Dat: contesto alla nascita e prospettive di intervento

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La novella legislativa rappresentata dalla Legge del 22 Dicembre 2017, n. 219, all’art. 4 colma un vuoto legislativo inerente alle modalità di manifestazione delle volontà, quindi dell’esercizio del diritto all’autodeterminazione personale in ambito medico-sanitario della persona, relative ad interventi di natura sanitaria che dovessero rivelarsi opportuni o necessari riguardo alla sua futura condizione clinica e di salute, ove essa non sia in grado di esprimere consapevolmente ed in forma attuale la propria volontà in merito.

Per dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) – termine che nella letteratura bioetica nazionale e internazionale, viene per lo più indicato con l’espressione inglese living will, variamente tradotta con differenti espressioni quali testamento biologico, testamento di vita, direttive anticipate, volontà previe di trattamento ecc. – deve intendersi un “documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato[1]. Ci si riferisce quindi a quelle disposizioni temporalmente efficaci che una persona in grado di intendere e di volere redige al fine di indicare i trattamenti sanitari ai quali intende o no sottoporsi nell’ipotesi di malattia grave o terminale, qualora non sia più in grado di intendere o volere o anche si trovi in stato neurovegetativo persistente, nominando all’uopo un fiduciario o curatore dei suoi interessi.

Contesto giurisprudenziale

Emblematica, circa la necessità di un intervento normativo positivo, è una pronuncia della Corte d’assise d’appello di Milano[2] che dovette giudicare il fatto verificatosi il 21 giugno 1998, quando un ingegnere, E. F., si introdusse all’interno del reparto di Rianimazione dell’ospedale nuovo San Gerardo di Monza, ove si trovava ricoverata la moglie, E.M. in coma irreversibile. L’imputato minacciò il personale medico e paramedico con una pistola, poi risultata scarica, e staccò la spina del respiratore che la teneva in vita.

In primo grado, il 20 Giugno 2000 l’imputato fu condannato dalla Corte d’assise di Monza a sei anni e sei mesi di reclusione per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e dall’essere stato commesso contro il coniuge, violenza privata aggravata dall’uso delle armi oltre che per porto illegale di pistola, sottolineando che per tutti i reati gli era stata concessa l’attenuante di cui all’art. 62, n. 1, c.p. (confermata in appello) per aver agito quindi per motivi di particolare valore morale e sociale. Ma, in secondo grado, la Corte d’Assise d’appello riformò la Sentenza di primo grado considerando la possibilità che la donna fosse già clinicamente morta al momento del suo intervento. Si legge nella Sentenza del giudice di secondo grado che:”secondo la corte, sulla base del conclamato difetto assoluto per la paziente dell’attitudine a rimanere «vitale», alla luce di tutte le acquisizioni documentali e testimoniali cui si è fatto riferimento fin qui, quale risposta si deve dare al primo dei quesiti mossi con i motivi di appello, che si può riassumere nell’interrogativo: si può escludere come irragionevole o irrealistica l’ipotesi che la signora M. fosse addirittura morta nel lasso di tempo tra l’ultimo monitoraggio ed il momento dell’estubazione, in presenza di plurime ed accertate cause addirittura di morte naturale «repentina o improvvisa»? La risposta è sicuramente no”. La Corte affermò di aver tenuto presente “in perfetta aderenza alle norme dell’ordinamento vigente, il principio dell’intangibilità della vita umana” e di aver limitato la sua valutazione alla sussistenza o meno della responsabilità penale dell’imputato. A tal fine, e nell’ambito dell’esame relativo al nesso di causalità tra condotta ed evento, la Corte si chiese se vi fosse la prova dell’esistenza in vita della donna al momento dei fatti. La risposta elaborata dal Collegio fu quindi, come detto, negativa, poiché si ritenne che potesse essere già sopraggiunta la morte cerebrale. La Corte, citando la disciplina dei trapianti, operò una distinzione tra arresto cardiocircolatorio e morte cerebrale ed affermò la possibilità che quest’ultima, benché sopravvenuta, potesse non evidenziarsi immediatamente. Nella sede penale, l’esistenza di un dubbio fu valutata in favore dell’imputato. La Corte concluse affermando che il punto decisivo che si è dovuto accertare è se sia stato provato – oltre ogni ragionevole dubbio – che la paziente fosse in vita al momento dell’atto di estubazione compiuto dall’imputato – presupposto indispensabile per la sussistenza del delitto di omicidio volontario – e quindi, se la condotta attribuita al F. sia stata la causa determinante della morte. Si è, dunque, in presenza di un reato impossibile per inesistenza dell’oggetto dell’azione criminosa e, in particolare, di un omicidio impossibile per insufficienza della prova dell’esistenza in vita della persona che l’imputato avrebbe inteso sopprimere. Potrebbe sembrare che ci siamo distaccati dal tema di cui abbiamo scelto di occuparci muovendo il caso descritto poi discussioni in tema di eutanasia piuttosto che di testamento biologico, ma possiamo certamente affermare che, se la vicenda si fosse verificata più recentemente, il marito non avrebbe avuto alcun motivo di compiere azioni di forza e così eclatanti, potendo chiedere di essere nominato tutore della moglie. Una volta ottenuta la tutela, la situazione sarebbe rientrata nelle previsioni dell’art. 3 della L. n. 219/2017 e, solo in caso di dissenso del medico, si determinerebbe la necessità di ricorrere al giudice tutelare. Al di fuori di tale ipotesi, il tutore (a differenza dell’amministratore di sostegno che si affianca al beneficiario)[3] risulterebbe la persona avente titolo per ricevere le necessarie informazioni ed esprimere consenso o dissenso per le cure. Il tutto, sicuro, sempre in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all’art. 4.

