inserito in Diritto&Diritti nel marzo 2003

Il diritto alla difesa, il ricorso e le modalità di comunicazione dei provvedimenti che riguardano i cittadini extracomunitari (paola balbo)*

 

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Fra i temi meno discussi e più complessi che attengono al D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 il diritto alla difesa va menzionato per primo, includendo in esso le modalità di proporre ricorso oltre che di effettuare la comunicazione dei provvedimenti.

Allo straniero devono essere garantiti alcuni diritti fondamentali, nonché il riconoscimento della parità di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell’accesso ai pubblici servizi. Ciò significa anche che, fatte salve sempre ‘motivate e gravi ragioni attinenti all’amministrazione della giustizia e alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale’ (art. 2, comma 7), lo straniero ha diritto alla protezione diplomatica e quindi a prendere contatto con le autorità del Paese di cui è cittadino, agevolato in ciò da ogni pubblico ufficiale interessato al procedimento. A tale diritto corrisponde il dovere attivo dell’autorità giudiziaria, di pubblica sicurezza e di ogni pubblico ufficiale di informare la rappresentanza diplomatica o consolare più vicina del Paese di appartenenza dello straniero ogni volta che debba essere adottato un provvedimento che attenga alla sfera della libertà personale ovvero allo status personale e o sanitario, di allontanamento dal territorio, di tutela dei minori. Tale dovere trova un ulteriore onere negativo ove si fa carico al pubblico ufficiale di non trasmettere informazioni qualora siano riferite a stranieri:

che abbiano presentato domanda di asilo,

ai quali sia riconosciuto  lo status di rifugiato,

nei cui confronti siano adottate misure temporanee di protezione per motivi umanitari[1].

 

In altri termini potremmo individuare tre fattispecie attraverso cui si esercita il dovere del pubblico ufficiale di comunicazione all’autorità diplomatica: obbligatoria in tutte le situazioni che limitano o interagiscono con la sfera personale dello straniero; facoltativa in tutte le situazioni di agevolazione dei collegamenti tra il soggetto e le autorità consolari; non richiesta (anzi potremmo dire obbligatoria in senso negativo) quando la comunicazione potrebbe mettere a rischio i diritti fondamentali dello straniero e, nei casi estremi, la vita.

Dal momento che vengono coinvolte tutte le pubbliche amministrazioni a livello nazionale e locale, cerchiamo di individuare le modalità operative più importanti che vanno ad incidere sull’ambito penale. Il comma 6-bis dell’art. 3 premette un elemento importante, il trattamento dei dati per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali da parte del Ministero dell’Interno e per fini statistici sul fenomeno dell’immigrazione extracomunitaria. Possiamo  ricavare dette finalità istituzionali dai commi 2, 3 e 8 dell’art. 3 e dall’art. 11 consistenti precisamente in quanto segue:

         indicare le misure di carattere economico e sociale nei confronti degli stranieri che soggiornano nel territorio dello Stato e non siano altrimenti disciplinate dalle normative vigenti,

         individuare i criteri generali per la definizione dei flussi di ingresso,

         delineare gli interventi pubblici che favoriscano le relazioni familiari, l’inserimento sociale e l’integrazione culturale degli stranieri,

         garantire che l’attuazione dei punti precedenti e, in particolare, l’ultimo non risultino in conflitto con l’ordinamento giuridico,

         prevedere ogni possibile strumento per un positivo reinserimento nei Paesi di origine,

         attuare e proseguire, attraverso accordi internazionali, la collaborazione internazionale per contrastare l’immigrazione clandestina.

 

La raccolta di informazioni per le finalità citate deve comunque tenere conto delle compatibilità con i servizi informativi di livello extranazionale, nonché delle disposizioni vigenti in tema di protezione dei dati personali. Sul diritto di accesso agli atti vale la pena soffermarsi. Data la particolare esigenza di duplice tutela degli stranieri da un lato e del territorio dalla presenza di soggetti dediti ad attività criminali particolarmente efferate dall’altro, il testo unico regolamenta alcune fasi relative al diritto di informazione dei provvedimenti a carico di o che abbiano come destinatario uno straniero. Viene garantita la parità di trattamento con il cittadino quanto alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi e in più passaggi della normativa si fa richiamo all’obbligo di traduzione dei provvedimenti concernenti l’ingresso, il soggiorno e l’espulsione in una lingua comprensibile al destinatario.  Il regolamento di attuazione[2] inoltre dà facoltà ai cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia di utilizzare le dichiarazioni sostitutive per dichiarare stati, fatti e qualità personali certificabili o attestabili da parte di soggetti pubblici o privati italiani ed analogamente tutte le situazioni non certificabili da parte di soggetti italiani sono documentati mediante certificati o attestazioni rilasciati dalle competenti autorità dello Stato di provenienza, corredati di debita traduzione in lingua italiana autenticata dall’autorità consolare italiana (artt, 2 e 4 della legge 4 gennaio 1969, n. 15)[3].

L’art. 5 del D. Lgs. n. 286 del 1998 appare novellato dal nuovo comma 2-bis che prescrive i rilievi fotodattiloscopici per ogni straniero che richieda il permesso di soggiorno ovvero il suo rinnovo (comma 4-bis), mentre l’art. 9, comma 1, del D. Lgs. n. 394 del 1999 dava facoltà agli addetti della questura di richiedere allo straniero, in luogo delle fotografie, di ‘farsi ritrarre da apposita apparecchiatura per il trattamento automatizzato dell’immagine’, lasciando in tal senso spazio ad una valutazione discrezionale connessa ai singoli casi. La sottoposizione a tali rilievi è altresì prevista dalla normativa vigente in tutti i casi nei quali vi sia motivo di dubitare dell’identità personale dello straniero (art. 6, comma 4)[4].

