le notevoli difficoltà emerse nella raccolta ed analisi, da parte dei pochissimi addetti, dei dati statistici essenziali da sottoporre al Presidente per la stesura di questa Relazione, e per l’organizzazione di questa cerimonia solenne d’inaugurazione, che è stata resa possibile a prezzo di notevoli sacrifici e per l’abnegazione e lo spirito di corpo del personale di segreteria adibito, anche al di là delle loro mansioni, a tali incombenze (ed in particolare di sette funzionari: il Direttore di Sezione Dott.ssa Mazza, il Sig. Conte, la Sig.ra Morsello, la Sig.ra Drago, il Sig. Susinna, la Sig.ra Milana e il Sig. Nicotra, ai quali desidero pubblicamente esprimere il mio personale ringraziamento) ma anche l’impossibilità – per l’esiguo personale addetto, assorbito e assillato dalle normali incombenze quotidiane e d’ufficio, e per l’assenza dal servizio (per motivi di salute) da quasi due mesi e mezzo dell’unico operatore informatico assegnato al T.A.R. Catania – di effettuare più dettagliate rilevazioni ed elaborazioni di dati statistici da aggregare o disaggregare in ulteriori e più specifiche tabelle.
 
E passando poi, dalle cennate esemplificazioni, pressocché intuitivamente percepibili, alle dimostrazioni dell’assunto di fondo (sia pure in questa sede effettuabili sommariamente e parzialmente per i limiti intrinseci imposti da ogni Relazione – che non può essere mai o trasformarsi in uno studio approfondito – e per la necessità di non tediare oltre misura l’uditorio non direttamente interessato), si possono qui elencare in rapidissima sintesi i seguenti e più rilevanti elementi fattuali sui quali si fonda la conclamata insostenibilità della situazione in cui versa la struttura amministrativa di questo Tribunale:
1.     cessazione dal servizio nel 2007 di due unità di personale di segreteria, (di cui una per collocamento a riposo ed una per cessazione dell’efficacia dei provvedimenti di comando);
2.     cessazione della possibilità di utilizzare, a seguito dell’abolizione del servizio militare obbligatorio, obiettori di coscienza che – sia pure nel numero esiguo di due o tre unità e pur con tutti i limiti e le riserve derivanti dalla loro scarsa o inesistente esperienza amministrativa – per qualche anno sono riusciti in qualche modo a tamponare le sacche di emergenza e di discontinuità di funzionamento degli apparati di segreteria (soprattutto per l’attività di movimentazione dei fascicoli, nonché di copiatura dei provvedimenti giurisdizionali redatti in minuta dai magistrati e della corrispondenza istituzionale del Presidente con enti ed uffici vari);
3.     il comportamento in alcuni casi silenzioso (ed in passato anche i dinieghi espliciti) dei competenti uffici centrali di supporto della giustizia amministrativa in ordine a numerose richieste di comando o trasferimento per mobilità di personale di altre Amministrazioni, nonché in ordine alla richiesta alla R.E.S.A.I.S. s.p.a. (dichiaratasi disponibile) di distacco di proprio personale presso il T.A.R. Catania, come risulta documentato agli atti ed al protocollo generale di questo Tribunale;
4.     mancato aumento, nonostante le reiterate, motivate e documentate richieste formulate in tal senso dai Presidenti soprattutto nell’ultimo decennio, della vigente dotazione organica del personale, ferma da molti anni a 36 unità complessive (come stabilito dal decreto in data 27/12/2001 del Presidente del Consiglio dei Ministri, recentemente riconfermato, per quanto concerne il T.A.R. Sicilia-Catania, dal decreto in data 08/05/2006 del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa); numero assolutamente insufficiente rispetto alle esigenze connesse alla tumultuosa crescita ed al pesante arretrato del contenzioso amministrativo di questo T.A.R.;
5.     l’irrazionale, o scarsamente comprensibile, distribuzione squilibrata del personale di segreteria fra i diversi T.A.R, ove si pensi, tanto per citare soltanto due casi emblematici, che presso la Sezione staccata di Reggio Calabria del T.A.R. della Calabria, che ha un’unica Sezione non essendo stato mai ripartito in più Sezioni interne, erano in servizio nel 2004 n. 17 unità di personale di segreteria, salite a quanto pare a ben 19 unità nel 2005, nel 2006 e nel 2007, e che il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento (anch’esso con un’unica Sezione), ha egualmente in servizio ben 19 funzionari amministrativi; mentre presso il T.A.R. Sicilia-Catania, che almeno per dimensione quantitativa risulta il terzo d’Italia e che ha ben 4 Sezioni interne, sono in servizio effettivo soltanto 33 unità a fronte di una dotazione organica riconfermata in 36 unità dal menzionato decreto in data 08/05/2006 del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa!
