AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO: ruolo dei Servizi Socio Sanitari

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Con la Legge 6/2004 si introduce nel Codice Civile un nuovo strumento di tutela giuridica: l’amministrazione di sostegno (in seguito indicato con l’acronimo AdS).

Tale collocazione non è casuale, bensì è il segno di un’ attenzione maggiore alla persona, vista non più nella sua generica soggezione alla potestà statuale, ma posta al centro di un sistema di garanzie costituzionali volte a tutelarne la dignità, l’uguaglianza ed il rispetto.

Il novello istituto codicistico è rivolto non solo a chi, per problemi fisici o psichici, sia privo in toto o in parte di autonomia, ma a chiunque viva un disagio sociale, una situazione di dipendenza nelle sue diverse e nuove forme.

Si tratta di soggetti con una effettiva “vulnerabilità”, in difficoltà nell’accesso alla vita organizzata, alle leve del diritto civile: impossibilitati ad andare in banca o dall’assicuratore, a fare le volture per la fornitura di servizi (acqua, gas, luce, telefono), a partecipare all’assemblea condominiale, a pagare le tasse o le bollette, a riscuotere dei contributi, ad accettare un’eredità, a fare una transazione, a stipulare un contratto, a prestare il consenso informato ed, in generale, a sviluppare un proprio progetto di vita.

Il nuovo istituto non prevede un sostegno standardizzato, quanto piuttosto una protezione a 360° che tenga conto dei bisogni, delle aspettative, delle aspirazioni del beneficiario.

Il giudice, definendo l’oggetto del sostegno ed i poteri dell’amministratore, crea una sorta di vestito giuridico ad hoc per quel soggetto in quel momento.

Ma la Legge 6/2004, introducendo l’art. 406 c.c.,

prevede un’altra novità: “i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura ed assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al Giudice Tutelare il ricorso o a fornirne comunque notizia al Pubblico Ministero”.

I servizi sanitari e sociali, che generalmente in talune situazioni sono tenuti solo alla segnalazione, alla denuncia o alla trasmissione del referto all’autorità giudiziaria, in questo caso godono di una legittimazione attiva.

Trattasi di una vera rivoluzione istituzionale: rappresenta l’esplicito dovere dello Stato di proteggere i soggetti deboli, nel rispetto dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale sanciti dall’art. 2 della Costituzione.

Gli interventi dei Servizi socio-sanitari, in quanto opportuni ad assicurare adeguata protezione alla persona, realizzano al contempo un interesse generale.

La legittimazione riconosciuta ai responsabili dei servizi socio-sanitari si fonda sul potere di chiedere l’attuazione del diritto obiettivo e non sul voler far valere un diritto soggettivo proprio o altrui.

D’altro canto, al “dovere al sostegno” dello Stato, si contrappone specularmene un “diritto al sostegno” del beneficiario, la cui violazione determina una responsabilità di tipo risarcitorio ex art. 2043 c.c. a carico di chi, tenuto all’osservanza di questo dovere, non vi adempia, sempre però che vi sia un nesso causale tra comportamento professionale ed evento dannoso.

Il vincolo, di carattere solidaristico, non è penalmente sanzionato se non per le ipotesi all’art. 328 c.p. cioè l’omessa attivazione dei servizi socio-sociali a seguito di richiesta scritta di terzi con segnalazione della situazione di disagio.

Per quanto riguarda la responsabilità civilistica, la bozza di legge Cendon prevedeva una esplicita appendice rimediale in capo ai servizi socio-assistenziali per “i danni che la persona disabile subisca per effetto della mancata o ritardata adozione del provvedimento” (art. 16, 2° comma Bozza Cendon).

Nel testo definitivo della Legge 6/2004 tale previsione risarcitoria viene eliminata anche se, in sostanza, nulla cambia.

L’omessa (o ritardata) attivazione del sostegno determina per il beneficiando un peggioramento della qualità della vita e/o la mancata realizzazione personale, in spregio dell’art. 3 della Costituzione che impone allo Stato di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la liberta e l’uguaglianza dei, cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Le situazione di vuoto, di disfunzione territoriale e/o amministrativa spesso determinano la mancata o ritardata adozione del provvedimento (presentazione del ricorso al Giudice Tutelare o segnalazione al Pubblico Ministero) che si ripercuote di fatto gravemente sugli interessi personali e patrimoniali del disabile, così come del resto sulle economie degli enti pubblici, chiamati spesso ad assistere quanti, pur avendone i mezzi, non riescano a gestire ed amministrare la loro vita. Una siffatta situazione comporta, per la pubblica amministrazione e per gli operatori dei servizi sociali e sanitari, una responsabilità civile (per dolo e colpa grave del preposto all’ufficio o del singolo operatore; e anche per colpa lieve della pubblica amministrazione) oltre che sanzioni amministrative per i danni derivanti da assenza/insufficienza/neghittosità

La norma, preferendo evidenziare l’elemento funzionale piuttosto che l’elemento organizzativo parla di servizi e non di strutture. Infatti non identifica “chi” siano i responsabili e “quali” gli operatori tenuti a questo dovere giuridico.