Ulteriore vicenda umana e giudiziaria che portò all’attenzione dell’opinione pubblica la questione del fine vita ebbe origine dalla tragedia che colpì la giovane studentessa E. E. La ventunenne, il 18 Gennaio 1992, a causa del fondo stradale gelato, perse il controllo della sua autovettura, finendo contro un palo della luce e poi contro un muro, riportando lesioni cerebrali gravissime. Uscì dal coma dopo alcuni mesi, ma non riprese coscienza, restando in uno stato vegetativo, che fu, sin da allora, giudicato irreversibile. I familiari, resisi conto di ciò, chiesero la sospensione dei trattamenti sanitari che la tenevano in vita, affermando che in tal modo sarebbe stata rispettata la volontà della ragazza, che aveva precedentemente manifestato la sua opposizione all’accanimento terapeutico. Il padre della ragazza, B.E., iniziò a proporre ricorsi giudiziari, invocando, tra gli altri, l’art. 32 Cost. Il Tribunale di Lecco, con Decreto del 2 marzo 1999, dichiarò inammissibile la sua richiesta di essere autorizzato ad esprimere, per conto della figlia, il consenso per l’interruzione dell’alimentazione artificiale. Il Tribunale affermò che “l’art. 2 della Costituzione tutela il diritto alla vita come primo fra tutti i diritti inviolabili dell’uomo, la cui dignità attinge dal valore assoluto della persona e prescinde dalle condizioni anche disperate in cui esplica la sua esistenza” e che, come si desume dall’art. 579 c.p., tale diritto è indisponibile anche per il suo titolare[4]. Successivamente rileva la decisione della Corte d’appello di Milano del 31 Dicembre 1999, con la quale fu rigettato il reclamo presentato avverso il precedente Decreto. Il Collegio sostenne che la domanda del ricorrente non poteva essere accolta perché il dibattito in ambito medico e giuridico in ordine alla qualificazione del trattamento somministrato alla paziente, E. E., era ancora aperto e non era giunto a conclusioni definitive. Un nuovo ricorso fu presentato il 21 Giugno 2002 al Tribunale di Lecco, anch’esso rigettato con motivazioni analoghe alle precedenti. Nel Decreto conclusivo si legge: “Il Collegio inferisce, dall’insieme delle surrichiamate disposizioni di legge, un principio basilare di salvaguardia della vita umana in ogni sua forma e stato, che cozza con la possibilità di demandare ad altro soggetto ogni possibilità di scelta in ordine al mantenimento in vita. In altre parole, quando l’ordinamento si muove nel senso della repressione dell’agevolazione di altri a provocarsi la morte, sottende con evidenza una totale difesa della vita umana, che non concede spazio alla legittimità di contegni che, di fatto, portano alle medesime conseguenze. Nel concreto, autorizzare il tutore a far cessare ogni forma di alimentazione artificiale all’interdetta significa consentire ad un soggetto diverso dalla diretta interessata di provocarne la morte. Come detto, simili comportamenti non trovano, allo stato della legislazione, adeguato fondamento giuridico[5]. Anche in questo caso la decisione venne impugnata e la Corte di appello di Milano, nuovamente investita della questione, rigettò il reclamo presentato dal tutore sulla base dell’importanza e della delicatezza della questione. Il Collegio auspicava comunque che il legislatore – sollecitando  già quindi un intervento di questo – individuasse e predisponesse gli strumenti adeguati per l’efficace protezione della persona e il rispetto del suo diritto di autodeterminazione, prevedendo una verifica rigorosa da parte dell’Autorità giudiziaria della sussistenza di manifestazioni di direttive anticipate. L’intervento legislativo potrebbe evitare strumentalizzazioni e sofferenze oltre che contribuirebbe alla responsabilizzazione della collettività. Nel testo dell’ultimo provvedimento detto troviamo: “Questa Corte – a differenza delle Corti tedesche, inglesi, americane che hanno deciso casi riguardanti pazienti in SVP – è perplessa sull’opportunità-legittimità di un’interpretazione integrativa, che sarebbe praeter legem, non già contra legem. È pure perplessa in ordine al possibile espletamento di attività sostanzialmente paranormativa, considerati i dilemmi giuridici, medici, filosofici, etici che si avvertono nel dibattiti della società civile e nelle relazioni dei comitati e delle commissioni investite della tematica. Avverte peraltro che la mancanza di regole lede diritti ed interessi che corrispondono a valori costituzionalmente garantiti (artt. 2, 3, 13, 32 Cost.) ed è di ostacolo anche alla soluzione di problemi pratici. Considerata l’importanza e la delicatezza della questione, auspica il Collegio che il legislatore ordinario individui e predisponga gli strumenti adeguati per l’efficace protezione della persona ed il rispetto del suo diritto di autodeterminazione, prevedendo una verifica rigorosa da parte dell’autorità giudiziaria della sussistenza di manifestazioni di direttive anticipate. L’intervento legislativo potrebbe evitare strumentalizzazioni e sofferenze e contribuirebbe alla responsabilizzazione della collettività”.