 

Se da un lato il cittadino straniero ha la facoltà di accedere agli atti[5] e valersi degli strumenti introdotti dalla legge in materia di semplificazione amministrativa[6], dall’altro la normativa sull’immigrazione si è fatta forza del dettato degli art. 22, 23 e 24 della legge 7 agosto 1990 n. 241 sul diniego del diritto di accesso accentuando l’esclusione di tale diritto, ovvero la divulgazione del contenuto di un documento (nel caso di specie il diniego del visto) stante la presenza di motivi di sicurezza o di ordine pubblico. Ciò che tuttavia suscita perplessità è la legittimità di una tale disposizione – non dimentichiamo che il comma 1 dell’art. 24 consente un ampliamento della casistica dei divieti in tutti i casi ‘altrimenti previsti dall’ordinamento’, ma impone che vengano definite, mediante l’adozione di decreti, le modalità di esclusione del diritto di accesso in relazione alle esigenze di salvaguardare:

la sicurezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali (estensibile al terrorismo collegabile alla presenza di stranieri o ad associazioni eversive),

la politica monetaria e valutaria (potrebbe entrare in gioco la presenza di criminalità organizzata facente capo ad organizzazioni straniere o che si servano di persone di diversa nazionalità),

l’ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità,

per citare solo quelle, fra le ipotesi previste dalla legge n. 241/90, di diretta attinenza con la presente trattazione.

Il dubbio nasce non dal divieto di accesso, bensì dal divieto di motivazione del provvedimento.  L’articolo 4, comma 2, terzo paragrafo del D. Lgs. n. 286/98 recita testualmente: “In deroga a quanto stabilito dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, per motivi di sicurezza o di ordine pubblico il diniego non deve essere motivato, salvo quando riguarda le domande di visto presentate ai sensi degli articoli 22, 24, 26, 27, 28, 29, 36 e 39”. La legge n. 241/90, infatti, individua casi per i quali sia possibile vietare l’accesso agli atti presentandosi esigenze di difesa, si è detto, ma non stabilisce in nessun punto che non debba essere motivato un atto amministrativo fatta eccezione per poche fattispecie. La stessa legge n. 241/90 nella dettato letterale chiaramente stabilisce che “ Il diritto di accesso è escluso per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi dell’art. 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801 nonché nei casi di segreto o di divieto di divulgazione altrimenti previsti dall’ordinamento[7] (art. 24, comma 1) e ancora “Con i decreti di cui al comma 2 sono altresì stabilite norme particolari per assicurare che l’accesso ai dati raccolti mediante strumenti informatici avvenga nel rispetto delle esigenze di cui al medesimo comma 2” (art. 24, comma 3) per concludere che “Restano ferme  le disposizioni previste dall’art. 9 della legge 1° aprile 1981, n. 121, come modificato dall’at. 26 della legge 10 ottobre 1986, n. 668, e delle relative norme di attuazione nonché ogni altra disposizione attualmente vigente che limiti l’accesso ai documenti amministrativi” (art. 24, comma 5) e pertanto l’amministrazione pubblica, intesa in senso lato, ha facoltà di differire l’accesso fino a quando “la conoscenza di essi possa impedire o gravemente ostacolare lo svolgimento dell’azione amministrativa” (art. 24, comma 6). Viene data comunque la possibilità di ricorrere al tribunale amministrativo regionale qualora alla richiesta di prendere visione dei documenti non segua entro trenta giorni una risposta, assumendo il silenzio valore di rifiuto. In altri termini la legge n. 241/90 ha lo scopo e il potere di regolare il diritto di accesso ma prevede che ogni provvedimento amministrativo debba essere motivato, salvo si tratti di atti normativi e di quelli a contenuto generale (art. 3, commi 1 e 2), per cui ne deriverebbe almeno in apparenza un contrasto rispetto al disposto del D. Lgs. n. 286/98.

Il terzo elemento della analisi riguarda il comma 3 dell’art. 24, ove si fa riferimento all’accesso ai dati raccolti. Si intersecano qui le disposizioni contenute nella legge 31 dicembre 1996, n. 675, nel D. Lgs. 11 maggio 1999 n. 135 e nel D. Lgs. 286/98. La raccolta di dati, prevista dall’art. 2 del D. Lgs. n. 286/98 deve comunque garantire la tutela degli stessi, presumibilmente, una facoltà del soggetto di prendere visione di quanto lo riguardi, per esempio in ragione di un diniego di visto per ragioni di lavoro o ricongiungimento familiare. Premessa la garanzia istituzionale che determina il trattamento dei dati idonei a rivelare i provvedimenti  elencati dall’art. 686, commi 1, lett. a) e d), 2 e 3 del c.p.p. per fini istituzionali (artt. 24 e 27 della legge n. 675/96), assunta la tutela altresì dei dati trasmessi all’estero entro il quadro internazionale della lotta alla criminalità e all’immigrazione clandestina (art. 28 cit.), è fatta salva comunque la possibilità di adire l’autorità giudiziaria o di ricorrere al Garante per la privacy per la tutela dei diritti derivanti dal trattamento dei propri dati personali (artt. 13 e 29 cit.). E’ del resto previsto che il trattamento dei dati personali effettuato per trarne per sé o per altri profitto o recare ad altri un danno, sia punito con la reclusione sino a due anni o, se il fatto si realizza nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da tre mesi a due anni e salvo che non costituisca più grave reato (art. 35 cit.). A ciò si aggiunge il disposto del D. Lgs. n. 135/99 di conferma dell’obbligo, da parte dei soggetti pubblici, al trattamento dei dati secondo modalità atte ad “assicurare il rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità dell’interessato” adottando le misure occorrenti “per facilitare l’esercizio dei diritti dell’interessato ai sensi dell’art. 13 della legge”[8]. Ciò comporta anche la definizione di quelli che sono i dati  che, per la loro finalità, appaiono di rilevante interesse pubblico  e, oltre quelli attinenti la popolazione residente in Italia (stranieri inclusi dunque) e i cittadini italiani residenti all’estero, le attività dirette all’applicazione della disciplina in materia di cittadinanza, di immigrazione, asilo, condizione dello straniero e di profugo e sullo status di profugo (artt. 6 e 7, comma 1, D. Lgs. n. 135/99)[9]. Anzi, stabilisce la normativa citata, in ulteriore disarmonia con il dettato del t.u. sugli stranieri ove non si fa alcuna precisazione in merito lasciando anzi ampio margine di azione in ciò allontanandosi da altre normative europee sull’immigrazione ben più garantiste e attente alla questione, viene precisato che per le finalità dirette all’applicazione della disciplina sugli stranieri