Nel diritto sanitario il concetto di “responsabile”, collegato alla nozione di struttura e quindi all’elemento organizzativo, non esprime un contenuto verticistico per esprimere il quale solitamente si usa la parola “dirigente” o “dirigente responsabile”.

Il termine “responsabile” non richiama a rapporti direttivi in seno all’organizzazione, ma è l’espressione di una posizione di responsabilità riguardo a una o più di persone preposte ad un progetto terapeutico e/o di assistenza da questi direttamente impostato, gestito, coordinato continuativamente e non in modo non episodico. Ad esempio: nell’ambito del servizio ospedaliero pubblico/privato, responsabile del servizio è chi ha la responsabilità di definire le linee di indirizzo specifiche relative alla terapia e/o assistenza di uno o più beneficiari, e che coordina eventualmente l’attività di terze persone, gli operatori, appunto, diversamente qualificate (quali medici, infermieri, operatori sociosanitari, assistenti sociali, educatori, psicologi) ed incaricate unicamente a singoli e specifici compiti, attività, fasi di un programma da essi non dipendente.

L’art. 406 non distingue i responsabili in pubblici e privati, proprio per una visione solidaristica, finalizzata all’esito dell’intervento ed in cui il rapporto privato-pubblico si muove secondo una logica di sussidiarietà.

I responsabili quindi, indistintamente se in regime di subordinazione, collaborazione autonoma o convenzione (es. medico di medicina generale), “sono tenuti”, agiscono cioè in ottemperanza dei doveri costituzionali di solidarietà economica sociale, hanno cioè l’obbligo di mettere il disabile nella condizione di superare, ridurre, non aggravare le limitazioni derivanti dalla menomazione/infermità.

Il servizio socio sanitario, attraverso il responsabile, assurge al ruolo di protagonista in un procedimento (con udienza di comparizione ed audizione), non in rappresentanza di un’amministrazione pubblica o privata, ma quale punto di riferimento per un obbligo solidaristico di carattere generale.

Tale legittimazione, e conseguente responsabilità, non è in capo al solo responsabile apicale di struttura/servizio ma si estende a quanti siano a conoscenza di situazioni necessitanti il “sostegno”.

E’ una responsabilità a cascata.

Chi opera a diretto contatto col beneficiario ha il dovere di registrare e rapportare puntualmente e tempestivamente al dirigente “i fatti” di cui all’art. 406 c.c., cioè il disagio esistenziale, la vulnerabilità, la precarietà, la carenza o l’inadeguatezza gestionale necessitanti un “sostegno”.

I “fatti” sono situazioni concrete, attuali e non ipotetiche o prevedibili per il futuro. L’obbligo di attivazione sorge per effetto della vera e propria conoscenza, non della semplice conoscibilità dei fatti alla base di questa situazione di vulnerabilità.

Il responsabile, opportunamente informato sui fatti, valuta l’opportunità o meno di proporre la nomina di un AdS.

I poteri di ricorso o denuncia competono esclusivamente al responsabile del servizio socio-sanitario, infatti la legittimazione “attiva” compete all’organo dotato di rappresentanza esterna, quindi al responsabile del servizio, non già al singolo operatore.

Nel caso di caso pareri contrastanti tra singolo operatore e responsabile del servizio, sarà quest’ultimo a decidere, con le connesse responsabilità che si riconnettono ad ogni scelta effettuata (o mancata).

La denuntiatio è atto impegnativo dei servizi sociali e sanitari.

Alla richiesta di AdS fa seguito una fase istruttoria del Giudice Tutelare in cui ruolo determinante è ancora svolto dai servizi sociali e sanitari.

Per servizi socio-sanitari si intendono i distretti sociali e sanitari territoriali, le strutture ospedaliere, i Servizi per il trattamento delle dipendenze, le Residenze Sanitarie Assistenziali, le Comunità Socio Sanitarie per Disabili, i Centri Diurni per Disabili, i Centri Diurni Integrati per Anziani, le Strutture residenziali e semiresidenziali, le Strutture di riabilitazione ambulatoriale, le CSSA del Ministero della Giustizia, tutti i servizi che tutelano o hanno in cura le persone in non autosufficienza.

Pensiamo all’accoglienza presso una struttura protetta (in via definitiva o residenziale) di una persona con disturbi mentali o anziana, priva in tutto o in parte di autonomia .

Salvo che per gli interventi di estrema necessità o le ospitalità temporanee, cioè situazioni d’emergenza in cui urge anche se a titolo provvisorio l’intervento istituzionale, per un ricovero protratto o definitivo occorre necessariamente o che vi sia il consenso espresso ed informato del soggetto o che si proceda alla nomina di un AdS che presieda alle fasi di ingresso o permanenza in struttura.

Il beneficiario non è necessariamente affetto da patologia/menomazione ma è sicuramente persona meramente “vulnerabile” secondo il dizionario internazionale e comunitario, a cui il giudice tutelare deve necessariamente far riferimento nell’operazione interpretativa.

Pervenutagli la segnalazione, il giudice obbligatoriamente compie l’esame della persona ricorrendo d’ufficio ad una consulenza tecnica dei responsabili e dei coordinatori socio – sanitari che hanno in carico o in cura la persona che stilano una relazione quanto più precisa degli aspetti sanitari e della situazione patrimoniale, sociale e personale del beneficiando.

Si delineano così le condizioni organiche e/o psichiche che influenzano oggettivamente la vita del soggetto limitandone le capacità, oltre che le ragioni socio-relazionali del ricorso.

Viene evidenziata la perdita e/o la limitazione di autonomia, di autodeterminazione, di autosufficienza e di indipendenza cioè la capacità di discernimento e di scelta, la capacità di costruire relazioni sociali e interpersonali positive, di definire il proprio progetto di vita, di organizzare o gestire la propria assistenza laddove necessaria, di avere consapevolezza delle responsabilità e conseguenze delle proprie scelte; di svolgere le azioni della vita quotidiana, anche attraverso il sostegno dei servizi o l’utilizzo di adeguati ausili.

Attraverso tale relazione il Giudice Tutelare può farsi una idea più organica delle effettive necessità della persona, dei limiti della sua capacità di agire, dei rischi che si intendono evitare/prevenire in presenza di patologie progressive o situazioni relazionali e/o familiari che si stanno deteriorando e che mettono a rischio gli interessi e/o la cura della persona.

I servizi socio-sanitari locali nel coadiuvare il G.T. (art. 344, 2° comma, c.c.) possono:

  • redigere relazioni psicologiche o informative;

  • curare l’attuazione dei provvedimenti;

  • predisporre col beneficiario e/o con la famiglia un piano individualizzato d’intervento, cioè una proposta di soluzione concreta (e condivisa) cui il G.T. può fare riferimento;

  • segnalare il nominativo di un beneficiario;

  • chiedere la revoca dell’AdS;

  • chiedere il passaggio dall’interdizione/inabilitazione all’AdS;

  • chiedere la sostituzione dell’AdS;

  • gestire l’AdS quando la famiglia non c’è, non è in grado, e non è stata reperita altra persona idonea.

Quindi il ruolo dei servizi socio-sanitari non si esaurisce con la proposta di nomina di AdS ma continua: adozione di provvedimenti integrativi/modificativi/estintivi rispetto al decreto istitutivo di AdS, informative spontanee per segnalare negligenze/abusi/incapacità/ritardi nell’operato dell’AdS.

Inoltre tale funzione collaborativa riguarda non solo le situazioni per le quali direttamente si propone il ricorso, ma anche quelle il cui ricorso sia presentato da terzi e per le quali il Giudice Tutelare richieda supporto e consulenza.

Il fine è pervenire ad un progetto coordinato di sostegno che includa le linee del progetto riabilitativo proposto dai Servizi sanitari e sociali per la rimozione degli ostacoli che comprimano la libertà e i diritti di cittadinanza.

Attraverso l’AdS la persona maggiorenne, affetta da disabilità fisica, psichica e/o cognitiva e, più in generale, per il soggetto debole o indebolito, ha la reale possibilità di godere degli stessi diritti costituzionali garantiti ai soggetti sani.

Ma un diritto, anche se riconosciuto dopo anni di rivendicazioni, se non adeguatamente difeso può smarrirsi e trasformarsi di fatto in un diritto fantasma.

Un diritto diviene esigibile e rivendicabile solo se la norma che lo riconosce risponde a precise condizioni e previsioni: “chi” ha il diritto? “chi” deve fare? “cosa” deve fare? “dove” deve fare? “come” deve fare? entro quali tempi? “quanto” costa? “quali” e “quante” risorse attivare?

Ma anche questo non basta.

Per garantire il rispetto di un diritto occorre prevedere delle Istituzioni, delle Organizzazioni sociali o anche solo singole persone preposte alla vigilanza, un’attività di sorveglianza continua e costante sulla reale e corretta applicazione della norma.

Laddove questo manchi, non si può parlare di pari opportunità civili e di stessi diritti, né di superamento delle disuguaglianze…

E’ questo il senso dell’art. 406 c.c.: al sistema dei servizi sociali e sanitari viene riconosciuto il compito pubblico della protezione al soggetto in difficoltà in una forma più attenta e fattiva.

Capillarmente presenti sul territorio, maggiormente a contatto con la realtà del disagio sociale, sono meglio e più celermente in grado di attivarsi rispetto all’ufficio inquirente.

Riescono a stringere collaborazioni con il Volontariato, diffondere la cultura dell’aiuto gratuito, della solidarietà, tracciare linee di sostegno coordinato con enti e servizi che operano in tema di disagio psico-sociale. In tal modo il progetto di protezione acquista dignità giuridica, evidenzia compiti, vincola con disposizioni giuridicamente rilevanti.

E’ solo in questo modo che un diritto enunciato può essere preteso, rivendicato, rientrare nel patrimonio reale di ciascuno.

Per la portata innovativa che questa misura di protezione giuridica ha, occorrerebbe che fosse conosciuta dalla rete dei servizi territoriali, considerata strumento fondamentale per le politiche di Welfare sociale.

Il diritto alla protezione giuridica è un bisogno fondamentale che non si può negare, ma occorre promuovere, tutelare, calibrare in funzione delle necessità della persona.

La piena applicazione della legge 6/2004 non può realizzarsi senza che siano realizzate “iniziative di presidio” ad esempio attraverso l’attivazione un “Ufficio” (del Comune, delle ASL, delle ASP, etc) con caratteristiche di “Servizio”, in grado soccorrere il soggetto debole/indebolito ed occuparsi della gestione istituzionale delle tutele giuridiche e dell’AdS in particolare.

All’avanguardia in questo, la Regione Lombardia che con la L.R. 3/2008 ha istituito presso tutte le ASL della regione gli “Uffici per la protezione giuridica delle persone fragili (U.P.G.)” .

Tali Uffici promuovono e favoriscono l’accesso agli strumenti di tutela da parte dei soggetti legittimati; promuovono azioni di informazione, consulenza, sostegno alle famiglie ed agli operatori; si affiancano alle Istituzioni che già si occupano di disagio sociale; operano in rete con le U.O. ASL, le Istituzioni, l’Associazionismo, il Terzo Settore.

Auspicabile è che si giunga in tempi brevi alla diffusione capillare su tutto il territorio nazionale di tali Uffici.

Urge inoltre la realizzazione di convegni/seminari sulla neo figura codicistica, atta a favorirne la conoscenza ed il corretto utilizzo a quanti siano preposti all’assistenza socio-sanitaria.

Si tratta di promuovere la conoscenza di una legge ancora poco nota; offrire spunti per una riflessione ampia e generale sull’istituto dell’AdS e sui temi della cura e della tutela delle persone fragili.

A parte qualche eccezione, v’è un generale disinteresse del Territorio all’argomento sebbene le stesse Leggi Regionali impegnino Regioni, Enti, Autorità a momenti strutturati per la diffusione della “cultura del sostegno”e della cittadinanza sociale ed il perseguimento delle finalità della Legge n°6/2004.

Spesso le disabilità esprimono una drammaticità (tacita o manifesta), una logorante preoccupazione per l’avvenire, svelano una devastante o mortificante solitudine.

Occorre creare un sodalizio tra il disabile, la sua famiglia e la Rete Istituzionale, tessendo per/con loro una sorta di reti affettive e relazionali.

 

BIBLIOGRAFIA

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www.progettoads.net
www.unipa.it
www.aiaf-avvocati.it
www.teoriaestoriadeldirittoprivato.com

Conchita Nicolao

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