Il padre della ragazza, che rivestiva dunque anche la qualità di tutore, perseverò nel suo intento, e presentò ricorso in Cassazione: La Corte dichiarò il ricorso inammissibile poiché, in applicazione dell’art. 78 c.p.c., era necessaria la nomina di un curatore speciale, quale necessario contradditore del tutore[6]. Ulteriori tappe del percorso giudiziario furono costituite dal rigetto, da parte del Tribunale di Lecco, del ricorso, proposto questa volta congiuntamente da tutore e curatore speciale[7] e dal rigetto, da parte della Corte d’appello di Milano, la quale, entrando nel merito della questione, sostenne che il bilanciamento tra il bene della vita e quello della dignità e dell’autodeterminazione della persona doveva risolversi in favore del primo[8]. Solo con la sentenza n. 21748 del 16 Ottobre 2007 (oltre quindici anni dopo!) la Corte di Cassazione invertì il trend di rigetti, sostanziali o formali, della richiesta. La Corte dichiarò che la possibilità di rifiutare le terapie è conforme al principio personalistico che anima la Costituzione e, per questa strada, giunse ad escludere che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio della vita. In questa occasione gli Ermellini hanno deciso che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzarne l’interruzione soltanto in presenza di due circostanze concorrenti: a) la condizione di stato vegetativo del paziente sia apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione; b) sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, deve essere negata l’autorizzazione, perché allora va data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa. Così i giudici di Piazza Cavour cassarono il decreto impugnato e rinviarono la causa a diversa Sezione della Corte d’’appello di Milano che, in applicazione del principio di diritto dettato dalla Corte di Cassazione, accolse il reclamo proposto dal tutore di E. E., cui aveva aderito anche il curatore speciale, e per l’effetto, in riforma del Decreto n. 727/2005 emesso dal Tribunale di Lecco in data 20 Dicembre 2005 e depositato in data 2 Febbraio 2006, accoglie l’istanza – conformemente proposta da entrambi i legali rappresentati di E. E. – di autorizzazione a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale della paziente, realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico. In definitiva, sul ricorso proposto dalla Procura generale presso la Corte d’appello di Milano, le Sezioni Unite del Supremo Collegio dichiaravano il ricorso inammissibile.

La sentenza n. 21748/2007 può dirsi anticipatrice dell’attuale legge, che dà attuazione al medesimo principio; secondo la Corte, il diritto del singolo alla salute, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire.

Certamente il nuovo intervento legislativo è poi da considerarsi benvenuto anche alla luce della recente Sentenza n. 262/2016 della Corte Costituzionale tramite la quale si era già chiarito che “data la sua incidenza su aspetti essenziali della identità e della integrità della persona, una normativa in tema di disposizioni di volontà relative ai trattamenti sanitari nella fase terminale della vita – al pari di quella che regola la donazione di organi e tessuti – necessita di uniformità di trattamento sul territorio nazionale, per ragioni imperative di eguaglianza, ratio ultima della riserva allo Stato della competenza legislativa esclusiva in materia di «ordinamento civile», disposta dalla Costituzione. Il legislatore nazionale è, nei fatti, già intervenuto a disciplinare la donazione di tessuti e organi, con legge 1 aprile 1999, n. 91 (Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti), mentre, in relazione alle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario, i dibattiti parlamentari in corso non hanno ancora sortito esiti condivisi e non si sono tradotti in una specifica legislazione nazionale”, ed ancora prima, con la Ordinanza n. 334/2008, sempre lo stesso giudice delle leggi aveva specificato che “il Parlamento può in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti”.

Analisi della Legge n. 219/2017

In tale contesto dottrinale, giurisprudenziale, legislativo si inserisce dunque l’art. 4, L. n. 219/2017, il quale prevede espressamente al comma 1 che “Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di  volere,  in previsione di un’eventuale futura incapacità di  autodeterminarsi  e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle  conseguenze delle sue scelte, può,  attraverso  le  DAT,  esprimere  le  proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche  e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona  di  sua fiducia, di seguito denominata «fiduciario», che ne faccia le veci  e la rappresenti nelle relazioni con  il  medico  e  con  le  strutture sanitarie”.

Piuttosto che per il consenso, appare più verosimile che le DAT vengano redatte per disporre un rifiuto agli accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, considerando che di regola “dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza discriminazioni di età, di sesso, di razza, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace come in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera. La salute è intesa nell’accezione più ampia del termine, come condizione cioè di benessere fisico e psichico della persona[9], oltre che avendo riguardo delle casistiche passate che richiedevano, ormai necessariamente, un intervento legislativo.