Ogni commento al riguardo mi sembra superfluo. I fatti, come suol dirsi, sono argomenti testardi, e farei inoltre torto al pubblico qui convenuto se mi soffermassi ad effettuare la semplice ed elementare operazione di proporzione matematica fra tali entità numeriche, potendo questa essere mnemonicamente svolta da ciascuno dei presenti con le conseguenti valutazioni che ne scaturiscono. Mi limiterò soltanto ad evidenziare che, con simili squilibri territoriali, si consente di fatto a determinati uffici giudiziari di poter ottenere e vantare lusinghieri o comunque significativi risultati, in termini di eliminazione progressiva dell’arretrato e di risposta più tempestiva alla domanda di giustizia, che ad altri uffici giudiziari, e non per colpa loro, vengono sostanzialmente preclusi, con conseguente danno d’immagine per la giustizia amministrativa e danni da ritardo per la collettività.
Con buona pace del principio fondamentale del buon andamento codificato dall’art. 97 della Costituzione secondo cui “i pubblici uffici sono organizzati… in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”! Un principio posto indubbiamente a presidio o tutela degli interessi non soltanto genericamente della collettività nazionale nel suo complesso, bensì anche, e soprattutto, delle singole collettività regionali e locali che debbono fruire dei servizi pubblici fondamentali senza le limitazioni, strutturali o contingenti, derivanti dalla concreta organizzazione dei vari uffici e dalle diversità e disparità delle risorse umane e materiali a ciascuno di essi assegnate. Un principio che, inoltre, per la sua incontroversa natura immediatamente precettiva e non meramente programmatica, imponeva ed impone una risposta istituzionale idonea a fronteggiare adeguatamente, se non proprio ad eliminare, la denunziata situazione di gravissima carenza e di acuta sofferenza dell’apparato amministrativo al servizio della giustizia amministrativa nella Sicilia orientale.
Ed è proprio per il rispetto dovuto ai cittadini ed agli organismi pubblici e privati di tale parte d’Italia che si è oggi costretti alla necessaria ed orgogliosa rivendicazione del principio di equiordinazione e di uguale dignità istituzionale di ogni organo giudiziario, che non può e non deve esercitare il suo magistero in condizioni marcatamente deteriori rispetto agli altri.
Per completare il quadro sconfortante che si è venuto a delineare, occorre ancora rilevare, se ce ne fosse bisogno, che l’istituzione, dall’aprile 2005 della nuova 4a Sezione ha ulteriormente aggravato tutti i problemi di gestione degli uffici di Segreteria, essendosi dovuto inevitabilmente sottrarre operatori alle tre preesistenti strutture di segreteria giurisdizionale ed alla Segreteria affari generali per realizzare una quarta struttura a supporto, appunto, della nuova Sezione: con inevitabili ricadute negative, purtroppo, sulla complessiva efficienza dei servizi.
Si sono posti, di conseguenza, ulteriori gravissimi e quotidiani problemi di mantenimento dello “standard” complessivo di rendimento dell’apparato amministrativo, che, prima dell’istituzione della 4a Sezione, aveva raggiunto comunque, a prezzo di notevoli sacrifici, livelli minimi di sufficienza non più perseguibili con le ridottissime risorse umane attuali.