“è ammesso il trattamento dei dati strettamente necessari:

al rilascio di visti, permessi, attestazioni, autorizzazioni e documenti anche sanitari, nonché alla tenuta di registri;

al riconoscimento del diritto di asilo o dello stato di rifugiato, o all’applicazione della protezione temporanea e di altri istituti o misure di carattere umanitario, ovvero all’attuazione degli obblighi di legge in materia di politiche migratorie;

agli obblighi dei datori di lavoro e dei lavoratori, ai ricongiungimenti, all’applicazione delle norme vigenti in materia di istruzione e di alloggio, alla partecipazione alla vita pubblica e all’integrazione sociale” (art. 7, comma 3).

Sono infine considerati di rilevante interesse pubblico il trattamento dei dati:

volti all’applicazione delle norme in materia di sanzioni amministrative e ricorsi;

necessari per far valere il diritto di difesa in sede amministrativa o giudiziaria, anche da parte di un terzo, o per ciò che attiene alla riparazione di un errore giudiziario o di un’ingiusta restrizione della libertà personale;

effettuati in conformità alle leggi e ai regolamenti per l’applicazione della disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi (art. 16, comma 1, D. Lgs. n. 135/99).

 

Conforto alla tesi esposta, secondo la quale è sicuramente obiettabile la formulazione adottata dal legislatore ci deriva anche dalla analisi delle convenzioni europee sui diritti dell’uomo e al patto ONU ratificati dall’Italia, in base ai quali si instaura un vincolo specifico[10]. Appare del resto evidente che nel D. Lgs. n. 286/98 è stata adottata una formulazione quanto mai generica sulla questione della tutela dei dati raccolti, non peritandosi di rispecchiare quanto meno le indicazioni e delle direttive europee e delle legislazioni già vigenti (citiamo quella anglosassone tanto per fare un esempio) interne ed internazionali. E’ previsto inoltre il diritto al risarcimento del danno che sia stato eventualmente subito dalle persone in conseguenza del trattamento illecito dei dati o di qualsiasi atto incompatibile con l’obbligo di garantire la sicurezza dei dati stessi[11].

            Si impone anzi di sottolineare alcune delle regole più importanti sull’accesso ai dati del Sistema d’informazione di Schengen, in quanto archivio comune a tutti gli Stati membri delle informazioni concernenti persone ricercate o poste sotto sorveglianza e i veicoli o gli oggetti ricercati. Fra i principi generali primeggia il diritto di accesso alle informazioni attinenti alle persone, siano esse cittadine di uno Stato membro dello spazio di Schengen o no. E’ rifiutato l’accesso solo se può nuocere all’esecuzione dell’attività legale indicata nella segnalazione o ai fini della tutela dei diritti e della libertà altrui (art. I.B). Nell’individuare le procedure per il diritto di accesso in ambito internazionale, l’Italia ha stabilito che è previsto solo l’accesso indiretto  attraverso una richiesta rivolta all’Autorità di controllo nazionale ma, a differenza di quanto previsto dalla legge nazionale in materia, per la sezione nazionale SIS non esiste una norma espressa che imponga di accertare l’identità del richiedente. Sarà pertanto il garante ad effettuare in ogni caso una valutazione in proposito. Non solo, degli accertamenti effettuati all’interessato

“è fornito in ogni caso un riscontro circa il relativo esito, comprensivo anche dell’indicazione del Paese che ha effettuato la segnalazione, salvo che ricorrano i casi nei quali tale comunicazione non è dovuta, vale  a dire quando potrebbe ostacolare il perseguimento delle finalità della segnalazione o pregiudicare azioni o operazioni a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica o di prevenzione e repressione della criminalità, ovvero fino a quando permane la segnalazione per sorveglianza discreta (prevista all’articolo 99 della Convenzione per l’attuazione dell’Accordo di Schengen) ovvero ancora quando ricorre l’esigenza di salvaguardare i diritti altrui. La comunicazione contiene, altrimenti, i dati riferiti alla persona”[12].