Ci si chiede intanto se tale manifestazione di volontà abbia natura di negozio giuridico unilaterale ovvero di dichiarazione di scienza comunque destinati ad operare nei rapporti personalissimi (consenso o rifiuto a pratiche diagnostiche, terapeutiche e trattamenti sanitari) essendo pacifico che si tratti di dichiarazione in quanto è un atto giuridico lecito e diretto a comunicare ad altri le proprie volontà. Non pare proprio comunque potersi sostenere la natura di dichiarazione di scienza delle DAT in ragione del fatto che queste attengono ad una dimensione temporale passata della quale si prende atto e si dichiara espressamente di esserne a conoscenza, al contrario le DAT presuppongono una previsione futura da parte del disponente. Si potrebbe dunque ritenere che abbiano natura di negozio giuridico unilaterale con riferimento alla dichiarazione con la quale viene espressa una vera e propria volontà di regolare in un certo modo i propri interessi, identificabili nel trattamento sanitario prescelto. Ciò anche considerando la atipicità e disomogeneità proprie dei negozi unilaterali all’interno del nostro Ordinamento. In conclusione è preferibile ritenere le dichiarazioni anticipate di trattamento atto negoziale a contenuto non patrimoniale, sempre considerando la complessità degli effetti che si vanno a formare, tra cui quelli voluti (il trattamento sanitario o il rifiuto di questo) e quelli non direttamente voluti (l’esenzione di responsabilità del medico) e che hanno la loro fonte nella legge ma che fanno parte della complessità dell’atto.

Prima di entrare nel merito della previsione dell’art. 4, merita poi un approfondimento la fattispecie richiamata dall’art. 3, comma 5, della Legge in commento. Mediante tale previsione, il legislatore tende a delineare intanto il caso in cui ci si trovi di fronte a minori o ad incapaci che non abbiano redatto dunque disposizioni anticipate di trattamento prima che siano stati dichiarati tali, in quanto l’art. 4 richiede, come presupposti di esse, la maggiore età e la capacità di intendere e volere. Qualora esistano DAT, l’art. 3, comma 5, non si applica ma potrà applicarsi, ricorrendone i presupposti, la disposizione di cui all’art. 4, comma 5. In assenza di DAT, la norma disciplina il conflitto tra rappresentante dell’incapace e medico, qualora il primo rifiuti le cure proposte e ritenute invece appropriate e necessarie dal secondo.

Mentre in caso di soggetto capace o di DAT il medico è tenuto al rispetto della volontà espressa, come stabilito dal comma 6 dell’art. 1 e salvo quanto previsto dall’art. 4 comma 5, qualora il paziente non sia capace e sia pertanto rappresentato senza che abbia precedentemente espresso volontà tramite DAT, si determina una situazione che, benché inizialmente descritta dalla norma come situazione di stallo, si può risolvere ricorrendo al giudice tutelare. La norma indica, quali soggetti legittimati a ricorrere, il rappresentante dell’incapace, il medico, il rappresentante della struttura sanitaria e tutti i soggetti di cui agli artt. 406 ss. c.c., vale a dire il coniuge, il convivente, i parenti entro il quarto grado, gli affini entro il secondo ed il pubblico ministero. Sulla base della lettera della legge, visto il riferimento all’art. 406 c.c., si deve ritenere poi che anche il paziente incapace o minorenne possa richiedere l’intervento del giudice: il primo maggiorenne, considerato l’ambito di cui trattasi, pare inverosimile possa ricorrere.

Venendo ora a quanto più da vicino ci riguarda, l’art. 4 L. 219 del 22 Dicembre 2017 pone già inizialmente due presupposti che devono necessariamente concorrere perché la redazione delle DAT sia valida: la maggiore età e la capacità di intendere e di volere. In assenza, anche di uno solo di detti presupposti – come si diceva anche prima – non possono essere espresse dichiarazioni anticipate.

Le DAT vengono redatte quindi in previsione di una possibile futura incapacità di autodeterminarsi da parte di una persona maggiorenne e capace di intendere e volere.