Non resta quindi che sollecitare ulteriormente un rapido adeguamento della dotazione organica della Sezione staccata di Catania che, rispetto alla previsione in atto (36 unità, come si è detto), andrebbe incrementata, a giudizio di questa Presidenza, di non meno del 50%, così passando ad almeno 54 o 55 unità, da ripartire proporzionalmente nelle varie posizioni funzionali, soprattutto al fine già evidenziato di predisporre e gestire sistematicamente udienze tematiche per l’eliminazione dell’imponente arretrato.
Da questa doverosa esposizione e sottoposizione all’opinione pubblica – con profondo rammarico e viva preoccupazione – degli aspetti essenziali della crisi e del malessere che colpisce la struttura amministrativa del T.A.R. Sicilia-Catania, dovrebbe scaturire almeno, soprattutto da parte degli Avvocati, l’acquisizione di una maggiore consapevolezza delle condizioni di grave disagio in cui sono costretti a lavorare magistrati e funzionari di questo organo giurisdizionale.
E dovrebbe conseguentemente tenersi anche conto dell’ulteriore e connesso disagio del Presidente che viene costretto a sottrarre gran tempo ed energie lavorative all’organizzazione ed al coordinamento, nel breve e nel medio periodo, dell’attività giurisdizionale per destinare e spendere le proprie risorse psico-fisiche su di un triplice ed estenuante fronte: da un lato, sul versante delle varie attività interne e preparatorie, finalizzate alla formulazione motivata e documentata ai competenti Uffici centrali, delle richieste di ampliamento dell’organico del personale di segreteria (come previsto dall’art. 6 del Decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 15/2/2005 con cui è stato approvato il nuovo “Regolamento di organizzazione degli uffici amministrativi della giustizia amministrativa”); dall’altro, sul fronte della diuturna ed affannosa ricerca di soluzioni-tampone anche interne per supplire alle cennate cessazioni improvvise dal servizio, congedi ed aspettative per motivi di salute, o comunque per le altre assenza a vario titolo che finiscono per produrre notevoli disservizi di vario genere in una struttura già ridotto all’osso; nonché, infine, sul fronte insidioso della sottile e diuturna ricerca di soluzioni equilibrate ai numerosi problemi sottoposti dal Dirigente e dai Direttori di Segreteria delle varie Sezioni interne in ordine alle pressanti e continue, ancorché legittime, rivendicazioni del personale amministrativo per il puntuale ed inderogabile rispetto delle mansioni secondo le declaratorie dei vari profili professionali così come previste dalla legge e dai contratti collettivi di lavoro del settore.
Ed è probabilmente quest’ultimo il più defatigante dei fronti interni nei quali si è costretti a cercare – attraverso ordini di servizio ed espedienti dettati dal buon senso e dal pragmatismo, ovvero, a volte, dalla fantasia giuridica – di contemperare tali rigide esigenze con quelle egualmente rigide ed inderogabili connesse al superiore interesse pubblico di assicurare comunque la continuità ed il buon andamento del servizio giustizia in favore della collettività, sulla base non soltanto del principio di cui al ricordato art. 97 Cost. (applicabile ovviamente anche all’amministrazione della giustizia) ma anche in adempimento delle specifiche attribuzioni conferite ai Presidenti degli organi di giustizia amministrativa, in materia di organizzazione dei relativi uffici, dal menzionato art. 6 del vigente regolamento di organizzazione adottato il 15/2/2005.
Il che, molto spesso, significa procedere alla impossibile soluzione del problema della “quadratura del cerchio”, ove si tenga conto, fra l’altro, delle notevoli rigidità da cui è contrassegnata la vigente disciplina del rapporto di lavoro privatizzato nelle P.A., che, da un lato, non prevede più espressamente, e non sembra quindi più consentire, l’attribuzione temporanea ed eccezionale di mansioni inferiori ai dipendenti nei casi di necessità dovuti ad assenza o impedimento di altri dipendenti (si veda la nuova disciplina delle mansioni contenute nell’art. 56 del D.lgs n° 29/1993 e s.m.i., ed ora trafusa nell’art. 52 del D.lgs n. 165/2001), ad eccezione di ipotesi limitate di assegnazione, per motivate esigenze, a compiti inferiori esclusivamente marginali rispetto a quelli propri della qualifica e del livello del dipendente (si veda, fra altre, Cass., Sez. lavoro, n. 17774/2006); e, dall’altro, con la stessa normativa ha reso più difficoltosa l’attribuzione di mansioni superiori, peraltro vista con estremo sfavore dalle stesse Amministrazioni per l’aggravio economico che ne deriva. Si vuol dire ed evidenziare, in altri termini, che il Presidente (così come il Dirigente preposto alla gestione amministrativa) resta vincolato, senza alcun margine incisivo di manovra, dagli strettissimi limiti imposti dalla esasperata e spesso illogica frammentazione, prevista dalla normativa di legge e contrattuale, delle attività di lavoro ricomprese nelle varie declaratorie dei profili professionali, e quindi prigioniero del reticolo normativo così creato e che spesso si pone in rotta di collisione con il principio costituzionale del buon andamento e con quello, da esso derivato o in esso insito, dell’efficienza.
Con buona pace, anche qui, dello sbandierato principio di maggiore flessibilità lavorativa (rispetto al vecchio modello di lavoro pubblicistico) che avrebbe dovuto costituire una delle principali connotazioni fisionomiche, ed uno dei principali vantaggi per i cittadini e per le stesse Amministrazioni, della riforma della privatizzazione del pubblico impiego introdotta nel 1993, che sotto questo aspetto, ritengo assolutamente deludente se non fallimentare rispetto a tale sbandierato obiettivo.
 
 
7. L’INSUFFICIENZA DELL’ATTUALE SEDE ISTITUZIONALE DEL T.A.R. SICILIA-CATANIA E LA PERMANENTE PARZIALE DIFFORMITÀ DAGLI “STANDARDS” NORMATIVI DI SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO PRESCRITTI DAL D.LGS N. 626/1994 E SUCCESSIVE MODIFICHE E INTEGRAZIONI.
 
 
Nella Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2007 evidenziavo come la gravissima emergenza dell’apparato amministrativo non era purtroppo la sola da cui risultava afflitta questo Tribunale, perché altre due preoccupanti emergenze, i cui segni premonitori già si erano cominciati a manifestare da qualche anno, nell’ultimo trimestre del 2006 si erano gravemente intensificate, intrecciandosi ed intersecandosi sino a raggiungere i limiti di sicurezza consentiti dalla legge (D.lgs n. 626/1994 e successive modifiche e integrazioni).
Ci si riferiva alla ormai totale insufficienza logistica dell’edificio ed alla sopravvenuta e conseguente difformità parziale dagli “standards” normativi di sicurezza nei luoghi di lavoro verificatasi a seguito di tale insufficienza. Situazioni già entrambe accertate formalmente dal Responsabile del Servizio di protezione e prevenzione del T.A.R. Sicilia-Catania.
 
     Conseguentemente, procedevo all’esposizione degli aspetti più preoccupanti dell’insufficienza dell’attuale sede del T.A.R. Catania, con particolare riferimento ai pericoli derivanti dal sovraccarico dei ricorsi depositati e di tutto l’ulteriore materiale archivistico, e sintetizzavo le pressanti richieste di interventi urgenti reiteratamente rivolte da questa Presidenza al C.P.G.A. ed al Segretariato generale della Giustizia amministrativa, indicando i punti salienti del contenuto del relativo carteggio.
     Successivamente, dopo l’inaugurazione dello scorso anno giudiziario (24.2.2007), l’emergenza più grave – costituita dalla completa saturazione dei locali destinati al deposito del materiale archivistico, dalla sopravvenuta difformità parziale dagli “standards” normativi di sicurezza prescritti dal D.lgs n. 626/1994 e successive modifiche ed integrazioni, e dalla impellente e non più procrastinabile necessità di reperire immediatamente in locazione nuovi e separati locali, adiacenti alla sede del T.A.R., da adibire a deposito – è stata per il momento eliminata ricorrendo alla soluzione alternativa (meno onerosa della locazione di nuovi locali) della stipula con Italarchivi s.r.l. di un “contratto per la custodia di contenitori d’archivio e per servizi di archiviazione”, con durata triennale (dal 1° aprile 2007 al 31 marzo 2010), rinnovabile di anno in anno.
     Tale “esternalizzazione” del servizio di archiviazione dei fascicoli, nei confronti della quale devono essere mantenute le plurime riserve sul piano giuridico più volte formulate agli Uffici centrali della Giustizia amministrativa e già esposte nella Relazione 2007, non risolve certamente gli altri gravi problemi di sicurezza reiteratamente evidenziati né tanto meno il problema di fondo della insufficienza logistica dell’attuale sede del Tribunale e della conseguente necessità di reperirne, in tempi brevi, una nuova e più funzionale: problemi che, purtroppo, continuano a permanere inalterati.
     In ordine alle cennate emergenze sotto il profilo della sicurezza (condizioni di rischio per il notevole flusso di persone, nei giorni di udienza, le quali in caso di pericolo non potrebbero defluire in sicurezza; inefficienza dell’impianto acustico di segnalazione di pericolo per l’evacuazione dello stabile), che continuano a porsi in rilevante contrasto con le tassative prescrizioni del D.lgs 626/1994 e s.m.i., si deve, quindi, tornare a ribadire anche quest’anno la permanenza del pericolo di grave pregiudizio per l’incolumità pubblica e privata derivante dal rilevato “deficit” di sicurezza, declinando ogni possibile responsabilità al riguardo e denunziando contestualmente alla pubblica opinione la situazione di insicurezza in cui versa la struttura.
     Quanto, poi, all’insufficienza logistica dell’attuale sede del Tribunale e della conseguente necessità di reperirne, in tempi brevi, una più rispondente alle esigenze di un organo giurisdizionale con ben quattro Sezioni interne ed una dimensione quantitativa del volume di contenzioso che lo colloca ufficialmente al 3° posto in Italia, si deve rilevare che, nonostante le reiterate e documentate richieste del Presidente e del Dirigente amministrativo, il C.P.G.A., con delibera del 22.3.2007, ha deciso “di non procedere alla locazione di un nuovo immobile da utilizzare come sede del TAR Sicilia, Sezione staccata di Catania, stante l’insufficienza di ragioni obiettive e cogenti”.
 
 
 
8. BREVI CONCLUSIONI
 
 
Dopo tale sommaria rassegna dello stato della Giustizia amministrativa nello scorso 2007 nella circoscrizione giudiziaria della Sicilia orientale, non si può non ribadire ancora una volta che il carico di lavoro cui bisogna far fronte presso questa Sezione staccata rimane imponente e gravosissimo a fronte di un ancora inadeguato organico dei Magistrati e delle gravissime carenze dell’organico del personale di Segreteria, e per di più nel contesto della rilevata duplice e connessa emergenza (per non dire iattura) dell’insufficienza delle strutture immobiliari e della loro conseguente difformità parziale dalla normativa di sicurezza, con grave pericolo per tutti i magistrati e funzionari, per gli avvocati e per tutti i soggetti che debbono frequentare gli attuali locali del T.A.R. Catania.