 

            Appare perciò conseguenza naturale sostenere che la tutela giurisdizionale dei diritti e l’effettivo esercizio degli stessi richiedono un concreto il diritto alla difesa. La giurisprudenza si è più volte pronunciata sull’esecuzione di provvedimenti non capiti dal diretto interessato ovvero attuati senza la presenza del legale. Ci si chiede come possa tuttavia essere tutelato il diritto del soggetto cui non solo venga negato il diritto di accesso ad un atto che lo riguardi, ma addirittura corra il rischio di scoprirlo privo di motivazione (senza che si pongano in questa fase dei parametri per stabilire se sempre debba scattare un simile divieto e se interagiscano anche privati nella formazione di una certa decisione). Interessante risulta in tal senso la sentenza del tribunale amministrativo del Veneto[13] di accoglimento del ricorso presentato da un cittadino extracomunitario condannato con applicazione del rito ex art. 444 c.p.p., che si era visto negare il rinnovo del permesso di soggiorno in forza di un precedente decreto di espulsione e di revoca del permesso di soggiorno senza per altro essere stato edotto della possibilità di chiedere la revoca del provvedimento deciso a suo carico dal questore[14]. E’ per altro vero che il D. Lgs. n. 286/98, come novellato dalla legge 189/2002, ha introdotto la possibilità di espulsione anche del condannato ai sensi dell’art. 444 c.p.p., in caso di pena inferiore ai due anni ovvero il diniego di ingresso purché il patteggiamento della pena riguardi reati previsti dall’art. 380, commi 1 e 2 del c.p.p. ovvero reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite, quando sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. Ci si chiede allora se in caso di presenza di questo motivo, sussista l’obbligo di motivazione o si configuri una delle ipotesi di diniego con conseguente divieto di diritto di accesso.

            Sotto il profilo squisitamente procedurale la Corte Costituzionale, investita del giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 458, comma 1, del c.p.p. per il mancato rispetto del termine di sette giorni per richiedere il giudizio abbreviato da parte di imputati ristretti in carcere anziché di quindici, desumibile dall’art. 555, comma 1, lett. e) del c.p.p., ha dichiarato non fondata la questione. Nella motivazione ha dedotto una serie di ragioni[15]

il giudice a quo sollecita una declaratoria di illegittimità costituzionale che valga a sostituire nei confronti degli imputati detenuti, i termini previsti per la formulazione della richiesta di giudizio abbreviato a seguito di emissione del decreto di giudizio immediato, con quelli stabiliti dall’art. 555, comma 1, lett. 2), c.p.p. La semplice carenza di una fase del procedimento, tuttavia, non può rappresentare l’unico elemento dal quale poter dedurre la pretesa assimilabilità di modelli processuali che presentano differenze di presupposti e di disciplina incomparabili.

Il termine previsto dall’art. 555, comma 1, lett. e), c.p.p ha una durata calibrata non solo e non tanto in funzione di un generico favor per i riti alternativi, quanto in ragione del fatto che il decreto di citazione a giudizio nel procedimento davanti al pretore può rappresentare il primo atto dal quale l’imputato viene ad apprendere l’esistenza di un procedimento a suo carico e dell’accusa mossagli. La norma impugnata non contrasta pertanto con l’art. 24 o con l’art. 3 della Costituzione, neppure sotto il profilo della disparità di trattamento invocata tra imputati liberi e detenuti.

Il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, sancito dall’art. 97 della Costituzione, non appare fondatamente richiamato attenendo alle leggi concernenti l’ordinamento degli  uffici giudiziari, con esclusione della funzione giurisdizionale nel suo complesso.

 

Quanto alle modalità per presentare ricorso, troviamo una precisa indicazione al comma 8 dell’art. 13, ove si stabilisce che il ricorso può essere sottoscritto anche personalmente dal soggetto colpito dal decreto di espulsione e presentato anche tramite la rappresentanza diplomatica o consolare italiana nel Paese di destinazione, rappresentanza che ha il potere-dovere di autenticare la sottoscrizione certificandone l’autenticità e curandone l’inoltro all’autorità giudiziaria. Il diritto alla difesa è garantito in quanto lo straniero è ammesso:

all’assistenza legale da parte di un patrocinatore legale di fiducia munito di procura speciale rilasciata davanti all’autorità consolare,

oppure

all’assistenza legale di un difensore designato dal giudice,

ed è prevista l’ammissione al gratuito patrocinio a spese dello Stato nonché, ove necessario, l’assistenza di un interprete[16]. Del resto il diritto alla comunicazione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, sembrerebbe da effettuarsi al difensore – sia di fiducia che incaricato d’ufficio – e allo straniero secondo precise modalità (art. 3 DPR n. 394/99)[17]:

consegna a mani proprie,

notificazione del provvedimento scritto e motivato (fatte salve le eccezioni, già discusse e non condivisibili, introdotte dalla legge n. 189/2002),

indicazione, nel provvedimento, delle eventuali modalità di impugnazione,

eventuale sintesi in una lingua comprensibile allo straniero,

informazione del diritto di essere assistito da un difensore di fiducia o d’ufficio e di essere ammesso al gratuito patrocinio.

Deve comunque essere assicurata la riservatezza del contenuto dell’atto.

Avverso un provvedimento di espulsione che, ricordiamo, è immediatamente esecutivo anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell’interessato (comma 3 dell’art. 13), va presentato ricorso al tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, quando si tratti di provvedimento adottato dal Ministro dell’interno; in tutte le altre ipotesi può essere impugnato solo davanti al tribunale in composizione monocratica del luogo in cui ha sede l’autorità che ha disposto la misura (art. 13, commi 8 e 11) ovvero al tribunale di sorveglianza nel caso di soggetto condannato avverso la decisione del magistrato di sorveglianza. La decisione sia del tribunale in composizione monocratica che di sorveglianza deve essere adottata entro venti giorni dalla presentazione del ricorso.