La norma poi prevede che le proprie volontà siano espresse (rectius redatte le DAT) dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche. In merito a ciò, innanzitutto, non può tuttavia ritenersi che, in assenza di queste ultime, le disposizioni siano annullabili, non essendo ciò espressamente previsto ma, a parere di chi scrive, laddove si fosse in presenza di disposizioni redatte solo da una persona “comune” senza che questa abbia acquisito adeguate informazioni mediche, il sanitario che ritenesse di voler invece intervenire (si pensi al caso di obiettore di coscienza) potrebbe certamente avere maggiori argomenti a proprio favore per dimostrare l’incongruenza o la non corrispondenza alle condizioni cliniche attuali del paziente delle DAT ovvero che sussistono delle terapie non prevedibili (prevedibili appunto per chi?) all’atto della formazione delle stesse, e così disattendere le DAT, magari anche “influenzando” il fiduciario (peraltro figura eventuale come vedremo meglio a breve) per avere il suo assenso qualora questo non fosse neanche preparato in materia medica. Per quanto possa credersi inverosimile la fattispecie appena descritta, nei fatti, le DAT possono essere redatte dal cittadino senza alcuna assistenza, ma può essere opportuna la collaborazione di un legale, così come per esse può giovare l’aiuto di un medico, per assicurare che siano chiare e comprensibili e non diano luogo a problemi di interpretazione[10]. Si noti poi che, come dispone il secondo comma dell’art. 4, il fiduciario basta che sia “una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere” (come il dichiarante): a parere di questo Autore, forse, sarebbe stato più adeguato da parte del legislatore, e si auspica un intervento futuro in tal senso, prevedere ulteriori requisiti necessari per ricoprire tale ruolo o quantomeno prestare maggiore precisione e rigore a quella basilare attività prodromica alla formazione delle DAT; ciò non avrebbe certamente compresso la libertà del soggetto dichiarante. Se le chiare finalità del requisito dell’adeguatezza delle informazioni mediche – ricordiamo neanche necessario – possono certamente essere condivise, critiche possono altrettanto essere sollevate in relazione alle concrete modalità di svolgimento di tale fase precedente alla redazione delle DAT, considerando che il testo non precisa né le modalità, né i soggetti responsabili di fornire tali informazioni. La mancanza poi di un formale riferimento alla figura del fiduciario è certamente criticabile considerando la centralità che la stessa deve avere in ragione delle importanti funzioni (meglio precisate dopo) che è chiamata a svolgere.

La nomina della persona di fiducia è inoltre eventuale visto il tenore del comma 4: ”Nel caso in cui le DAT non contengano l’indicazione del fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace, le DAT mantengono efficacia in merito alle volontà del disponente” ed è alternativa rispetto alla nomina di un amministratore di sostegno dato il secondo periodo dello stesso comma appena detto[11]. Non è previsto, tuttavia, che la nomina dell’amministratore possa essere effettuata d’ufficio. Essa potrà essere chiesta dai soggetti indicati dall’art. 406 c.c. (coniuge, convivente, parenti entro il quarto grado, affini entro il secondo e pubblico ministero). L’articolo citato prevede anche che la nomina possa avvenire a seguito di istanza dell’interessato, ma nel caso di specie, questa possibilità non è attuale, considerato che la situazione di partenza prevede la sua incapacità di volontà ed espressione. Resta, di conseguenza, da analizzare come verrà in futuro regolato il caso in cui il fiduciario manchi, il medico non possa avere quindi il suo assenso e si trovi in un caso di cui all’art. 4, comma 5 (DAT apparentemente palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili alla sottoscrizione). Il sommesso parere di questo Autore è che lo stesso sanitario possa procedere con i trattamenti che riterrà opportuni, senza acquisire alcun accordo, e non potendo – non essendo legittimato – ricorrere (direttamente, anche se potrebbe riferirsi, in assenza di altri, al P.M.) al giudice tutelare affinché questo nomini un amministratore di sostegno.