In tale situazione, è tutt’altro che agevole cercare di contemperare l’esigenza di venire in qualche modo incontro alle pressanti richieste dalle parti volte ad una sollecita trattazione, nel merito, degli affari per i quali esistono obiettive ragioni di urgenza, con quella di osservare i criteri sui carichi di lavoro dei Magistrati fissati nelle deliberazioni adottate al riguardo dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (da ultimo, in data 18 dicembre 2003), e con quella, non meno pressante, di osservare i ristretti termini temporali introdotto per le varie tipologie di controversie “preferenziali” previste dall’art. 23 bis legge T.A.R. inserito dall’art. 4, 1° comma, della L. 205/2000.
Il protrarsi di queste condizioni non agevolerà certamente la riduzione del carico dei ricorsi pendenti in attesa di definizione con sentenza, con grave nocumento per l’ordinato esercizio della giurisdizione amministrativa e per la “ragionevole durata” del processo richiesta dall’art. 111 Costituzione.
Ovviamente, in materia di procedimenti cautelari e sommari non si registra alcuna pendenza o ritardo significativi nell’erogazione della tutela, posto che, per l’urgenza che li caratterizza, la loro integrale definizione in tempi rapidi costituisce una variabile indipendente dai cennati fattori di ritardo della definizione dei ricorsi del merito. Come già osservavo nella Relazione letta all’inaugurazione degli anni giudiziari 2005, 2006 e 2007, devo nuovamente ribadire che tutti i T.A.R. (ed in genere tutti gli organi giurisdizionali), e quindi anche il T.A.R. Catania, sono attrezzati per fronteggiare, anche se con pesantissimi sacrifici in termini di risorse temporali e psicofisiche, le emergenze giurisdizionali, probabilmente allo stesso modo in cui i reparti ospedalieri di pronto soccorso e chirurgia d’urgenza affrontano le emergenze sanitarie. Mancano purtroppo, per restare nel paragone, le risorse umane necessarie per apprestare rapidamente le cure specifiche e definitive, ad eccezione ovviamente – anche qui con pesanti sacrifici – dei processi con rito speciale abbreviato di cui al menzionato art. 23 bis legge T.A.R., e degli altri vari tipi di processi accelerati previsti dalla legge n. 205/2000.
Nella descritta situazione, non resta che formulare ancora una volta l’auspicio, che è anche una pressante richiesta, affinché gli Organi Legislativi e di Governo rivolgano una maggiore attenzione ai problemi di questo settore della giustizia, onde far sì che possa concretamente realizzarsi anche nel giudizio amministrativo il principio, ora espressamente enunciato in Costituzione (art. 111), della “ragionevole durata” del processo, nella consapevolezza che ritardare la risposta di giustizia dello Stato equivale, molto spesso, a denegarla.
Ma tale valore, che è componente essenziale del “giusto processo” delineato nel predetto art. 111 della nostra Carta fondamentale, non si può certamente perseguire ed ottenere soltanto con l’abnegazione e la tensione morale ed ideale dalle quali deve essere permeata o connotata l’attività giurisdizionale dei magistrati, ovvio essendo, invece, che la “ragionevole durata” del processo e quindi del tempo entro il quale deve essere resa giustizia a chi la chiede allo Stato, può costituire l’effetto ed il risultato “virtuoso” conseguente alla predisposizione, in termini egualmente ragionevoli, dei necessari interventi legislativi specifici (così come previsto del resto dallo stesso art. 111 della Costituzione), e conseguente altresì alla loro concreta attuazione con le necessarie misure amministrative, che non possono non prevedere e disporre una attribuzione ed una distribuzione territoriale razionali, ai vari organi giurisdizionali, delle risorse umane e materiali indispensabili per il raggiungimento (sia pure parziale e graduale) dell’obiettivo.
E tanto più ciò deve valere per un territorio come la Sicilia caratterizzata ancora, purtroppo, da alti indici di criminalità mafiosa che estende i propri illeciti interessi verso molteplici settori dell’attività amministrativa di notevole rilevanza economica (quali, soprattutto, gli appalti di opere pubbliche e di lavori, ma anche quelli di forniture e servizi, gli interventi ambientali, fra i quali la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, ecc.).