            Il ricorso avverso il decreto di espulsione amministrativa è dichiarato inammissibile se presentato fuori termini; in caso contrario viene fissata l’udienza in camera di consiglio con decreto, steso in calce al ricorso. Sarà quindi cura della cancelleria notificare all’autorità che ha emesso il provvedimento tale ricorso con in calce il provvedimento del giudice. Nel giorno fissato per la camera di consiglio l’autorità citata potrà stare in giudizio personalmente ovvero avvalersi di funzionari appositamente delegati e stessa facoltà viene concessa nel procedimento relativo all’espulsione o respingimento di uno straniero trattenuto in un centro di permanenza temporanea. Va tuttavia ricordato che il termine di impugnazione del decreto prefettizio di espulsione è soggetto alla disciplina della sospensione feriale dei termini e che la stessa Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi in merito, ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 1 legge n. 742/1969, nella parte in cui non prevede che la sospensione dei termini si applichi anche a quello dettato dall’art. 13, comma 2 D. Lgs. 286/98 per il reclamo avverso il decreto prefettizio di espulsione dello straniero, per violazione degli articoli 3 e 24 Cost[18].

            E’ altresì escluso il reclamo avverso la decisione del giudice in composizione monocratica, la cui decisione circa il ricorso avverso il decreto di espulsione o respingimento, così come il ricorso avverso i decreti di convalida e di proroga del trattenimento presso un centro di permanenza temporanea, sono impugnabili per Cassazione (art. 13-bis e 14, comma 6). E’ in ogni caso legittimo il rigetto del ricorso avverso decreto di espulsione  ove si accerti la mancanza del permesso di soggiorno. La valutazione relativa al rifiuto della richiesta di soggiorno esula invece dall’ambito di controllo del giudice ordinario e non inferisce direttamente al decreto di espulsione, costituendo una causa sopravvenuta da considerare, solo quando la parte interessata ne provi l’avvenuto accertamento[19].

            E’ infine possibile presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale competente contro i provvedimenti relativi al permesso di soggiorno e alla carta di soggiorno (artt. 5 e 6, comma 10 D. Lgs. cit). In materia sono richiamabili alcune decisioni del Consiglio di Stato chiamato a pronunciarsi sul ricorso in appello  proposto dal Ministero dell’interno avverso sentenze di Tar in accoglimento di impugnazione di diniego di permesso di soggiorno ovvero decreto di espulsione. Ove il diniego o revoca del permesso di soggiorno era stato determinato dal riscontro di aver prodotto falsa documentazione (sia essa di lavoro che di  presenza in Italia), il Consiglio di Stato ha rilevato che oltre alla necessità della certezza della presenza (non sempre confermata dai documenti, anche a voler soprassedere sulla loro falsità[20] che determina comunque una denuncia all’autorità giudiziaria per i reati di cui agli articoli 110, 648 e 649 c.p.),  non è possibile prescindere da quanto prescritto agli articoli 4 e 5 del D. Lgs. 286/98 e art. 5 del D.P.R. 394/99 dai quali deriva che il rilascio del permesso di soggiorno è condizionato alla circostanza che l’ingresso in Italia dello straniero deve essere avvenuto regolarmente. Non solo, il fatto stesso che siano in corso le indagini preliminari per i reati citati vale a giustificare la decisione dell’amministrazione di procedere alla revoca del permesso di soggiorno. La mancata traduzione prevista dall’art. 6, comma 2 D. Lgs. cit. ‘non costituisce un vizio di legittimità’ del provvedimento, ‘in quanto la relativa previsione non incide sulla correttezza del potere esercitato, ma è tesa esclusivamente a rendere effettivo il diritto di difesa sancito dall’articolo 24 della Costituzione che nel caso di specie non è stato affatto violato’[21].

Secondo la giurisprudenza precedente, risulta inammissibile il ricorso per cassazione in sede penale avverso l’ordinanza emessa dal giudice a seguito di ricorso contro un provvedimento amministrativo di espulsione emanato dal prefetto[22] e la ragione deriverebbe dal fatto che si tratterebbe di un ricorso esperibile in sede civile. Sulla competenza in materia di ricorso avverso provvedimento del questore si è ribadita di recente[23] in primo luogo la competenza del questore per il rinnovo del permesso di soggiorno e la conseguente impugnazione avverso il suo diniego innanzi al giudice amministrativo

“mentre il provvedimento di espulsione consegue al mancato rinnovo di detto permesso, le cui ragioni rimangono sottratte al vaglio del giudice ordinario che potrà, eventualmente, sospendere il giudizio in attesa della decisione amministrativa, ma non valutare la rinnovabilità del permesso o concedere, annullando il decreto di espulsione per ragioni attinenti alla ritenuta sussistenza di ragioni di rinnovo, un permesso di soggiorno implicito”.

            Rappresenta un elemento non considerato nel dispositivo di legge, ma preso in esame dalla giurisprudenza e rilevante l’ammissione degli interventi di soggetti portatori di interessi concreti e connessi a quello del ricorrente, nel giudizio di opposizione al decreto di espulsione[24]. Nel giudizio ex artt. 13 e 13 bis D. Lgs. 286/98, proprio del processo amministrativo impugnatorio, è infatti ammissibile l’assunzione di informazioni sulla effettiva personalità del soggetto e del suo reale inserimento sociale, tanto più determinante nel caso in questione trattandosi di persona ammessa a scontare la condanna in misura alternativa alla detenzione, anche perché la revoca della misura (dovuta ad eccessiva leggerezza da parte del soggetto) non è estensibile all’espulsione che deve essere giustificata in base alla pericolosità sociale. La presenza di soggetti portatori di interessi ha consentito, e potrebbe farlo in altre ipotesi, di dimostrare la necessità di elementi di fatto pregnanti ed attuali per un provvedimento di espulsione, che non si configurano nel solo riferimento a condanne pregresse, per quanto gravi.