Le funzioni del fiduciario sono indicate dai commi 1 e 5 dell’art. 4. Il comma 1 afferma che egli è chiamato a “fare le veci” del disponente ed a rappresentarlo nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie. Il comma 5 prevede che egli possa fornire al medico il consenso per disattendere le DAT, nel concorso di particolari circostanze e gli attribuisce la facoltà di ricorrere al giudice tutelare in caso di conflitto con il medico. Da tale quadro di precetti normativi si desume che il contenuto dei poteri del fiduciario principalmente consiste nel richiamare la volontà del disponente ed assicurarsi che essa venga rispettata. La figura del fiduciario non è assolutamente sovrapponibile a quella dello stesso dichiarante e non sono ad essa attribuibili i medesimi poteri. Il fiduciario è infatti vincolato al contenuto della “delega” stessa. Il fiduciario non deve esprimere o negare il consenso alle cure, perché consenso e rifiuto saranno contenuti di regola nelle DAT. Il problema si pone in caso di disposizioni anticipate di trattamento incerte o lacunose. In tal caso, ragionando sulla base della frase di cui al comma 1 (“lo rappresenta nella relazione con il medico”), si può ritenere che la parola del fiduciario, interpretativa e non arbitraria, vincoli il medico ed impedisca l’applicazione del trattamento proposto, con la differenza che il medico non è tenuto senz’altro a rispettarla, come avverrebbe se fosse direttamente pronunciata dal paziente, ma può ricorrere al giudice tutelare rimettendo la decisione allo stesso.

Altra questione riguarda la possibilità, per il disponente, di rilasciare una delega in bianco al fiduciario. La stessa pratica deve essere negata poiché, ai sensi dell’art. 4, il mezzo per l’espressione delle volontà del disponente sono le DAT e non la nomina del fiduciario. Non vi sono invece ragioni per negare che, una volta manifestate le sue disposizioni, il paziente possa rafforzare la delega al fiduciario attribuendogli la facoltà di tradurle in consenso o rifiuto di cure in casi analoghi a quelli espressamente previsti o non chiaramente definiti al momento della sottoscrizione. Ferma restando la legittimazione del medico di ricorrere al giudice tutelare.

Come si è detto, il successivo comma 5 autonomamente indica i casi in cui il fiduciario può concorrere nel disattendere le disposizioni del disponente: le DAT possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico, qualora appaiono incongrue o non corrispondenti alla condizioni clinica del paziente o sussistano terapie prima non prevedibili. Le prime due cause di disattendibilità (palese incongruità o non corrispondenza delle DAT alla situazione clinica) si fondano su di una valutazione medica che può evidenziare o una insufficiente attività di informazione del disponente nel momento di formazione della volontà da lui espressa, ovvero effettivamente una difformità della fattispecie concreta sottoposta all’attenzione del medico rispetto a quanto compiutamente disposto. La terza riguarda il caso di terapie nuove, che possono essere tali per tutti o possono esserlo relativamente alle informazioni assunte dal disponente e, quindi, riguardino DAT datate e superate. In quest’ultima situazione il giudizio del giudice (che sia stato investito da una delle parti per la soluzione del contrasto) si baserà maggiormente, rispetto alle due precedenti, su elementi di fatto, vale a dire sulle circostanze che siano state scoperte nuove cure e che effettivamente il disponente non ne fosse a conoscenza. Le nuove terapie possono essere ritenute dirette alla risoluzione totale della patologia, e portare quindi alla guarigione del paziente, o possono anche riguardare un miglioramento nelle condizioni di vita del paziente.

La nomina deve essere accettata e l’accettazione può essere contestuale o differita, per come si desume dal fatto che è previsto dalla stessa norma che “avviene attraverso la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo, che è allegato alle DAT”. La norma non pone un termine alla possibilità di accettazione, che, pertanto, può avvenire anche dopo una eventuale perdita di capacità di colui che la effettua.

