Espulsione detenuti stranieri: la Consulta salva l’art. 16 TUI

La Consulta non dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 16, co. 5, d.lgs. n. 286 del 1998 sull’espulsione dei detenuti stranieri: vediamo il perché.

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La Consulta non dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 16, co. 5, d.lgs. n. 286 del 1998 sull’espulsione dei detenuti stranieri: vediamo il perché. Per approfondimenti in materia, consigliamo il volume “Immigrazione, asilo e cittadinanza”, acquistabile sia su Shop Maggioli che su Amazon, un testo di riferimento in materia di diritto all’immigrazione.

Corte costituzionale -sentenza n. 73 del 7-04-2025

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Indice

1. Il fatto


Il Tribunale di sorveglianza di Palermo doveva decidere su una opposizione presentata da un cittadino extracomunitario detenuto presso la Casa di reclusione Palermo-Ucciardone, avverso un’ordinanza (recte: decreto) che ne disponeva l’espulsione, adottata dal Magistrato di sorveglianza di Palermo in quanto il detenuto non risultava condannato per alcuno dei reati ostativi ivi previsti e la pena residua da espiare era inferiore a due anni di reclusione.
Ebbene, sulla scorta di quanto emerge dal provvedimento del Magistrato di sorveglianza e dalle informazioni rese dalla Questura di Palermo-Ufficio immigrazione, trapelava come l’espulsione non avrebbe posto a rischio di persecuzione il condannato, il quale non aveva legami di parentela o di coniugio con cittadini italiani, né risultava essere titolare di un regolare soggiorno nel territorio nazionale.
Oltre a ciò, il Tribunale di sorveglianza palermitano notava come il ricorso in opposizione, proposto nel caso di specie, desse conto del lungo periodo di permanenza in Italia del soggetto interessato dal 2005, e del percorso rieducativo e riabilitativo intrapreso all’interno dell’istituto penitenziario, ove il soggetto aveva «serbato una condotta regolare e partecipativa all’offerta trattamentale, non dando adito a rimarchi di sorta».
Ciò posto, nel corso dell’udienza, sia il Procuratore generale, che la difesa dell’interessato, avevano chiesto che venisse sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, in quanto la misura espulsiva sarebbe stata automatica e non avrebbe tenuto conto dei risultati dell’osservazione intramuraria, provocando, a loro avviso, una brusca e irragionevole interruzione del trattamento rieducativo. Per approfondimenti in materia, consigliamo il volume “Immigrazione, asilo e cittadinanza”, acquistabile sia su Shop Maggioli che su Amazon, un testo di riferimento in materia di diritto all’immigrazione.

VOLUME

Immigrazione, asilo e cittadinanza

Obiettivo degli autori è quello di cogliere l’articolato e spesso contraddittorio tessuto normativo del diritto dell’immigrazione.Il volume, nel commento della disciplina, dà conto degli orientamenti giurisprudenziali e delle prassi amministrative, segnalando altresì la dottrina “utile”, perché propositiva di soluzioni interpretative utilizzabili dall’operatore (giudici, avvocati, amministratori, operatori nei diversi servizi).Il quadro normativo di riferimento di questa nuova edizione è aggiornato da ultimo alla Legge n. 176/2023, di conversione del decreto immigrazione (D.L. n. 133/2023) e al D.lgs n. 152/2023, che attua la Direttiva UE/2021/1883, gli ultimi atti legislativi (ad ora) di una stagione breve ma normativamente convulsa del diritto dell’immigrazione.Paolo Morozzo della RoccaDirettore del Dipartimento di Scienze umane e sociali internazionali presso l’Università per stranieri di Perugia.

 

Paolo Morozzo della Rocca | Maggioli Editore

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione: illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 sull’espulsione dello straniero


A fronte della situazione appena descritta, il Tribunale di sorveglianza di Palermo sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «almeno nella parte in cui non prevede che il Magistrato di Sorveglianza possa disporre – in assenza del consenso dell’interessato – l’espulsione dello straniero, identificato, detenuto, che si trova in taluna delle condizioni indicate dall’art. 13, comma 2, del D.Lgs. 286/1998 che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni e che non sia condannato per i delitti previsti dall’art. 12, commi 1, 3, 3 bis, 3 ter del D.Lgs. 286/1998 ovvero per uno o più delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., fatta eccezione per quelli consumati o tentati di cui agli articoli 628, terzo comma e 629, secondo comma, del codice penale».
In particolare, ad avviso del giudice a quo, la questione sarebbe stata rilevante perché il suo accoglimento avrebbe consentito la prosecuzione del trattamento intramurario, già orientato al reinserimento nel tessuto sociale, in quanto il soggetto aveva fruito di permessi premio presso una cooperativa locale.
Ciò posto, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente sosteneva di non poter procedere a una interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto il dato testuale prevederebbe un automatismo decisionale che escluderebbe ogni discrezionalità giudiziale; il Magistrato di sorveglianza, infatti, sarebbe tenuto a verificare esclusivamente i presupposti previsti per legge, il titolo in esecuzione e la durata della pena residua, mentre gli sarebbe precluso ponderare gli effetti negativi del provvedimento sul percorso trattamentale.
Precisato ciò, il rimettente riferiva per di più che, sebbene non ignorasse la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che è stabilmente assestata nel ritenere che la misura espulsiva di cui all’art. 16 del d.lgs. n. 286 del 1998 abbia natura sostanzialmente amministrativa e non trattamentale, in quanto finalizzata alla diminuzione del sovraffollamento carcerario e, pertanto, estranea al finalismo rieducativo (si richiamava a tal proposito: Corte di Cassazione, Sezione prima penale, sentenza 14 settembre 2021-10 febbraio 2022, n. 4645, che riprendeva un filone interpretativo risalente nel tempo, di cui all’ordinanza n. 226 del 2004 della Corte costituzionale, che aveva ritenuto l’espulsione disposta ai sensi dell’art. 16 del d.lgs. n. 286 del 1998 estranea al sistema delle misure alternative alla detenzione), riteneva tuttavia di non condividere questo orientamento in quanto la misura espulsiva resterebbe impermeabile a qualsiasi forma di bilanciamento tra interessi contrapposti; sottolineava, anzi, che, a prescindere dalla natura amministrativa o trattamentale della misura, l’assenza di discrezionalità giudiziale e l’impossibilità di raccogliere il consenso dell’interessato finirebbero per «incidere in termini tombali sul finalismo rieducativo della pena detentiva» di cui all’art. 27 Cost..
Del resto, a sostegno dell’illegittimità costituzionale, il rimettente osservava che l’espulsione si sarebbe tradotta in una duplicazione del «fardello sanzionatorio» per un soggetto che, già chiamato a scontare la pena della reclusione, sarebbe stato sradicato in via automatica dal percorso di rieducazione e reinserimento sociale, in un momento, tra l’altro, irragionevolmente incerto rispetto alla pena detentiva espiata e legato a fattori contingenti, quali i tempi istruttori, tenuto conto altresì del fatto che l’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 determinerebbe il fenomeno, censurato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, della trasfigurazione della sanzione amministrativa in sanzione penale, per la finalità repressiva particolarmente severa perseguita, – l’espulsione dal territorio nazionale –, richiamando la sentenza della prima sezione, 14 settembre 2023, causa C-27/22, Volkswagen Group Italia spa e Volkswagen Aktiengesellschaft.
Sotto altro profilo, sempre ad avviso del rimettente, il processo rieducativo del detenuto, di cui all’art. 27 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà), che dell’art. 27, terzo comma, Cost. sarebbe il riflesso, costituirebbe un diritto soggettivo insuscettibile di limitazioni, tanto che il percorso di risocializzazione non sarebbe «recessivo neanche al cospetto dell’interesse pubblico sotteso all’abbattimento del sovraffollamento della popolazione carceraria, non essendo il trattamento sanzionatorio e penitenziario individualizzato strumentalizzabile per finalità eteronome», senza poi trascurarsi il fatto che, anche «in una logica di mero utilitarismo penitenziario», l’espulsione in questione avrebbe avuto una incidenza statistica minima, rendendo ancor meno giustificato il sacrificio dei valori costituzionali lesi.
D’altronde, l’espulsione, ad avviso del rimettente, incidendo sul quantum della pena espiata, opererebbe in termini analoghi all’istituto della liberazione anticipata, che la giurisprudenza costituzionale aveva qualificato come misura alternativa, con richiamo alla sentenza n. 17 del 2021.
Non sarebbero comparabili, del resto, per assenza di un comune denominatore, l’espulsione di un soggetto libero illegalmente presente sul territorio, fattispecie amministrativa, l’espulsione di soggetto di cui sia accertata l’attuale pericolosità sociale, come misura di sicurezza e l’espulsione del detenuto ormai da anni inserito nel circuito penitenziario e protagonista di un «fervido percorso rieducativo».
L’applicazione della disposizione censurata, sotto altro profilo, si presterebbe per di più ad incoraggiare surrettiziamente il fenomeno che vuole reprimere, ossia l’immigrazione illegale, inducendo i soggetti espulsi coattivamente e contro la loro volontà nel corso del trattamento penitenziario ad approntare strategie per rientrare illegalmente in Italia e compromettendo, in questo modo, la stessa funzione special-preventiva della pena; la conclusione del programma trattamentale, invece, realizzerebbe un’autentica funzione di contrasto alla recidiva e una corretta finalizzazione delle risorse investite dall’amministrazione penitenziaria, che troverebbero giustificazione a valle, all’atto della scarcerazione, nel reinserimento sociale e lavorativo della persona che ne abbia attivamente beneficiato.
Infine, il rimettente osservava che la piena operatività del principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena sarebbe frustrata «almeno nella misura in cui non consente all’autorità giurisdizionale procedente (in questo caso all’Ufficio di Sorveglianza) di raccogliere il consenso dell’interessato all’applicazione nei suoi confronti della sanzione sostitutiva dell’espulsione».

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3. La soluzione adottata dalla Consulta


I giudici di legittimità costituzionale ritenevano innanzitutto che l’eccezione di inammissibilità, quanto alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost., prospettata dall’Avvocatura generale dello Stato in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, fosse meritevole di accoglimento.
Difatti, per il Giudice delle leggi, da un lato, la disposizione costituzionale è meramente evocata dal rimettente, in assenza di qualsivoglia apparato motivazionale, dall’altro, sebbene nell’ordinanza di rimessione alcune linee argomentative, soltanto accennate, potevano essere implicitamente ricondotte a profili di irragionevolezza intrinseca o di violazione del principio di eguaglianza, tali profili, a suo avviso, non erano sorretti da alcuna motivazione.
Per ciò che attiene ai profili di irragionevolezza, ad avviso della Consulta, l’ordinanza conteneva affermazioni apodittiche, quale quella che la misura espulsiva finirebbe per contraddire il fine cui è rivolta, il contrasto all’immigrazione illegale, in quanto indurrebbe le persone espulse coattivamente nel corso del trattamento penitenziario a elaborare strategie per rientrare illegalmente in Italia.
Infine, quanto al profilo della denunciata violazione del principio di eguaglianza, per la Corte costituzionale, nessuna motivazione era data intorno agli elementi di somiglianza tra le misure indistintamente invocate dal rimettente, alcune amministrative e altre trattamentali, né sulle ragioni che avrebbero giustificato una loro analoga o diversa considerazione ai fini della questione sottoposta.
Ciò posto, per quanto invece riguarda l’altra questione proposta, ossia quella inerente la ritenuta violazione dell’art. 27 Cost., dopo essersi fatto presente che siffatta questione doveva intendersi circoscritta alla sola violazione del terzo comma, con specifico riguardo al contrasto della disposizione censurata con il principio del finalismo rieducativo della pena, essendo questo l’unico principio, tra quelli espressi dalla disposizione costituzionale, che l’ordinanza di rimessione espressamente evoca e intorno al quale ruotavano tutte le censure proposte, attinenti all’interferenza della misura espulsiva con il percorso trattamentale, i giudici di legittimità costituzionale la reputavano infondata.
Nel dettaglio, una volta compiuta una sintetica illustrazione dell’istituto della espulsione alternativa alla detenzione previsto dall’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, la Consulta osservava come sia stata affrontata più volte, proprio in sede di giustizia costituzionale, la tematica inerente il presunto automatismo espulsivo della misura, del quale venivano denunciati plurimi profili di violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza e di contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost., sul presupposto che l’espulsione dovesse essere ascritta alla sfera dell’esecuzione penale, come misura trattamentale o vera e propria sanzione penale, ritenendosi questioni di tale tenore manifestamente infondate per erroneità del presupposto interpretativo, affermando che la misura di cui all’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 ha natura sostanzialmente amministrativa, in quanto presenta elementi comuni alle altre misure espulsive disposte dall’autorità amministrativa (ordinanze n. 422 e n. 226 del 2004).
Ebbene, si notava come a tale conclusione si fosse pervenuti sulla base delle considerazioni che avevano già indotto la medesima Corte costituzionale a ritenere di natura amministrativa la diversa misura espulsiva disposta dal giudice della cognizione penale, oggi disciplinata dal comma 1 dello stesso art. 16 t.u. immigrazione, quale sanzione sostitutiva della pena.
In particolare, a prescindere dalla qualificazione formale come «sanzione» sostitutiva della detenzione, si osservò che la misura solo indirettamente riveste un contenuto afflittivo, posto che il suo effetto tipico si risolve nell’allontanamento dal territorio dello Stato di persone che vi sono entrate o vi si trattengono irregolarmente (ordinanza n. 369 del 1999).
La natura amministrativa della misura, pertanto, condusse a distinguerla dalle misure alternative alla detenzione, finalizzate alla rieducazione e risocializzazione del condannato, e a ritenere non pertinente il richiamo all’art. 27, terzo comma, Cost. (ancora, ordinanze n. 422 e n. 226 del 2004).
A fronte di un quadro normativo in parte diverso, d’altra parte, i giudici di legittimità costituzionale avevano già avuto modo di affermare che l’espulsione dello straniero in pendenza di misura cautelare o di esecuzione della pena detentiva, giustificata essenzialmente dall’interesse pubblico alla riduzione dell’affollamento carcerario, non potesse essere valutata in riferimento alla finalità costituzionale della pena, di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., proprio perché determina la sospensione del trattamento e riflette la scelta, non arbitraria né palesemente irragionevole del legislatore, di una temporanea astensione dello Stato dalla potestà punitiva, in corrispondenza dell’allontanamento dello straniero dal territorio nazionale (sentenze n. 283 e n. 62 del 1994; ordinanza n. 176 del 1997).
Ebbene, per la Corte di legittimità costituzionale, tale orientamento, consolidato anche nella giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione, Sezione prima penale, sentenze 15 maggio-17 ottobre 2024, n. 38183, e 31 gennaio-31 maggio 2024, n. 21906), andava confermato, anche perché il quadro normativo non era sostanzialmente mutato, e anzi si era arricchito di ulteriori garanzie processuali e sostanziali.
In effetti, la natura amministrativa del provvedimento di cui all’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione, benché esso sia disposto dal magistrato di sorveglianza, si desume innanzitutto dai rinvii interni che lo stesso art. 16 opera proprio nel comma 5, disposizione censurata, all’art. 13, comma 2, t.u. immigrazione, che disciplina le condizioni di irregolarità del soggiorno, cui consegue l’espulsione amministrativa, e nel comma 9, che rinvia all’art. 19 del medesimo testo unico, non considerato dal rimettente, che vieta l’espulsione nei casi di vulnerabilità oggettiva o soggettiva dell’interessato, emergendo da tali rinvii gli elementi sostanziali e formali che accomunano l’espulsione in luogo della detenzione, di cui all’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione, alle altre forme di espulsione amministrativa: la forma del provvedimento, il decreto motivato; le preclusioni connesse alle già richiamate condizioni di vulnerabilità di cui all’art. 19 t.u. immigrazione; le modalità di esecuzione, affidate non al pubblico ministero, ma al questore, cui spetta disporre l’accompagnamento alla frontiera; gli effetti tipici della misura, ossia l’allontanamento dal territorio nazionale e l’obbligo di non farvi rientro entro un certo termine, anticipando in questo modo un esito che si produrrebbe comunque una volta conclusa l’espiazione della pena.
Ciò posto, per quanto riguarda le garanzie processuali, la Consulta osservava come esse consistono nel decreto motivato, disposto dal Magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 16, comma 6, t.u. immigrazione, e nel diritto di proporre opposizione al Tribunale di sorveglianza, che ha la funzione di assicurare l’esercizio del diritto di difesa e il contraddittorio tra le parti, anche se differito.
Inoltre, ai sensi del comma 7 dell’art. 16, l’esecuzione del decreto di espulsione è sospesa fino alla decorrenza dei termini di impugnazione o alla decisione del tribunale di sorveglianza.
Lo stato di detenzione permane e l’espulsione non è eseguita sino a quando non siano stati acquisiti i necessari documenti di viaggio.
Orbene, come già dedotto in sede di giustizia costituzionale, sussiste l’obbligo di comunicare allo straniero il decreto di espulsione, unitamente all’indicazione delle modalità di impugnazione, in una lingua da lui conosciuta o, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola (ordinanza n. 226 del 2004), fermo restando che, rispetto al quadro normativo vigente nel 2004, l’attuale formulazione dell’art. 16, comma 6, t.u. immigrazione ha rafforzato le garanzie difensive connesse al contraddittorio differito.
Invero, la disposizione ora vigente, risultante dall’art. 6, comma 1, lettera d), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10, prevede l’obbligo di notificazione del decreto di espulsione anche al pubblico ministero, che è divenuto anch’egli legittimato all’impugnazione, nonché l’obbligo di notificazione al difensore della persona interessata, stabilendo che, se lo straniero non è assistito da un difensore di fiducia, il magistrato provvede alla nomina di un difensore d’ufficio.
A proposito invece delle garanzie sostanziali, si evidenziava come la medesima Consulta avesse già avuto modo di rilevare che il Magistrato di sorveglianza, prima di emettere il decreto di espulsione, è chiamato ad acquisire non solo le informazioni sull’identità e sulla nazionalità dello straniero, ma qualsiasi informazione necessaria o utile al fine di accertare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni che legittimano l’espulsione (ordinanze n. 422 e n. 226 del 2004), assumendo particolare rilievo, da questo punto di vista, il già menzionato rinvio che il comma 9 dell’art. 16 opera ai divieti di espulsione per le condizioni di vulnerabilità di cui all’art. 19 t.u. immigrazione, i quali sono stati oggetto di interpretazione estensiva e analogica nella giurisprudenza di legittimità, garantendo, in questo modo, sia il rispetto di diritti e beni costituzionali di cui la stessa Corte costituzionale ha imposto l’osservanza in relazione a provvedimenti espulsivi, per esempio del diritto alla salute (sentenza n. 252 del 2001) e della protezione dei legami familiari, in particolare con soggetti minori (sentenza n. 202 del 2013), sia il rispetto delle norme dell’Unione europea, ove applicabili, sia la conformità alle norme convenzionali, in particolare all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in relazione al diritto al rispetto della vita privata e familiare, per come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Come ha chiarito da tempo la giurisprudenza di legittimità, sono quindi queste le condizioni che il Magistrato di sorveglianza deve rispettare al momento dell’adozione della misura espulsiva e che escludono, per ciò stesso, l’esistenza di qualsivoglia automatismo, richiedendo, invece, una valutazione discrezionale (Corte di Cassazione, Sezione prima penale, sentenze 7-26 novembre 2024, n. 43082, 13 gennaio-23 marzo 2022, n. 10296, 21 settembre-5 novembre 2021, n. 39783 e 30 ottobre-13 novembre 2019, n. 45973), evidenziandosi al contempo che, anche nel giudizio a quo, d’altra parte, il rimettente dava atto delle informazioni acquisite dalla Questura, sicché l’espulsione, per il Giudice delle leggi, non avrebbe posto alcun rischio di persecuzione la persona condannata, che non aveva legami di parentela o di coniugio nel territorio nazionale e non risulta titolare di regolare permesso di soggiorno.
La misura di cui all’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, pertanto, per la Corte, resta, dal punto di vista sostanziale, non equiparabile alle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario.
Anzi, proprio il fatto che si tratti dell’anticipazione di una misura espulsiva comunque irrogabile una volta concluso il trattamento, comporta che essa sia soggetta al medesimo bilanciamento, in relazione alle condizioni personali e familiari dell’interessato, cui è subordinata l’adozione della misura da parte dell’autorità amministrativa, tenuto conto altresì della considerazione secondo la quale tale bilanciamento è rafforzato perché è posto direttamente in capo all’autorità giurisdizionale e perché è destinato a operare nel rispetto del contraddittorio processuale, ancorché differito.
Non può, dunque, ritenersi sussistente, ad avviso della Consulta, alcun automatismo espulsivo, dovendo il Magistrato di sorveglianza procedere a una ponderazione di interessi quanto agli effetti dell’eventuale espulsione sulle condizioni personali e familiari della persona interessata la quale si trova in una condizione che ne imporrebbe, comunque, l’espulsione una volta espiata la pena.
In un ordinamento costituzionale ispirato al principio di libertà, inoltre, sempre per il Giudice delle leggi, non trova alcuno spazio un diritto soggettivo del detenuto a rimanere in carcere, tanto più se si osserva che l’astensione temporanea dallo Stato dall’esercizio della potestà punitiva comporta la riespansione della libertà personale, e ciò sempre a condizione che non sussistano le condizioni di pericolo di persecuzione, di trattamenti disumani o degradanti e le altre condizioni indicate dall’art. 19 t.u. immigrazione.
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, pertanto, come già enunciato in precedenza, era dichiarata non fondata in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost..

4. Conclusioni: l’art. 16, co. 5, d.lgs. n. 286 del 1998 non è illegittimo costituzionalmente


Considerato che, come è noto, l’art. 16, co. 5, d.lgs, 26/07/1998, n. 286 dispone che, nei “confronti dello straniero, identificato, detenuto, che si trova in taluna delle situazioni indicate nell’articolo 13, comma 2, che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni, è disposta l’espulsione” (primo periodo) fermo restando che, da una parte, essa “non può essere disposta nei casi di condanna per i delitti previsti dall’articolo 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, del presente testo unico, ovvero per uno o più delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a) del codice di procedura penale, fatta eccezione per quelli consumati o tentati di cui agli articoli 628, terzo comma e 629, secondo comma, del codice penale” (secondo periodo), dall’altra, in “caso di concorso di reati o di unificazione di pene concorrenti, l’espulsione è disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena relativa alla condanna per reati che non la consentono” (terzo periodo), con la pronuncia qui in esame, la Consulta esclude che siffatto precetto normativo sia costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il Magistrato di Sorveglianza possa disporre – in assenza del consenso dell’interessato – l’espulsione dello straniero, identificato, detenuto, che si trova in taluna delle condizioni indicate dall’art. 13, comma 2, del D.Lgs. 286/1998 che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni e che non sia condannato per i delitti previsti dall’art. 12, commi 1, 3, 3 bis, 3 ter del D.Lgs. 286/1998 ovvero per uno o più delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., fatta eccezione per quelli consumati o tentati di cui agli articoli 628, terzo comma e 629, secondo comma, del codice penale.
Di conseguenza, il divieto di espulsione continua ad operare, pure in presenza delle condizioni previste da questo secondo comma dell’art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998[1], in presenza di una pena detentiva, da doversi espiare, non superiore ai due anni, allorché lo straniero non abbia riportato la condanna per uno di codesti delitti fermo restando che, anche nei casi in cui l’espulsione sembrerebbe automatica, come rammentato nella decisione in esame, il Magistrato di sorveglianza deve comunque valutare attentamente gli effetti che tale espulsione avrebbe sulla situazione personale e familiare della persona interessata, prima di adottare una decisione.
Questo è stato dunque l’esito decisorio a cui è giunta la Corte costituzionale con la sentenza qui in commento.

Note


[1] Ai sensi del quale: “L’espulsione è disposta dal prefetto, caso per caso, quando lo straniero: a) è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e non è stato respinto ai sensi dell’articolo 10; b) si è trattenuto nel territorio dello Stato in assenza della comunicazione di cui all’articolo 27, comma 1-bis, o senza avere richiesto la proroga del visto o il permesso di soggiorno nel termine prescritto, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore, ovvero quando la proroga del visto o il permesso di soggiorno siano stati revocati o annullati o rifiutati ovvero quando il permesso di soggiorno sia scaduto da più di sessanta giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo ovvero se lo straniero si è trattenuto sul territorio dello Stato in violazione dell’articolo 1, comma 3, della legge 28 maggio 2007, n. 68, ovvero quando l’autorizzazione ai viaggi è stata annullata o revocata ovvero se lo straniero è un soggiornante fuori termine ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, punto 19), del regolamento (UE) 2017/2226, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 novembre 2017, o nel caso in cui sia scaduta la validità della proroga del visto; c) appartiene a taluna delle categorie indicate negli articoli 1, 4 e 16, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159”.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Avvocato e giornalista pubblicista. Cultore della materia per l’insegnamento di procedura penale presso il Corso di studi in Giurisprudenza dell’Università telematica Pegaso, per il triennio, a decorrere dall’Anno accademico 2023-2024. Autore di diverse pubblicazioni redatte per…Continua a leggere

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