inserito in Diritto&Diritti nel settembre 2002

LA RESPONSABILITA' DEL PRODUTTORE DI SIGARETTE IN ITALIA, FRANCIA E STATI UNITI D'AMERICA

di  Luisa Nava

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Indice

CAPITOLO I
LA RESPONSABILITA' DEL PRODUTTORE IN ITALIA.


SEZIONE I
LA SITUAZIONE GIURIDICA ESISTENTE PRIMA DELLA RIFORMA COMUNITARIA.


SOMMARIO : 1. Il rapporto impresa-consumatori e le tecniche di protezione giuridica. 2. La responsabilità contrattuale del venditore. 3. Gli indirizzi giurisprudenziali. 4. (segue) : Gli anni '50 e '60. 5. (segue) : Il caso Saiwa. 6. (segue) : Le più recenti tendenze giurisprudenziali. 7. Concorso tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale. 8. La dottrina. 


1. IL RAPPORTO IMPRESA-CONSUMATORI E LE TECNICHE DI PROTEZIONE GIURIDICA.
La nostra società moderna viene spesso definita "società dei consumi" e questa espressione identifica già di per sé il protagonista principale, vale a dire il consumatore. A rigor di logica questo soggetto dovrebbe godere di una soddisfacente tutela dei propri interessi ; capita invece spesso che le sue aspettative vadano deluse.
Il progresso tecnologico, l'automazione a livello industriale e il mutamento della struttura del sistema di distribuzione dei prodotti, hanno innescato una situazione di forte conflittualità tra impresa e consumatore che dipende dai diversi tipi di interessi di cui impresa e consumatore sono i legittimi rappresentanti. L'innovazione tecnologica e il progresso industriale hanno portato sì degli innegabili benefici alla società, ma hanno anche introdotto un'ampia gamma di rischi quali l'inquinamento ambientale e la distribuzione sul mercato di prodotti dannosi o potenzialmente tali.[1] 
La realizzazione di un prodotto difettoso pone dei problemi non solo all'acquirente e al venditore perché oggi i processi industriali di fabbricazione si articolano in più fasi ( soprattutto per i beni con un alto contenuto tecnologico ). Il bene di consumo difettoso può causare danni non solo all'acquirente, ma anche ad altri soggetti e di questi danni spesso non è responsabile il venditore ma lo stesso produttore poiché i difetti del bene spesso dipendono da anomalie del processo produttivo.[2]
Il passaggio da una produzione di tipo artigianale ad una produzione in serie, tipica della moderna società industriale, ha condotto ad un aumento delle dimensioni della capacità lesiva dei prodotti dannosi ; infatti dal difetto isolato si è passati ad una presenza di difetti all'interno degli stessi prodotti. In secondo luogo si è assistito ad un mutamento assai rapido del sistema distributivo, caratterizzato dall'evoluzione cha ha subito la figura del rivenditore. Egli è all'oscuro della progettazione e dell'intero processo di fabbricazione del prodotto che pone in vendita e di conseguenza viene a trovarsi in una situazione di impotenza qualora intendesse esercitare un controllo sullo stesso. 
Nell'ambito di un simile sistema economico-produttivo diviene indispensabile apprestare delle idonee forme di tutela giuridica per il consumatore. Per analizzare le forme di tutela del consumatore previste all'interno dell'ordinamento giuridico italiano bisogna fare riferimento alle norme che hanno come scopo la regolamentazione dei rapporti giuridici che vedono, appunto, il consumatore agire in prima persona. [3] 
Un contributo fondamentale è stato apportato dalle Direttive n. 374 del 1985 e n. 59 del 1992.
Prima però di analizzare la normativa comunitaria, è interessante vedere come il nostro ordinamento civilistico regolava la materia in base ai principi tradizionali della compravendita.
Le norme del diritto civile sono dirette a realizzare un compromesso tra la tutela del consumatore e la libertà d'iniziativa economica dell'impresa. Il problema della circolazione dei prodotti rimane disciplinato dalle regole contrattuali, mentre grande libertà viene lasciata alle strategie dell'impresa. Nel nostro ordinamento giuridico esistono degli strumenti per far valere una pretesa risarcitoria tanto nei confronti del venditore quanto nei confronti del produttore del bene. In questo secondo caso la tutela si è realizzata grazie ad un'interpretazione giurisprudenziale estensiva delle norme codicistiche sulla responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c. e ss.).
2. LA RESPONSABILITA' CONTRATTUALE DEL VENDITORE.
Prima di analizzare le norme relative alla compravendita attualmente in vigore nel nostro ordinamento giuridico, è necessario premettere che esse non sono idonee a tutelare adeguatamente gli interessi generali dei consumatori. I fenomeni odierni del consumo hanno a che fare con un complesso di regole e precetti codicistici che sono, per la maggior parte, ispirati ad epoche e modelli socio-economici assai distanti dalla realtà odierna. 
Questo significa che le norme vigenti non sono adatte ad una corretta disciplina delle vendite "a catena", proprio perché il codice del 1942 considera la vendita come un affare individuale. [5]
E' ora finalmente giunto il momento di passare in rassegna quelle norme. 
L'art.1490 cc. impone al venditore di garantire che la cosa venduta sia immune dai vizi che la rendono inidonea all'uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore ; in questo caso la legge attribuisce al compratore il diritto di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo ( art.1492 ). Il codice ( art.1491 ) prevede però anche che la garanzia non è dovuta se il compratore al momento della conclusione del contratto conosceva i vizi della cosa o se questi erano facilmente riconoscibili, a meno che il venditore ( sul quale grava l'onere della prova della conoscenza o dell'evidenza ) abbia dichiarato che la cosa era esente dai vizi. Questa garanzia opera automaticamente ( al compratore spetta ex-lege il diritto, nonostante possa rendersi necessario ricorrere al giudice per farlo valere ) salvo patto contrario, il quale ultimo però non ha effetto se è dimostrata la malafede del venditore ( art.1490 ). Allo stesso modo il compratore può ottenere la risoluzione del contratto quando la cosa consegnatagli non abbia le caratteristiche promesse o essenziali all'uso cui è destinata ( art.1497 ). In tali casi vigono rigorosi termini di decadenza ( il vizio o la mancanza di qualità deve essere denunciata al venditore entro 8 giorni dalla scoperta ) e di prescrizione ( l'azione va esercitata in un anno dalla consegna del bene - art.1495 ).
Oltre a questi casi previsti dal codice, la giurisprudenza ha considerato un'altra ipotesi, quella cioè della vendita o della consegna al compratore di una cosa completamente diversa da quella pattuita o comunque inidonea a svolgere la sua funzione economico-sociale, che legittima all'azione di risoluzione senza che operino i rigidi termini di decadenza e di prescrizione sopra accennati.
In tutti questi casi il compratore può chiedere anche il risarcimento del danno se vi sia colpa del venditore.
Il risarcimento infatti è previsto sia qualora il contratto sia stato risolto ( o sia stato ridotto il prezzo ), sia nel caso di vizi o di mancanza di qualità, sia nei casi di risoluzione perché è stato consegnato l'aliud pro alio ( art. 1453 ).
Si tratta in questo caso di risarcimento contrattuale : il compratore non deve dimostrare la colpa del venditore, ma solo la sussistenza dell'inadempimento contrattuale da parte di questi, secondo i ben noti principi del diritto dei contratti.
Affinché il compratore possa essere risarcito, è indispensabile la colpa del venditore, che si manifesta nella mancanza della indispensabile diligenza per adempiere correttamente la propria prestazione. Nonostante il silenzio della legge, la giurisprudenza afferma che il diritto al risarcimento può essere fatto valere anche indipendentemente dalle azioni di risoluzione o di riduzione del prezzo. Oltre all'interesse negativo ( lesione della libertà negoziale ), il compratore ha diritto a vedere risarcito l'interesse positivo, comprensivo del danno emergente (perdita subita, spese per procurarsi altrove il bene, ecc. ) che del lucro cessante ( l'eventuale guadagno che avrebbe potuto derivare dal bene acquistato ).
Anche se esercitata singolarmente, l'azione per danni a causa di vizi o mancanza di qualità della cosa è soggetta al termine di decadenza di 8 giorni e di prescrizione di 1 anno dalla consegna. [6]
3. GLI INDIRIZZI GIURISPRUDENZIALI.
Dopo aver passato in rassegna le parti normative, vale a dire gli articoli dedicati alla compravendita e l'art. 2043 sulla responsabilità extracontrattuale, è arrivato il momento di considerare, in ordine, i contributi della giurisprudenza e della dottrina in merito alla responsabilità del produttore per la fabbricazione e la messa in circolazione di prodotti difettosi.
Le poche cause decise in tema di responsabilità da prodotto difettoso, prima dell'entrata in vigore della disciplina comunitaria, hanno visto di solito l'attore-consumatore vittorioso, ora in base alla clausola generale di responsabilità ex art. 2043 c.c., ora per il tramite dell'art. 2050 c.c. Nello specifico, il produttore di un bene difettoso è stato dichiarato civilmente responsabile dalla nostra giurisprudenza :
a) in termini di colpa per i difetti di progettazione, che riguardano prodotti mal concepiti originariamente, nei quali il difetto non riguarda il singolo esemplare ma l'intera categoria di prodotti (sentenze della Corte d'Appello di Genova del 5/6/1964 e della Cassazione del 21/10/1957 n. 4004) ;
b) a titolo di colpa, ma secondo criteri di responsabilità oggettiva, per i c.d. difetti di fabbricazione, relativi cioè ad un singolo esemplare di una categoria produttiva del tutto immune da difetti o anomalie (caso Saiwa) ; 
c) secondo il criterio dell'attività pericolosa ( art. 2050 c.c. ). Questo articolo è stato applicato anche ai casi di "rischi da sviluppo", in cui il difetto del prodotto nasce dall'inosservanza del patrimonio tecnico conoscitivo disponibile non tanto al momento della fabbricazione ma in uno successivo. [7]
4. (SEGUE) : GLI ANNI '50 E '60.
Negli anni '50 e '60 le Corti di merito applicavano il principio della responsabilità per dolo o per colpa ex art. 2043 c.c. letteralmente inteso.[8]
Il primo esempio è costituito dalla sentenza della Corte d'Appello di Cagliari del 27/6/1958 in cui un rivenditore richiedeva ad un'impresa il risarcimento dei danni derivanti dalla fornitura di un lotto di bevande prodotte con acido carbonico avariato. Nel respingere le richieste del danneggiato, la Corte decise in tal modo :"La responsabilità extracontrattuale, in contrapposto a quella contrattuale, [...] deriva da quell'obbligo vastissimo che impone alla generalità dei soggetti di non arrecare danno ad altri (neminem leadere). Ma i confini di tale obbligo generico sono tracciati dall'art. 2043 che esige il concorso di due azioni strettamente correlative : l'ingiustizia del danno e l'illiceità del fatto. Pertanto : 1) non la lesione di qualsivoglia interesse [...] può dar luogo a responsabilità, ma solo quella di un interesse che trovi tutela nell'ordinamento giuridico ; 2) conseguentemente può considerarsi illecito il fatto solo quando violi un diritto soggettivo, ovvero contravvenga ad un precetto specifico dell'ordinamento giuridico, il cui rispetto è genericamente imposto alla generalità dei soggetti dell'ordinamento stesso ; 3) può sorgere responsabilità extracontrattuale dalla violazione di un diritto soggettivo solo se questo abbia carattere assoluto, abbia cioè, protezione erga omnes. Posti questi principi, è chiaro che la fabbricazione di merci in modo difettoso, a meno che ciò non avvenga in violazione di un interesse generale, ovvero cagioni la lesione di un diritto assoluto, non può costituire fonte di responsabilità extracontrattuale".
Sulla stessa scia si colloca la sentenza del 30/1/1960 della Corte d'Appello di Torino. Era accaduto che in seguito alla rottura dello sterzo di un autocarro era morto un uomo, e la Corte escluse la responsabilità extracontrattuale del costruttore, poiché la semplice messa in circolazione del veicolo "toglie al costruttore qualsiasi valore causale, sia pure indiretto e mediato, nei confronti di eventi dannosi che il veicolo abbia prodotto nei confronti di terzi".
Da questa sentenza emerge il concetto di autoresponsabilità, da intendersi nel senso che le conseguenze dannose derivanti da uso "improprio" di un utensile, di un autoveicolo, di un impianto sono da imputare a colui che è l'artefice di tale uso.
Una sentenza apparentemente analoga a quella appena considerata è stata pronunciata dalla Corte d'Appello di Genova il 5/6/1964. Ecco i fatti : un minore si era ferito usando una pistola giocattolo e i giudici avevano escluso la responsabilità dell'impresa affermando quella dei genitori che non impedirono al minore di fare un uso improprio del giocattolo. Le avvertenze sulla confezione del prodotto informavano sui pericoli in cui si poteva incorrere se, anziché sparare a braccio teso, si fosse impugnata l'arma giocattolo vicino agli occhi. Tali avvertenze, secondo la Corte, interrompevano il nesso di causalità tra il fatto di aver posto sul mercato un prodotto capace di danneggiare i bambini che ne fanno uso e il pregiudizio che ne era effettivamente derivato. La società produttrice, nell'esercizio della sua attività professionale, aveva utilizzato ogni accorgimento tecnico necessario per evitare il danno, quindi nesuna colpa le poteva essere addebitata. Nella sentenza si legge infatti che "l'avvertenza importante, scritta a caratteri tipografici di rilievo nell'apposito foglietto allegato alla pistola giocattolo, vale ad interrompere il nesso di causalità giuridica, il quale è il presupposto della responsabilità, fra il fatto che si vorrebbe imputare al costruttore e fabbricante, di aver posto in commercio per la vendita la pistola giocattolo stessa, capace in qualche modo di recare danno ai bambini che ne fanno uso nei propri divertimenti, ed il pregiudizio dei medesimi, in effetti, riportato". [9] La giurisprudenza degli anni '50 e '60 è caratterizzata da una profonda incertezza e per rendersene conto basta considerare una sentenza della Cassazione del 21/10/1957 n. 4004 che in un caso simile al precedente ha adottato una soluzione molto diversa. 
Attraverso il rinvio puntuale ad un criterio di diligenza oggettiva la Suprema Corte ha potuto affermare la responsabilità dell'impresa produttrice di pistole giocattolo per i danni causati ad un bambino. Secondo la Cassazione, l'apprezzamento della diligenza con la quale occorre valutare il comportamento del fabbricante deve essere collegato alla natura del rapporto cui si riferisce il dovere di condotta e nel caso di fabbricazione di prodotti in serie, trattandosi dello svolgimento di attività professionale, la diligenza deve identificarsi con quella "del produttore memore dei propri impegni e cosciente delle relative responsabilità". Di conseguenza la Corte esclude la responsabilità dei genitori per la mancata sorveglianza del figlio e afferma la negligenza del fabbricante che, dovendo prevedere l'uso anormale del prodotto da parte dei piccoli utenti, non aveva adottato i meccanismi opportuni per impedire l'estrazione del copritamburo. La motivazione è la seguente :" (...) trattandosi di un'arma giocattolo, destinata perciò al divertimento e all'uso, con relative esplosioni di capsule metalliche, tanto che aveva provveduto all'applicazione del copritamburo, (...) avrebbero dovuto prevedere che i bambini facessero uso della pistola anche senza copritamburo, essendo questo un fatto prevedibile e rientrante nella normalità degli avvenimenti umani. In tale possibilità e mancata previsione (...) esattamente la corte di merito ha fatto consistere la colpa".
Il consumatore, anche allegando la prova del difetto di progettazione o di fabbricazione del prodotto, non sempre è riuscito ad ottenere il risarcimento del danno. Il produttore può provare che l'evento dannoso è stato provocato da caso fortuito, cioè da un evento imprevedibile e inevitabile ovvero può dimostrare che il danno è dovuto al comportamento colposo del consumatore, che risulta quindi essere l'unico responsabile. [10]
5. (SEGUE) : IL CASO SAIWA.
L'indirizzo giurisprudenziale in materia di responsabilità civile del produttore sembra subire una svolta decisiva con la sentenza della Cassazione del 25/5/1964 n. 1270 relativa al celebre caso Saiwa.
Ecco i fatti : una coppia di coniugi, che aveva acquistato una scatola di biscotti presso l'abituale fornitore, manifestò disturbi gastrointestinali dopo averne ingeriti alcuni ; fece ricorso alle cure mediche e fu loro diagnosticata una enterocolite febbrile originata, secondo il medico, da generi alimentari avariati. La causa dei disturbi venne individuata nei biscotti adulterati, come fu poi confermato dall'analisi compiuta dalla stessa Saiwa sui biscotti in questione. I danneggiati agirono nei confronti del rivenditore e del produttore chiedendo la loro condanna in solido al risarcimento del danno patrimoniale subito, che consisteva nel rimborso delle spese mediche sostenute. [11]
La richiesta di risarcimento rivolta al produttore in solido con il rivenditore fu respinta dal giudice di primo grado e poi accolta in appello limitatamente alla ditta produttrice, escludendosi ogni responsabilità del rivenditore essendo stato il prodotto rivenduto in confezione originale e sigillata. La ditta produttrice ricorreva in Cassazione affermando che in appello era stata condannata senza che gli attori avessero provato la colpa nel procedimento di fabbricazione ( presupposto essenziale della responsabilità aquiliana ), mentre vi era la possibilità che l'avaria riscontrata fosse attribuibile alla cattiva conservazione della merce da parte del dettagliante, il che avrebbe automaticamente escluso ogni sua responsabilità.
La Corte di Cassazione respinse il ricorso in base a due argomentazioni :
1) nel caso di danni provocati dal consumo di generi alimentari avariati, usciti dalla fabbrica in confezione sigillata, non vi può essere responsabilità aquiliana del rivenditore a meno che non si provi la sua colpa nella cattiva conservazione, o nella vendita oltre i termini di scadenza della merce ;
2) esclusa la colpa del rivenditore, è legittimo fare risalire la causa dell'alterazione alla negligenza del fabbricante attraverso un processo logico-presuntivo, rimesso alla discrezionalità del giudice di merito e sottratto quindi al controllo della Cassazione.
Nella sentenza infatti si legge che :"Il rivenditore al minuto non risponde a titolo di responsabilità aquiliana dei danni cagionati dalla ingestione di generi alimentari o dolciari avariati contenuti in involucri sigillati da lui venduti così come li ha ricevuti dalla ditta fabbricante, ove non sia dimostrata la sua colpa riguardo alla riscontrata avaria (cattiva conservazione della merce, alienazione oltre i limiti temporali di garanzia, ecc.)".
Se per il consumatore la tutela migliore è quella aquiliana, i rimedi tradizionali sono invece poco adeguati per proteggere il terzo danneggiato (quale può essere un familiare oppure un ospite che viene leso dal bene con cui entra casualmente in contatto). Il sistema di produzione di massa comporta naturalmente dei difetti tecnici e le difficoltà, soprattutto economiche, di eliminarli. Non sempre quindi, di fronte ai difetti del prodotto, può parlarsi di una colpa nel processo di fabbricazione. Anche nei casi in cui il danno può farsi risalire a una violazione del dovere di diligenza gravante sul produttore, è difficile identificare e provare la negligenza nel non avere preso le necessarie precauzioni per evitare il verificarsi del difetto o per non averlo scoperto o eliminato.
La sentenza Saiwa affronta e risolve, in maniera favorevole per il consumatore, questa difficoltà probatoria attraverso un ragionamento che pur attribuendo formalmente la responsabilità a titolo di colpa, finisce per attribuirgli una diversa configurazione giuridica. Quando si ragiona in termini di colpa, l'onere della prova dovrebbe ricadere sull'attore. Questo avviene in teoria, perché in pratica la Corte di Cassazione può, con un ragionamento logico-deduttivo, ricavare la negligenza del fabbricante dall'alterazione del prodotto. In realtà i giudici di merito italiani hanno fatto ricorso al ragionamento presuntivo e alla massima di esperienza in misura consistente. Il difetto consisteva nell'avaria della merce che, con ragionevole probabilità, poteva essere addebitata a un intermediario per la cattiva conservazione che ne avesse fatto. In realtà la natura del difetto non escludeva qualsiasi colpa degli intermediari ma anche se allo stato degli atti non c'era alcuna prova diretta in tal senso, tale possibilità esisteva e nessuna risultanza processuale era in senso contrario.
Quando si riconduce il difetto insorto alla negligenza nel processo di fabbricazione, si crea un'inversione dell'onere della prova : il convenuto ( il produttore ) può provare la propria diligenza, ma poiché è estremamente difficile dimostrare l'efficienza e la sicurezza in assoluto del processo produttivo, finisce per configurarsi a suo carico una responsabilità di natura oggettiva. [12]
6. (SEGUE) : LE PIU' RECENTI TENDENZE GIURISPRUDENZIALI.
Un'altra significativa sentenza dopo il caso Saiwa è quella del Tribunale di Napoli del 5/12/1969. 
I fatti sono i seguenti : nel serbatoio di una vettura era stata introdotta della benzina mista ad acqua e ciò aveva procurato un danno economico al proprietario della vettura, anche per le opportunità di profitto perse il giorno dell'incidente. Il danneggiato chiese il risarcimento del danno patrimoniale subito e la Corte attribuì la responsabilità al fabbricante, basandosi sulla sentenza del caso Saiwa. In secondo grado invece fu escluso il risarcimento del danno subito dall'acquirente sostenendosi che questo poteva essere "agevolmente" evitato dal consumatore che avesse fatto uso dell'ordinaria diligenza.
In questo caso c'è da segnalare l'errore commesso dal Tribunale di primo grado che aveva escluso una possibile corresponsabilità da parte del venditore, il quale avrebbe potuto evitare il verificarsi del danno. 
Un'ulteriore prova della confusione giurisprudenziale è inoltre rappresentato dal caso della bottiglia di coca-cola esplosa sul banco del rivenditore. La responsabilità del rivenditore, che era peraltro rimasto ferito, venne esclusa e la stessa fu invece attribuita integralmente al produttore-imbottigliatore, ex art. 2043 c.c., in quanto il "recipiente era difettoso". 
Si può ancora citare una sentenza del Tribunale di Pavia nella quale, in riferimento al danno provocato da un elettrodomestico che presentava un dispositivo di sicurezza difettoso, i giudici attribuirono la causa del danno ad un uso improprio del prodotto da parte dell'utente, negando quindi ogni responsabilità del fabbricante.
Le sentenze prese sinora in considerazione evidenziano che l'orientamento delle corti non è affatto uniforme, e che la decisione del caso Saiwa spesso è ignorata oppure male interpretata. La responsabilità è ancora valutata ex art. 2043 c.c., modificato leggermente con la presunzione di fatto della responsabilità del produttore, salvo prova contraria che è sempre ammessa. 
A partire dalla metà degli anni '70 la confusione giurisprudenziale è ulteriormente aumentata. Alcune controversie sono state decise applicando l'art. 2043 c.c., mentre per altre si è fatto ricorso agli artt. 2050 e 2051 c.c. 
Un esempio significativo è rappresentato dalla sentenza della Corte d'Appello di Roma del 24/2/1976. Nel pezzo di ricambio di un'automobile era stato riscontrato un difetto dovuto ad un errore di pressofusione. La Corte attribuì la responsabilità all'impresa produttrice ; nella sentenza si legge che "per quanto non risulti esplicitamente indicata nell'impugnata sentenza la disposizione legislativa fonte della ritenuta responsabilità della società costruttrice dell'autovettura, dalla motivazione nel suo complesso sembra doversi realizzare nel disposto dell'art. 2049 c.c. per il concorrente fatto colposo dei dipendenti della società addetti alla produzione e controllo del pezzo difettoso". 
Quattro anni più tardi la Cassazione, in relazione al caso dello scoppio di una bottiglia contenente una bibita gassata, accertò una responsabilità generale ex art. 2043 c.c. in concomitanza con una responsabilità di tipo contrattuale ex art. 1218 c.c. nei confronti del rivenditore della bottiglia in esame e, allo stesso modo, la ditta produttrice fu incriminata per aver immesso sul mercato un prodotto rivelatosi difettoso e, come tale, dannoso per i terzi. 
Per disciplinare la responsabilità del produttore la giurisprudenza ha fatto ricorso anche all'art. 2050 c.c. che regola l'esercizio di attività pericolose. Si è quindi riconosciuta la responsabilità di un fabbricante di bombolette di insetticida, del tipo aerosol, che era scoppiata, perché la produzione e la distribuzione di quel tipo di prodotto costituisce attività pericolosa.
L'art. 2050 c.c. si applica" non solo alle attività che tali sono qualificate dalle leggi di P.S. o da altre norme speciali ma anche da tutte le altre che, pur non essendo specificate o disciplinate, presentino tuttavia una pericolosità intrinseca o comunque dipendente dalle modalità di esercizio o dai mezzi di lavoro impiegati". 
A chi esercita un'attività pericolosa si applica l'art. 2050 c.c. con la relativa presunzione di colpa ; il danneggiato, per affermare la responsabilità della ditta produttrice, deve solo provare il nesso di causalità tra l'attività svolta dalla società fabbricante e il danno subito, salva la possibilità per l'impresa di fornire la prova liberatoria di "avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno". Nel caso sopra citato l'attore riuscì a provare il nesso di causa-effetto mentre l'impresa convenuta non fu in grado di dimostrare di avere adottato nelle varie fasi di preparazione del prodotto tutte le precauzioni che la prudenza e la tecnica indicavano opportune e idonee ad evitare il danno.
La giurisprudenza ha applicato l'art. 2050 anche all'attività di produzione e commercializzazione di farmaci. La responsabilità per difetto di prodotti medicinali è nota ai giudici italiani, soprattutto in relazione ad un farmaco emoderivato (il trilergan), confezionato dalla Crinos S.p.A. con gammaglobuline importate dagli U.S.A. dall'Istituto sieroterapico milanese, poi risultate infette dal virus dell'epatite B, tanto da ordinare il sequestro del prodotto da parte del Ministero della Sanità.
Nella sentenza del 9/10/1986 del Tribunale di Napoli si legge che l'art. 2050 è inapplicabile all'attività di produzione e commercializzazione di farmaci poiché non si tratta di attività pericolosa. In senso opposto si erano pronunciati la Cassazione (sent. n. 6241 del 15/7/1987) e il Tribunale di Milano (19/11/1987) che, in analoghi casi di danni provocati dal Trilergan, avevano ritenuto applicabile all'attività farmaceutica l'art. 2050.
Ritenuta operante la presunzione di responsabilità in capo al produttore, questi ha dovuto provare di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza e di aver impiegato ogni cura o misura atta ad impedire l'evento dannoso. Il produttore non ha soddisfatto l'onere probatorio perché non si è attenuto alle più avanzate tecniche note, ed anche astrattamente possibili, all'epoca della produzione. Le sentenze prese in considerazione fanno sì che il produttore farmaceutico possa essere considerato responsabile dei c.d. "rischi da sviluppo" : il test di controllo per rilevare la presenza del virus dell'epatite B era sì disponibile, ma non fu eseguito sulle gammaglobuline poiché non si riteneva, e non si sapeva, che queste ultime potessero essere portatrici di agenti patogeni infettivi.
La Corte di Cassazione concorda con quanto hanno affermato i giudici di merito che hanno ravvisato elementi di negligenza dell'impresa nell'impiego di gammaglobuline, affermando la correttezza delle valutazioni di merito in ordine alla prevedibilità, da parte della Crinos S.p.A., della natura pericolosa dell'attività espletata, tenuto conto non soltanto delle disposizioni civili e penali vigenti al tempo, ma anche dei comportamenti che avrebbe dovuto tenere (ricerca della presenza del virus nel plasma e nel siero ; riconoscimento che le gammaglobuline presentassero rischio patogeno nei casi di non corretto procedimento estrattivo).
La giurisprudenza, attraverso l'inversione dell'onere della prova o ricorrendo a procedimenti logico-deduttivi oppure ancora attraverso presunzioni difficilmente superabili dalla prova contraria tende, anche se con difficoltà, ad allontanarsi dal criterio della colpa per avvicinarsi a quello della responsabilità oggettiva.
Identiche sono le conclusioni del Tribunale di Milano. La tesi della difesa, fondata sull'adozione di misure di controllo imposte, e dovute, ex lege, sia ai sensi della normativa italiana, sia in vista degli standard previsti negli U.S.A. al momento dell'importazione, è stata ritenuta insufficiente.
In che momento bisognava misurare la potenziale affidabilità delle tecniche di controllo degli emoderivati ? E' stata data una lettura a priori dell'art. 2050 c.c., sì che le tecniche di controllo possibili per la ditta produttrice sono quelle conosciute o conoscibili, dal momento in cui cominciarono le importazioni di gammaglobuline fino a quando fu ordinato il sequestro del medicinale. Fu irrilevante che le tecniche di esame opportune fossero applicate solo al plasma e al sangue e non ancora alle gammaglobuline, di cui si ignorava del tutto la potenziale infettività. Tali tecniche erano conosciute e i convenuti non poterono assolvere l'onere probatorio. La lettura a priori dell'art. 2050 finisce per includere nell'imputazione oggettiva anche fattori sopravvenuti come i rischi da sviluppo.
Il Tribunale di Napoli non accolse tale orientamento ; escluse l'applicazione dell'art. 2050 all'attività di produzione di farmaci e risolse il caso conformemente all'art. 6 del D.P.R. 224 del 1988 che prevede l'esonero di responsabilità del produttore che provi che lo stato delle conoscenze al momento della messa in circolazione del prodotto non permetteva di scoprire l'esistenza del difetto. La sentenza non fa riferimento alla normativa comunitaria (che non era ancora stata attuata) anche se avrebbe potuto rappresentare un ottimo riferimento sulla correttezza delle conclusioni del Tribunale. Quest'ultimo invece negò l'applicabilità dell'art. 2050 alla fattispecie in esame non trattandosi di attività pericolosa in relazione ai mezzi e alle modalità di lavoro.
Una parte della dottrina, riferendosi alle prime due sentenze analizzate, ha voluto vedere un'evoluzione verso un sistema di "enterprise liability", che non ammette prova liberatoria, mascherato dal ricorso all'art. 2050 c.c. In questo modo il fabbricante dovrebbe rispondere anche dei danni che erano assolutamente imprevedibili al momento della produzione.
La dottrina maggioritaria è invece concorde nel riconoscere l'inadeguatezza del sistema di responsabilità per rischio d'impresa nei casi in questione. L'entità del rischio deve essere commisurata al rischio tipico, cioè alla serie di eventi dannosi che di solito si verificano a seguito di disfunzioni tecniche nel processo di fabbricazione, che abbiano determinato un difetto nel prodotto. In questi casi manca il presupposto della responsabilità per rischio d'impresa, cioè la possibilità di calcolare e prevedere il rischio : solo un rischio prevedibile può "essere valutato e ridistribuito nel suo costo, tra tutti gli acquirenti finali del prodotto".
I danni in questione non derivano da "difetti", a meno di non voler intendere il difetto come una condizione del prodotto, ma in questo caso il ricorso al concetto di difetto sarebbe solo una finzione. Inoltre applicando un regime di responsabilità oggettiva che riguardi anche i rischi da sviluppo si scoraggerebbe l'attività farmaceutica, con un conseguente aumento indiscriminato dei prezzi.
Il Tribunale di Napoli ha scelto una soluzione che non costituisce un ingiustificato privilegio del produttore di farmaci, ma ha voluto salvaguardare l'interesse a poter disporre di prodotti che si ha il permesso di creare nonostante esista un ridotto margine di rischio. Si tratta di un risultato che trova conferma nell'art. 6 del D.P.R. n. 224 del 1988.[13]
7. CONCORSO TRA RESPONSABILITA' CONTRATTUALE E RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE.
Nell'art. 1494 si legge che " il venditore deve altresì risarcire al compratore i danni derivati dai vizi della cosa " : è il caso del compratore che riceve un bene viziato che, a causa di un difetto, produce danni ad altri suoi beni, alla sua persona o a terzi.
La giurisprudenza riconduce la fattispecie descritta dall'art. 1494 alla responsabilità contrattuale : di conseguenza è necessaria la colpa del venditore e l'azione di risarcimento è sottoposta ai brevi termini di decadenza e di prescrizione previsti dall'art. 1495.
Dottrina e giurisprudenza sono d'accordo nel ritenere che l'azione per danni possa concorrere con l'azione aquiliana ogni volta in cui il venditore abbia tenuto un comportamento che violi diritti assoluti, che pregiudichi cioè interessi del compratore nati al di fuori del negozio.
Poiché l'azione di risarcimento non ha carattere accessorio rispetto ai rimedi tipici della garanzia per vizi, ne deriva che il compratore può proporre la sola azione di danni senza chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo.
In sintesi :
la garanzia per vizi del bene venduto opera nei confronti del venditore a prescindere dalla sussistenza della colpa. Il patto con cui si esclude la garanzia non ha effetto se il venditore ha taciuto in malafede all'acquirente i difetti della cosa e in questo caso l'acquirente dovrà dimostrare il dolo. La garanzia non opera neanche se i difetti erano conosciuti o facilmente conoscibili al momento della vendita, ma grava sul venditore convenuto l'onere di provarli, a meno che egli abbia dichiarato che la cosa era esente da vizi. La garanzia per la qualità del bene venduto è naturalmente dovuta, a prescindere dalla dimostrazione che il venditore offra al momento della vendita ;
solo se sussiste la colpa del venditore l'acquirente può ottenere il risarcimento del danno causato dall'inadempimento o dal bene difettoso. La legge non accolla però al compratore l'onere di provare la colpa del venditore : l'art. 1494 dispone infatti che " il venditore è tenuto verso il compratore al risarcimento del danno, se non prova di aver ignorato senza colpa i vizi della cosa" mentre l'art. 1218 prevede che " il debitore che non adempie alla prestazione dovuta è tenuto a risarcire il danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo deriva da causa a lui non imputabile" ;
il compratore può chiedere il risarcimento dei danni prodotti dalla cosa viziata solo al venditore attraverso l'azione contrattuale di responsabilità. Per agire invece nei confronti del produttore, prima dell'entrata in vigore del decreto n. 224/88, doveva ricorrere all'istituto della responsabilità extracontrattuale : doveva quindi provare il nesso causale tra il vizio della cosa e il danno oltre alla colpa del produttore. Era soprattutto quest'ultimo requisito a rendere l'azione molto complessa e tutto ciò andava a vantaggio dei produttori e a discapito dei consumatori.
Tuttavia solo agendo ex art. 2043 si poteva coinvolgere il produttore. [14]
8. LA DOTTRINA.
Dopo aver passato in rassegna la giurisprudenza, è venuto il momento di vedere qual' è stato il contributo offerto dal formante dottrinale al tema della responsabilità del produttore.
La giurisprudenza si è evoluta lentamente in tema di responsabilità del produttore perché è stato difficile adattare alla nuova realtà le norme del codice civile che erano state introdotte per disciplinare delle situazioni molto diverse da quelle attuali.
Anche la dottrina ha dovuto compiere degli sforzi notevoli per superare il dato normativo. Le controversie relative ai danni da prodotto vengono ricondotte sul terreno della responsabilità extracontrattuale. La responsabilità aquiliana è impergnata esclusivamente sul criterio della colpa, ma non è in grado di tutelare adeguatamente il consumatore. Alcuni autori difendono con forza il criterio della colpa perché ritengono che esso, sanzionando il fabbricante per la negligente costruzione del prodotto, lo stimolerebbe di conseguenza a ottimizzare gli standard di sicurezza e a perfezionare i sistemi di produzione. La dottrina ha invece preferito escogitare nuovi rimedi per proteggere al meglio il consumatore. 
La prima difficoltà da superare era rappresentata dall'affermazione secondo la quale non può esistere una responsabilità senza colpa. La dottrina ha quindi dimostrato che il sistema delle norme sulla responsabilità extracontrattuale non è unicamente ancorato alla colpa come unico criterio di imputazione delle responsabilità stessa. Di conseguenza la sostituzione della colpa con altri criteri di imputazione oggettivi fa cadere il costo dei danni sulle sfere giuridiche più idonee a sopportarlo e ciò risulta essere più funzionale alla comparazione degli interessi del danneggiante e del danneggiato.
Un esame puntuale della normativa ha dimostrato che esistono numerosi criteri di responsabilità : quello della qualità del soggetto (cheapest cost avoider), quello della natura dell'attività, quello dell'esposizione al pericolo e infine quello del rischio d'impresa. L'attenzione che gli studiosi avevano dedicato al tema della responsabilità senza colpa si focalizza sul problema dei rischi incolpevoli connessi all'attività imprenditoriale. E' il tema della responsabilità per i danni derivanti da difetti inevitabili del prodotto, danni che non sono conseguenza di un singolo atto, ma che sono conducibili ad attività organizzate e per i quali non si può invocare la responsabilità per colpa. Ne è derivata la teorizzazione del Trimarchi di una responsabilità oggettiva per rischio d'impresa, il quale sottolineò l'insufficienza del criterio della colpa non solo per le difficoltà probatorie ma anche in riferimento alla complessità dell'organizzazione aziendale. 
Il principio del rischio d'impresa soddisfa il problema dei difetti di produzione (difetti verificatisi nella fase di fabbricazione del prodotto ad opera dei dipendenti o dei macchinari dell'impresa), da tenere distinti dai difetti di progettazione (che riguardano la fase di ideazione del prodotto). Nel primo caso l'impresa produttrice risponde oggettivamente dei danni causati ai consumatori, poiché l'imprenditore deve accollarsi, ex art. 2049 c.c., le conseguenze degli eventi dannosi provocati dai dipendenti o, ex art. 2051 c.c., dal cattivo funzionamento dei macchinari ; nel secondo l'impresa risponderà solo a titolo di colpa poiché gli errori di progettazione non costituiscono un rischio tipico e calcolabile del processo di produzione. Taluni studiosi hanno rilevato che nel nostro ordinamento non è consentito fare una distinzione di criteri di imputazione della responsabilità in funzione della diversa natura dei difetti dei prodotti e non è possibile attribuire agli errori di progettazione un trattamento più favorevole rispetto agli errori di produzione perché nel primo caso i consumatori danneggiati incontrano numerose difficoltà nel provare la colpa dell'impresa. E' necessario infatti dimostrare la difformità del prodotto dannoso da un modello astratto (quello esigibile alla stregua di una diligente tecnica produttiva) che non si può giustificare, soprattutto se si considera che gli errori di progettazione caratterizzano tutti i prodotti che appartengono alla serie difettosa.
Una parte della dottrina propone di utilizzare un solo criterio di imputazione, ispirato a principi di responsabilità oggettiva addebitando al produttore ogni danno che derivi ai terzi dall'organizzazione dell'impresa, senza alcuna considerazione del "difetto" : è chiaro il riferimento all'art. 2049 c.c. Questa norma lega la responsabilità dei padroni e dei committenti al presupposto del rapporto di preposizione. Tuttavia un'applicazione dell'art. 2049 c.c. condurrebbe a quegli stessi risultati riduttivi che comporta l'impiego dell'art. 2043 c.c. : infatti, pur essendo oggettiva la responsabilità del padrone o committente, essa presuppone un'autonoma responsabilità per colpa del preposto o commesso, per cui la colpa si ripropone, sia pure in via mediata, nell'applicazione della norma in discorso. L'art. 2049 c.c., anche se non prevede espressamente una responsabilità dell'impresa come tale, si applica alle ipotesi in cui la preposizione posta a fondamento della responsabilità si inscrive in un'organizzazione di impresa ; è allora ipotizzabile un'applicazione analogica a ipotesi di danno generato dall'impresa ma non riconducibile al fatto colposo di un dipendente ? La risposta è affermativa, visto che l'art. 2049 c.c. non può essere considerato una norma eccezionale rispetto all'art. 2043 c.c. Il rapporto di preposizione non esaurisce l'organizzazione dell'impresa, ma ne costituisce una delle estrinsecazioni principali. L'art. 2049, riferito all'impresa, significa "imputazione della responsabilità all'organizzazione di essa per la parte in cui quest'ultima è costituita dai rapporti tra l'impresa e i suoi prestatori d'opera". La norma quindi può trovare applicazione in via analogica alle ipotesi in cui l'organizzazione dell'impresa venga coinvolta nella sua totalità quando il danno sia provocato dal suo oggettivo funzionamento più che dal comportamento negligente del singolo dipendente. [15]


NOTE
[1] G. Alpa e contributi vari "Responsabilità del produttore e nuove forme di tutela del consumatore", Milano, 1993, pp. 3-4.
[2] Tratto da "Cislcomo-Adiconsum" :"Prodotti difettosi".
[3] G. Alpa e contributi vari "Responsabilità del produttore e nuove forme di tutela del consumatore", Milano, 1993, pp. 4-5,10.
[4] Tratto da "Cislcomo-Adiconsum" :"Prodotti difettosi".
[5] , G. Alpa e contributi vari "Responsabilità del produttore e nuove forme di tutela del consumatore", Milano, 1993, p.19.
[6] Tratto da "Cislcomo-Adiconsum" :"Prodotti difettosi".
[7] Diritto & Diritti, rivista giuridica on line, "La responsabilità per prodotti difettosi" del luglio 2001.
[8] G. Alpa e contributi vari "Responsabilità del produttore e nuove forme di tutela del consumatore", Milano, 1993, p. 29.
[9] G. Alpa e contributi vari "Responsabilità del produttore e nuove forme di tutela del consumatore", Milano, 1993, p. 31.
[10] Diritto & Diritti, rivista giuridica on line, "La responsabilità per prodotti difettosi" del luglio 2001.
[11] G. Alpa e contributi vari "Responsabilità del produttore e nuove forme di tutela del consumatore", Milano, 1993, pp. 34-35.
[12] Diritto & Diritti, rivista giuridica on line, "La responsabilità per prodotti difettosi" del luglio 2001.
[13] Diritto & Diritti, rivista giuridica on line, "La responsabilità per prodotti difettosi" del luglio 2001.
[14] Tratto da "Cislcomo-Adiconsum" :"Prodotti difettosi".
[15] Diritto & Diritti, rivista giuridica on line, "La responsabilità per prodotti difettosi" del luglio 2001.