Alla luce però del fatto che, per come disposto dal successivo comma 6, le DAT devono avere la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata ovvero della scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del suo stesso comune di residenza, deve comunque rilevarsi come, ove l’accettazione sia contestuale, nell’ipotesi in cui le DAT redatte per atto pubblico o con scrittura privata autenticata, non vi è questione di dubitare sulla veridicità di queste, poiché l’autenticazione della firma non si limiterà alla firma del disponente, ma interesserà anche la firma del fiduciario, apposta per accettazione. Ove invece le DAT siano state consegnate personalmente dal disponente all’ufficio dello stato civile e quest’ultimo abbia proceduto ad accertare l’identità solo del disponente, in quanto presentatore, e non abbia autenticato la firma del fiduciario, l’accettazione dello stesso potrà presumersi e risulterà confermata al momento dell’effettivo esercizio delle funzioni ovvero smentita nello stesso momento in cui questo avrebbe dovuto compiere le funzioni di questa figura. Alla luce del comma 2 però l’accettazione della nomina da parte del fiduciario potrebbe avvenire anche attraverso atto successivo ed allegato alle DAT. Ma successivo anche alla consegna da parte del disponente presso l’Ufficio di stato civile? Non vale a risolvere il problema neanche la recentissima Circolare del Ministero dell’Interno n. 1 dell’8 Febbraio 2018, la quale non prende in considerazione la figura del fiduciario, oppure potrebbe considerarsi tale omissione una scelta e quindi ammettere che l’accettazione debba necessariamente avvenire prima della consegna da parte del dichiarante. Sarebbe opportuno magari prevedere che il disponente consegni le DAT già corredate della sottoscrizione per accettazione da parte del fiduciario e che quest’ultimo si rechi con il primo presso l’Ufficio comunale, così da poter essere autenticata anche la sua firma di modo che sia attestata la effettiva presa di responsabilità da parte di questa figura che deve essere comunque reperibile in futuro.

L’Ufficio di stato civile provvede all’annotazione in apposito registro: la legge, per come chiarito anche nella Circolare appena detta, non istituisce un nuovo registro dello stato civile e, di conseguenza, l’Ufficio, una volta ricevuta la DAT, si limiterà, ove non lo avesse costituito, a registrarlo in un ordinato elenco cronologico delle dichiarazioni presentate assicurando la conservazione e la riservatezza. Per completezza, è opportuno dire che le dichiarazioni possono essere consegnate anche presso le strutture sanitarie, qualora ricorrano i presupposti di cui al comma 7: le regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili. Dato l’arretrato stato di avanzamento di alcune regioni circa l’adozione delle modalità telematiche di gestione della cartella clinica o del FSN si comprende bene l’efficacia i questa previsione. La Legge non prevede la istituzione di una banca dati nazionale, invece particolarmente utile nei casi di “turismo sanitario” interregionale (molto diffuso). La lacuna è stata colmata con la Legge di bilancio 2018 (L. n. 205/2017, art. 1, comma 418), ove si è prevista la istituzione, presso il Ministero della Salute, di una banca dati destinata alla registrazione delle DAT e le cui modalità di registrazione dovranno essere stabilite con apposito Decreto ministeriale.

Un ulteriore elemento di flessibilizzazione rispetto alle prime due forme previste (atto pubblico e scrittura privata autenticata) che possono rappresentare un aggravio procedurale, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare, poi depositati presso gli appositi registri, ove istituiti. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento. Nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT con le forme previste dai periodi precedenti, queste possono essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni.

[1] In termini generali, Comitato Nazionale per la Bioetica nel parere dato a Roma il 18 Dicembre 2003, pag. 2.

[2] Sentenza del 24 Aprile 2002.

[3] Per una attenta disamina sul punto si veda Tribunale, Vercelli, Sez. civile, Sentenza 31 Ottobre 2014 n. 142.

[4] Trib. Lecco, Decreto 2 marzo 1999.

[5] Trib. Lecco, Decreto 15-20 luglio 2002.

[6] Cass., sez. I, Ord. n. 8291 del 20 aprile 2005.

[7] Decreto 20 Dicembre 2005.

[8] Decreto 16 Dicembre 2006.

[9] Art. 3 Codice di deontologia medica.

[10] B. De Filippis, Biotestamento e fine vita, Cedam, 2018, pag. 121.

[11] Sui poteri di questo in tale ambito, assume particolare rilevanza la recente Sentenza n. 14158/2017 della Sez. I della Corte di Cassazione, nonché la Sentenza n. 23707/2012 dello stesso Supremo Consesso.

Dott. Cavaliere Armando

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