            Quando la comunicazione di un provvedimento di espulsione è diretta ad imputato residente all’estero, si può ingenerare una ulteriore difficoltà direttamente connessa alla notifica. Si tratta infatti di dare una coerente lettura e conseguente applicazione della dichiarazione di irreperibilità. In tal senso è determinante la posizione assunta dalla giurisprudenza. La Corte cost. ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 177 bis, secondo comma, c.p.p., nella parte in cui consente l’emissione del decreto previsto dall’art. 170 c.p.p. nei confronti dell’imputato dimorante all’estero ad indirizzo conosciuto, al quale sia stato inviato l’avviso di procedimento mediante lettera raccomandata e che non abbia provveduto a dichiarare od eleggere domicilio nel territorio nazionale anche quando non risulti l’avvenuta ricezione della raccomandata stessa[25]. La Corte cost. conclude infatti nel senso che il decreto di irreperibilità di cui all’art. 170 c.p.p. consegue non alla non conoscenza o alla impossibilità di conoscere dove l’imputato dimori, ma all’inerzia o all’incuria dello stesso, comportamenti che presuppongono sicuramente la ricezione dell’avviso. Spetta al legislatore, ferma restando l’esperibilità degli strumenti apprestati dalle convenzioni postali internazionali ovvero delle procedure previste dalle convenzioni internazionali di assistenza giudiziaria in materia penale già recepite nell’ordinamento italiano, stabilire in quale modo debba essere acquisita la prova dell’avvenuto recapito della raccomandata contenente l’avviso e l’invito di cui all’art. 177 bis, comma 1, cpp.

            Sull’asserita lesione del diritto alla difesa per opposizione tardiva al decreto prefettizio di espulsione, per incolpevole non conoscenza del contenuto esatto del provvedimento, non tradotto in una lingua conosciuta dal destinatario, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità dell’art. 13, comma 8 del D. Lgs. n. 286/98 in riferimento agli articolo 24 e 113 della Costituzione[26]. In motivazione si conferma l’innegabile diritto di tutti, anche dello straniero che soggiorni irregolarmente nel territorio dello Stato, alla difesa e come tale diritto debba mettere il destinatario di un provvedimento che ne restringa la libertà di autodeterminazione, in condizione di comprenderne il contenuto e il significato. Altrettanto certo deve essere il principio per il quale un termine perentorio per il compimento di un dato atto comporta che l’atto stesso sia esente da vizi e venga portato a conoscenza di chi dovrà rispettarlo. La traduzione di un atto, nel caso di specie il decreto prefettizio di espulsione, è presupposto essenziale per la difesa. Premesso ciò, conclude tuttavia la Corte Costituzionale, spetta alla giurisdizione di merito valutare se lo scopo dell’atto sia stato conseguito e pertanto il destinatario del provvedimento sia stato messo in condizione di esercitare pienamente il suo diritto alla difesa. In altri termini, dalla valutazione del giudice a quo, l’esigenza di non vanificare il diritto alla difesa comporterà che una accerta ignoranza senza colpa del provvedimento di espulsione faccia ritenere non decorsi i termini del ricorso[27].

 

Il testo unico sottolinea, fra le altre, alcuni concetti propri del sistema procedurale dal momento che diversi sono i punti oggetto di valutazione dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato a seguito di interpretazioni in apparente deroga rispetto alla lettera del codice di procedura penale.

Una prima controversia che ha visto contrapposte difesa e giudice o pubblica amministrazione è stata l’effettiva o presunta violazione della regola formale dell’uso della lingua italiana negli atti di un procedimento e della traduzione in una lingua conosciuta dal soggetto straniero. In base all’art. 109, primo comma, c.p.p. è previsto che gli atti del procedimento penale siano compiuti in lingua italiana  e si nomini un interprete che assista gratuitamente l’imputato che non conosce la lingua italiana perché possa essere in grado di conoscere le accuse che vengono sollevate e seguire il compimento degli atti ai quali partecipa (art. 143 c.p.p). Per contro l’uso della lingua italiana attiene solo agli atti da compiere nel procedimento e non quelli già formati da acquisire, che vanno tradotti successivamente all’acquisizione[28]. Contestualmente l’art. 26 disp. att. c.p.p. dispone che si tenga conto dell’appartenenza etnica o linguistica dell’imputato nell’individuare il difensore d’ufficio o nel designare il sostituto del difensore e ciò sempre tenendo presente l’affermazione di principio del secondo comma dell’art. 109 c.p.p. ove si dice che “restano salvi gli altri diritti stabiliti da leggi speciali e da convenzioni internazionali”. Ciò significa altresì che posto tale principio in correlazione con quanto stabilito nel secondo comma dell’art. 143 c.p.p.[29], ne consegue che l’imputato può fruire del diritto all’assistenza di un interprete ma condizione prima è che dimostri o almeno dichiari di non sapersi esprimere in lingua italiana o di non comprenderla[30]. Si vedrà che partendo da questi due presupposti si è sviluppata una giurisprudenza sull’obbligatorietà della traduzione dei provvedimenti di espulsione o di diniego di permesso di soggiorno e su ciò che debba intendersi per ‘traduzione’, dal momento che il soggetto non essendo accusato ha il diritto, e parallelamente l’organo che ha emanato il provvedimento l’onere, di mettere il soggetto a conoscenza dell’atto che lo colpisce ma a tal fine non è indispensabile una resa letterale dell’atto, che deve tuttavia essere completo degli elementi necessari a garantire l’esercizio del diritto di difesa[31].