Non può e non deve sfuggire ad alcuno, infatti, che, al fine di contrastare l’espansione e la forza intimidatrice di tutte le forme di criminalità organizzata (e segnatamente di quella mafiosa), la risposta complessiva di giustizia dello Stato deve essere rapida ed effettiva non soltanto sul piano della repressione penale, bensì anche su quello preventivo della eliminazione, da parte del Giudice amministrativo, delle molteplici illegittimità amministrative “consumate” dalle P.A.; illegittimità che oggettivamente possono favorire operatori economici in vario modo appartenenti o legati ai poteri del crimine organizzato. Nella misura in cui lo Stato riuscirà a rendere più rapida ed incisiva la risposta giudiziaria, predisponendo ed assegnando le necessarie risorse umane, materiali e finanziarie, nella stessa misura riuscirà a contrastare la forza, il perverso “prestigio” e la capacità attrattiva di cui sono dotati i poteri dell’”antiStato”, contribuendo così ad alimentare un virtuoso circuito di fiducia dei cittadini, e soprattutto degli imprenditori onesti, nell’efficienza della giustizia e nei valori di legalità propri di uno Stato democratico e di diritto.
Altrimenti, se non si creeranno in tempi ragionevolmente brevi – e non già storici o biblici – i cennati presupposti ordinamentali e strutturali, anche il principio della “ragionevole durata” del tempo occorrente per ottenere definitiva ed effettiva giustizia sarà destinato a rimanere nei confini o nel limbo delle mere enunciazioni programmatiche e delle relative inadempienze costituzionali, di cui purtroppo è ricca la storia delle nostre istituzioni.
E ci si dovrà fatalisticamente rassegnare, anche per tale emergenza sociale, all’idea che i problemi in Italia non si risolvono mai nettamente e definitivamente, e restano soltanto a marcire nel tempo in “transizioni” politiche e giuridiche perennemente incompiute ed indefinite.
In attesa di tali eventi, o in attesa dell’avvento di tale nuova era (se mai ci sarà) di vere ed organiche riforme di tutto il sistema giustizia del nostro Paese, non credo che quello che attraversiamo sia il tempo, per i magistrati, delle autocelebrazioni di facciata, ma soltanto il tempo di perseverare nella denunzia dei mali, nuovi ed antichi, dell’amministrazione della giustizia, formulando le proposte di soluzioni idonee ed eliminarli ed attenuarli, e di continuare ad assolvere con sempre maggiore impegno, “sine spe et sine metu”, alla propria missione laica, vale a dire al proprio dovere istituzionale di rendere giustizia quale ultimo ed estremo baluardo a presidio della legalità, nella incessante lotta per l’affermazione del diritto e per la difesa dei valori costituzionali, in assoluta distinzione e distanza dagli altri poteri dello Stato. Ma è anche il tempo di chiedersi se le Relazioni inaugurali degli anni giudiziari servono ancora e veramente a qualcosa, dato che esse, ove non raggiungano, almeno in minima parte, la loro finalità essenziale di stimolo per tutti i responsabili dei pubblici poteri e di promozione reale del miglioramento del servizio giustizia (come di anno in anno si è costretti purtroppo a constatare), restano svuotate di ogni significato concreto al di fuori di quello effimero legato al valore di mera testimonianza e di mero rendiconto alla pubblica opinione nell’ambito di uno stanco e ripetitivo rituale.
Con queste amare riflessioni, e con l’auspicio (probabilmente, e realisticamente, vano) di non dovere delineare anche l’anno prossimo, con parole pressoché inutili nella misura in cui restano inascoltate da chi dovrebbe recepirle, lo stesso ritratto impietoso sia dello stato di emergenza continua in cui versa l’apparato amministrativo di questo Tribunale che della situazione di pericolo per l’incolumità delle persone in cui versa la sua sede istituzionale, mi accingo a dichiarare aperto, a conclusione del dibattito che seguirà, l’anno giudiziario 2008 del T.A.R. Sicilia-Catania.
 

relazione

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento