Compenso avvocati, stagione di riforme: dall’equo compenso ai minimi inderogabili

Redazione 21/05/18
Scarica PDF Stampa

L’introduzione dell’equo compenso con l’art. 13-bis 

Le riforme all’insegna della liberalizzazione delle professioni, tra il 2006 e il 2012, hanno smantellato il pluridecennale sistema delle tariffe, mettendo in primo piano il criterio della definizione convenzionale del compenso dell’av­vocato, e relegando i nuovi parametri ad un ruolo solo residuale.

Sembrava che il percorso fosse ormai segnato: il lavoro del professionista, e dell’avvocato in particolare, era sempre più attratto nell’ambito della libera concorrenza, come qualsiasi servizio suscettibile di una valutazione economica. Da questo punto di vista, qualsiasi tentativo di limitare l’autonomia privata e la centralità della contrattazione tra i privati veniva considerato, sia dal legislatore che dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, un vulnus ai principi di libera concorrenza e a quelli eurounitari di libera circolazione.

Sennonché, tra il 2017 e il 2018, il legislatore sembra avere avuto un ripensamento storico sull’approccio rispetto al lavoro dei professionisti, il quale prima ancora di essere un’attività economica è un lavoro, e quindi oggetto di protezione costituzionale, in particolare alla luce dell’art. 36 Cost.

Così il d.m. parametri n. 37 del 2018, approvato l’8 marzo ed in vi­gore a partire dal 27 aprile del medesimo anno, ha fissato dei minimi inderogabili nella liquidazione giudiziale del compenso degli avvocati, proprio in applicazione, secondo la Relazione illustrativa del Governo, del principio dell’equo compenso.

Ma soprattutto, poco prima dell’approvazione dei nuovi parametri, la legge 172/2017 di conversione del decreto fiscale 2018 (d.l. 148/2017), come modificata dalla legge di bilancio per il 2018 (l. 27 dicembre 2017, n. 205), ha introdotto l’obbligatorietà di un “equo compenso” per gli avvocati, quan­tomeno con riferimento ad alcuni contraenti considerati forti, come le grandi imprese e, successivamente, le pubbliche amministrazioni, intro­ducendo un apposito art. 13-bis alla legge 247/2012 (legge forense).

Ai sensi del nuovo art. 13-bis della legge forense vengono considerati non equi i compensi non proporzionati alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, e comunque inferiori a quelli previsti dalle apposite tabelle ministeriali: per gli avvocati si deve fare riferimento ai “parametri” individuati in base ai decreti ministeriali, utilizzati per la liquidazione delle spese processuali e che di norma valgono solo in mancanza di accordo tra le parti.

Peraltro, a comprova del valore sistematico della riforma, la disciplina dell’equo compenso, prima pensata per i soli avvocati, è stata estesa anche agli altri professionisti. Così il comma 2 dell’art. 19-quaterdecies del decreto fiscale stabilisce che le disposizioni di cui all’art. 13-bis della legge 247/2012 “si applicano, in quanto compatibili, anche alle prestazioni rese dai professionisti di cui all’articolo 1 della legge 22 maggio 2017 numero 81 …” (c.d. legge sulla tutela del lavoro autonomo).

Reintroducendo, in un certo senso, un criterio di compenso minimo in­derogabile, il legislatore torna ad applicare anche ai professionisti l’art. 36 della Costituzione, in base al quale “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro”, una disposizione che negli ultimi decenni era sempre più considerata a tutela del solo lavoro subordinato.

Per la legge n. 81 sul lavoro autonomo, in particolare, lo svolgimento di attività professionali, quali quella dell’avvocato, è una delle forme attraverso le quali si manifesta il lavoro tutelato ai sensi dell’articolo citato della Costi­tuzione, e non dove si estrinseca l’iniziativa economica di cui art. 41 della legge fondamentale.

La norma di cui all’art. 13-bis della legge forense trae origine dalle diverse denunce delle rappresentanze dell’Avvocatura. Il Consiglio Nazionale Forense ha segnalato come la verifica dei contenuti di numerose convenzioni che i “grandi committenti”, clienti forti come banche e assicurazioni, propongono ai professionisti legali per lo svolgimento di attività di consulenza e/o di rappresentanza in giudizio, abbia fatto emergere la presenza – piuttosto diffusa ed uniforme – di clausole “capestro”, di natura abusiva nella misura in cui non rispettano la proporzione tra il compenso previsto e la quantità e la qualità del lavoro svolto dal legale su mandato della impresa.

A titolo di esempio, si è fatto riferimento alle clausole che prevedono che nel caso il giudice liquidi all’avvocato una somma a titolo di spese legali su­periore a quella concordata in convenzione, la somma eccedente viene inca­merata dalla banca/assicurazione; o che impongono la gratuità della attività di consulenza ed assistenza, l’onere della anticipazione delle spese a carico dell’avvocato o la non rimborsabilità delle spese vive quali quelle di trasferta.

La riforma dell’equo compenso ha esattamente lo scopo di correggere queste storture. Tuttavia, nonostante la palese portata sistematica della nuova disciplina, non bisogna ad ogni modo tralasciare che la norma ha campo di applicazione piuttosto ristretto.

Tale forma di tutela è limitata ai rapporti del professionista con le grandi imprese (e, in un certo senso, con le amministrazioni). Dall’altra parte, nessun minimo tariffario viene disposto nel caso di prestazioni a favore di medie e piccole imprese, nonché nei confronti di clienti privati.

Inoltre, a una prima lettura, l’equo compenso appare applicabile per le sole convenzioni, mentre gli accordi su singole prestazioni professionali sembre­rebbero rimanere fuori dal campo di applicazione dell’istituto.

Né mancano i problemi applicativi. È difficile immaginare che un pro­fessionista, che magari si ritrovi a lavorare esclusivamente per un solo cliente-grande impresa, abbia la capacità di contestare effettivamente il compenso non equo o la clausola penalizzante. Quest’ultima problematica è stata presa in considerazione dal legislatore, che con la modifica di cui alla legge 205/2017 ha eliminato il termine di due anni per promuovere una domanda di nullità nei confronti del compenso inferiore al minimo o della clausola vessatoria.

I presenti contributi sono tratti da 

La definizione del compenso non equo e le sue conseguenze

Venendo al funzionamento concreto del nuovo istituto, la norma sull’equo compenso di cui all’art. 13-bis si occupa del caso in cui il compenso degli av­vocati venga unilateralmente disposto dalle imprese clienti, nei rapporti professionali regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento, anche in forma associata o societaria, delle attività di assistenza, rappre­sentanza e difesa nei giudizi, e l’attività di assistenza legale stragiudiziale.

Nel caso in cui tali clienti siano imprese bancarie e assicurative, o impre­se che non rientrino nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese (come definite nella raccomandazione 2003/361 CE della Commissione, del 6 maggio 2003) il compenso deve essere equo.

Per converso, l’art. 13-bis non si applica alle categorie delle microimprese (meno di 10 occupati e 2 milioni di fatturato), delle piccole imprese (meno di 50 addetti e 10 milioni di fatturato), delle medie imprese (sotto i 250 addetti e meno di 50 milioni) ed ai privati.

Clienti dei professionisti obbligati all’equo compenso

  • Imprese bancarie
  • Imprese assicurative
  • Grandi imprese (più di 250 addetti e più 50 milioni di fatturato)

La norma, che assimila il professionista al consumatore quale contraente debole nei rapporti con un contraente forte, considera equo il compenso quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell’art. 13, comma 6, della legge 247/2012, i c.d. parametri forensi.

Quando il cliente è una grande impresa e non sussistono le descritte condizioni per l’equità del compenso, la clausola che determina un compenso non equo si considera vessatoria. In particolare “si considerano vessatorie le clausole contenute nelle convenzioni di cui al comma 1 che determinano, anche in ragione della non equità del compenso pattuito, un significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvocato”.

La norma prosegue attribuendo una serie di protezioni ulteriori nei confronti del professionista “contraente debole”. In particolare, l’unilateralità della previsione dei compensi da parte delle grandi imprese è presunta. Le convenzioni si presumono unilateralmente predisposte dalle grandi imprese salva prova contraria: spetterà all’impresa cliente dimostrare l’esistenza di una vera e propria contrattazione sul compenso.

In mancanza di tale dimostrazione, la clausola è nulla.

In sostanza, le clausole sul compenso non eque vengono trattate alla stre­gua di clausole vessatorie: esse si considerano vessatorie, e quindi nulle (se disposte unilateralmente) quando “determinano, anche in ragione della non equità del compenso pattuito, un significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvocato” (comma 4, art. 13-bis).

I presenti contributi sono tratti da 

Consulta anche la sezione dedicata alla pratica d’Avvocato! 

Redazione

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento