A cura dell’Avv. Michele Bonsegna, Consigliere Direttivo AODV231
L’abrogazione del reato di abuso d’ufficio in Italia rappresenta un capitolo complesso e in continua evoluzione nel panorama giuridico italiano, che ha generato un’ampia discussione e notevoli preoccupazioni. Sebbene la Corte Costituzionale, con la sentenza 95/2025, abbia confermato la legittimità costituzionale di tale abrogazione, escludendo un formale contrasto con la Convenzione di Merida (che promuove misure efficaci contro la corruzione), essa non ha risolto la “saga infinita” che da sempre circonda questa complessa fattispecie di reato.
Sulla questione di legittimità, rimandiamo all’articolo: Abolizione dell’abuso d’ufficio: la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale
Indice
1. Le ragioni dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio e il rischio di paralisi amministrativa
La decisione di eliminare il reato di abuso d’ufficio è stata motivata principalmente dalla volontà di superare la cosiddetta “paura della firma” da parte dei pubblici funzionari. Questa “paura” derivava dalla sottile e spesso ambigua linea di demarcazione tra gli illeciti penali e le semplici irregolarità amministrative, una distinzione che ha storicamente alimentato un dibattito acceso. L’incertezza interpretativa era percepita come una potenziale causa di paralisi per l’attività amministrativa, spingendo il legislatore a una soppressione radicale che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto eliminare qualsiasi possibilità di interferenza giudiziaria nell’operato della pubblica amministrazione.
Di fatto, si è passati da un sistema normativo che, pur nella sua complessità, cercava di distinguere le condotte illecite da quelle legittime, a una totale assenza di regolamentazione penale in questo specifico ambito. Questa abrogazione ha generato un innegabile “vuoto di tutela penale”, come esplicitamente riconosciuto dalla Consulta stessa, sollevando significative preoccupazioni per gli operatori del diritto.
2. Il nuovo quadro normativo e le incertezze applicative
Nel tentativo di mitigare le conseguenze di tale vuoto normativo, quasi in “zona Cesarini”, il legislatore ha introdotto il nuovo articolo 314-bis del Codice Penale, rubricato “indebita destinazione di denaro o cose mobili”. Tuttavia, questa nuova disposizione si è rivelata un “erede infelice” del precedente articolo 323 c.p. (abuso d’ufficio). La sua efficacia è fortemente limitata dal fatto che circoscrive la rilevanza penale alla sola distrazione di beni mobili, entrando così in evidente e parziale contrasto con la Direttiva 2017 per la lotta alle frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione Europea. Detto punto critico ne limita non solo l’efficacia ma anche la coerenza sistemica all’interno del quadro normativo anticorruzione.
La vittoria ottenuta dal legislatore appare, dunque, come una “Vittoria di Sisifo”. Un successo faticosamente raggiunto, ma che è destinato a confrontarsi perennemente con nuove criticità o con la necessità di sforzi continui per mantenerne i benefici. Lungi dal chiudere la “saga” dell’abuso d’ufficio, questa decisione l’ha alimentata ulteriormente, costringendo il diritto italiano a ridefinire i propri strumenti di contrasto alla corruzione.
Per gli operatori del diritto, la sfida attuale consiste nel comprendere e monitorare le reali implicazioni di questa scelta legislativa. Si tratta di un equilibrio delicato e costante tra l’esigenza di garantire l’efficienza amministrativa e quella di assicurare la legalità nell’operato della pubblica amministrazione. La mancanza di una norma penale specifica per l’abuso d’ufficio solleva interrogativi su come verranno gestite in futuro condotte che, pur non comportando la distrazione di beni mobili, possono comunque causare un danno significativo all’interesse pubblico o un vantaggio indebito a terzi.
Tale scenario impone un’attenta riflessione sulla necessità di trovare nuovi meccanismi per prevenire e sanzionare comportamenti scorretti da parte dei pubblici ufficiali, senza per questo ostacolare la loro azione amministrativa. La discussione, pertanto, è tutt’altro che conclusa, e richiederà probabilmente ulteriori interventi normativi o interpretativi per definire con maggiore chiarezza i confini dell’agire pubblico.
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