Si passa così direttamente alla questione sulla notificazione di un provvedimento. La convocazione, ad esempio, a partecipare ad un processo può causare non pochi problemi se il soggetto interessato si trova all’estero in quanto colpito da un provvedimento di espulsione. Può scattare in tal modo il rito dell’irreperibilità (artt. 159 e 160 c.p.p.). Diventa in tal caso determinante l’eventuale imperfetta traduzione del provvedimento. La notifica all’estero è esperibile a mezzo della posta (artt. 170 e 177bis c.p.p.), ciò significa che il destinatario è passibile di essere dichiarato irreperibile solo nel momento in cui si dimostri l’incuria della persona stessa rispetto ad un avviso del quale è dimostrabile che è avvenuta la ricezione[32].

 

            Il D. Lgs. n. 286/98 richiama più volte la necessità che un atto sia portato a conoscenza dell’interessato e dunque un provvedimento sia tradotto, ‘anche sinteticamente, in una lingua comprensibile al destinatario, ovvero, quando ciò non sia possibile, nelle lingue francese, inglese o spagnola, con preferenza per quella indicata dall’interessato’(art. 2, comma 6). Entrano qui in gioco alcune interpretazioni sulla natura della traduzione di un decreto di espulsione[33]. Senza richiamare altri elementi che devono essere contenuti nella comunicazione (basti ricordare l’indicazione delle modalità di impugnazione), la traduzione

o costituisce uno strumento di conoscibilità dell’atto – e tale sembra essere l’interpretazione della Corte Costituzionale nella sentenza sopra citata – e spetterà al giudice, caso per caso, accertare che non sia stato leso il diritto di difesa dell’interessato, escludendo però la possibilità di disporre di un principio generale;

oppure va intesa come una sorta di doppio requisito di formalità con al conseguenza che la sua mancanza e pertanto il configurarsi di un difetto di forma comporterà l’inesistenza dell’atto stesso e la conseguente perdita di significato del problema della decorrenza del termine per l’impugnazione.

 

Questa seconda interpretazione della disposizione di legge compare in una questione di legittimità dell’art. 11, comma 8, legge n. 40/98 sollevato davanti alla Corte Costituzionale, dichiarato non fondato con richiamo delle ragioni addotte già nella sentenza n. 2000/198[34] e la conferma che

‘occorrerà che il giudice, facendo uso dei suoi poteri interpretativi dei principi dell’ordinamento, ne tragga una regola congruente con l’esigenza di non vanificare il diritto di azione in giudizio’.

 

Si innesta sul tema una serie di decisioni fra le quali emerge, con riferimento a quanto prescritto dall’ordinamento penitenziario, la valutazione circa il venir meno della necessità di tradurre l’ordinanza che dispone la custodia cautelare in carcere notificata ad uno straniero, dal momento che la tutela dell’indagato deve essere assicurata dal direttore dell’istituto penitenziario obbligato ad accertare se l’interessato abbia precisa conoscenza del provvedimento (art. 94, comma 1 bis, disp. att. c.p.p.)[35].

Non è inoltre necessaria la presenza di un interprete nella lingua dello straniero come prescritto dall’art. 143 c.p.p. in occasione di opposizione al decreto di espulsione, in quanto al ricorrente non viene contestato nulla ma, in base alla procedura richiesta ex art. 737 c.p.c., viene sentito e pertanto è sufficiente che comprenda la sostanza dell’interpello[36] e comunque la notifica del decreto di espulsione può essere resa in una delle lingue indicate dalla legge (escluso l’arabo che non è considerata lingua ufficiale) nell’ipotesi di mancata identificazione del paese di provenienza dello straniero o di accertata provenienza da un paese la cui lingua, per la sua rarità, non consenta l’agevole reperimento di un traduttore[37].

Sempre in tema di comprensione degli atti notificati al cittadino straniero rispetto al decreto di espulsione, l’obbligatorietà che deriva dall’art. 143 c.p.p. e la mancata ottemperanza hanno fatto sì che siano state rilevate ripetutamente violazioni della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Come si avrà modo di dimostrare dopo, l’applicazione dell’articolo 14, comma 5 bis D. Lgs. cit., ha ingenerato non poche difficoltà. In alcuni casi il decreto di espulsione è stato annullato e, perfino, dichiarato non sussistente il reato ascritto. E’ il caso, ad esempio, trattato dal tribunale di Rieti[38] in composizione monocratica. Appurato che il soggetto tratto in arresto non aveva ottemperato all’ordine di espulsione per mancata comprensione del provvedimento  e che

‘a causa della carenza di un mezzo di trasporto idoneo non è stato possibile eseguire l’accompagnamento coattivo alla frontiera né, per via della mancanza di posti disponibili, accompagnare il prevenuto presso uno dei centri di permanenza temporanea’,

il giudice ha ritenuto l’imputato assolto dal reato mancando la prova della sussistenza dell’elemento soggettivo. Al di là della impossibilità di applicare una interpretazione distorta del concetto di traduzione di un provvedimento (traduzione che non può assolutamente essere sostituita da gesti dell’agente, salvo eventualmente nell’ipotesi di far capire alla persona fermata che deve esibire i documenti), come evidenzia Pavone[39], il vero problema che si pone alla base è quello del controllo giurisdizionale die provvedimenti amministrativi. Lo stesso articolo 13, comma 8 D. Lgs. cit. conferma che il controllo compete al tribunale in composizione monocratica, dal momento che ad esso va inoltrato il ricorso avverso il decreto di espulsione, anziché al tribunale amministrativo regionale come era previsto in precedenza. Vedremo successivamente che le modalità e l’operatività di detto controllo non sono così ovvie e scontate nella loro efficacia ed efficienza, opponendosi nel frattempo il fatto che l’opposizione non sospende l’esecuzione dell’espulsione.

 

            Non è possibile infine non citare, proprio nell’ottica del diritto alla difesa, la posizione che la giurisprudenza ha assunto circa la comunicazione dell’avvio del procedimento. Si è in precedenza sottolineata la difficoltà di garantire un effettivo esercizio del diritto di difesa nelle ipotesi regolate dagli articoli 14, comma 5 ter e 16, comma 5 del D. Lgs. cit. Si è altresì vista la questione sul dovere di motivazione con riferimento sia alla legge 241/90 che alla legge 675/96. La questione è se esista un dovere di avviso dell’avvio del procedimento nei confronti dello straniero soggetto ad espulsione. Anche in questo caso le interpretazioni sembrano anticipare in senso contrario il dettato del testo unico sulla legge n. 241/90 quasi a confermare l’estrema indeterminatezza della disciplina sull’immigrazione da un lato e della difficoltà di procedere ad una interpretazione estensiva delle norme anche nei confronti degli stranieri con il rischio di ledere i fondamentali diritti umani previsti e tutelati dalla Costituzione.

Le due situazioni alle quali riferirci in concreto sono i decreti dei tribunali di Roma (2000) e Genova (1999). Nel primo caso veniva annullato il decreto di espulsione emesso dal Prefetto ai sensi dell’art. 13 comma 2, lett. b) D. Lgs. cit., in quanto l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento ai sensi degli articoli 7 e 8 della legge n. 241/90 non trovava giustificazione nella affermazione fatta dall’amministrazione che aveva emanato il provvedimento, trattandosi di un atto dovuto e non discrezionale. Si sottolineava che, semmai, l’obbligo

‘sussiste anche nei casi di provvedimenti vincolati ed in quelli in cui la legittimità del provvedimento che si intende adottare è conforme a legge e regolamenti o addirittura al pubblico interesse’ dal momento che una diversa lettura della legge contrasterebbe ‘in quanto anche nell’attività vincolata della pubblica amministrazione sussiste l’esigenza di garantire il contraddittorio’;

né l’amministrazione si è avvalsa nel decreto dell’esigenza di procedere con celerità, unica giustificazione che avrebbe potuto nel caso legittimare l’omissione[40]. In misura ancora più incisiva il tribunale di Genova aveva rimarcato come la materia delle espulsioni sia connotata dal carattere della celerità che giustifica l’omissione della comunicazione dell’avvio del procedimento, ma ciò non fa che confortare la posizione e l’interpretazione date dal tribunale di Roma. Veniva anzi fatto un parallelo con il rimpatrio con foglio di via obbligatorio rispetto al quale la Suprema Corte ha affermato la non sussistenza dell’obbligo in questione coincidendo con l’atto di rimpatrio. Concludeva il tribunale di Genova che

‘ciò non significa ancora che l’art. 7 legge n. 241/90 sia applicabile al procedimento per l’espulsione degli stranieri, esonerando così l’Amministrazione dell’obbligo della comunicazione sempre e comunque (omissis)[41]. Il fatto che nei procedimenti per l’espulsione la regola diventi quella che nei normali procedimenti amministrativi costituisce l’eccezione non pare di per sé solo sufficiente a negare in radice l’applicabilità del principio generale laddove tali particolari esigenze di celerità, sia pure eccezionalmente, non sussistano’[42].

Proprio sulla necessità di una motivazione sufficiente per il diniego dei visti si è soffermato il Consiglio di Stato in un parere del 2001 in occasione del ricorso straordinario di una cittadina rumena. Centrale è l’assunto secondo cui

‘non può in alcun modo considerarsi assolto l’obbligo di motivazione previsto dai principi generali del diritto amministrativo (omissis) con il semplice richiamo, per giunta indifferenziato, di disposizioni normative ed il generico rinvio alla situazione economica e sociale del  richiedente’

dal momento che deve darsi conto delle ragioni che hanno condotto a ritenere insussistenti, nelle sue connotazioni soggettive ed oggettive, i presupposti per il rilascio del visto[43].

Del resto, ricorda Scalzo nel suo commento, la motivazione va intesa sia in quanto necessità delle ragioni che hanno determinato l’adozione dell’atto, che in termini di esternazione delle ragioni. Ciò di cui occorre dare ragione (certamente - aggiungiamo noi - anche ai fini di una concreta garanzia del diritto di difesa) sono i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato l’atto amministrativo.

 

In relazione al diritto di difesa, non possiamo non richiamare quanto affermato dalla Suprema Corte[44] che, a prescindere dalla inammissibile del ricorso presentato al giudice ordinario avverso il decreto di espulsione emesso dal Prefetto di Palermo per mancato rinnovo del permesso di soggiorno, introduce importanti principi in contrasto con quanto sostenuto dal Pretore di Palermo secondo il quale l’opposizione della ricorrente andava rigettata anche sulla base del fatto che

‘pur risiedendo nella Repubblica da oltre 10 anni, non aveva alcun diritto alla cittadinanza italiana ma solo l’interesse legittimo all’accoglimento di una domanda che, ai sensi dell’art. 9 L. 5/2/91 n. 91, avesse proposto’.

Si viene affermando, conseguentemente all’entrata in vigore del D. Lgs. 286/1998, che la competenza in tema di ricorsi giurisdizionali avverso i decreti di espulsione non è più esclusiva innanzi al TAR come previsto dalla previgente disciplina che ne faceva una materia interna alla giurisdizione amministrativa, bensì del giudice ordinario.

 

A conclusione della disamina sull’effettivo esercizio del diritto alla difesa, una precisazione va fatta a proposito del gratuito patrocinio. La premessa da cui partire è l’art. 13, comma 8 D. Lgs. cit., nel quale si stabilisce che lo straniero è ammesso all’assistenza legale ‘da parte di un patrocinatore legale di fiducia munito di procura speciale rilasciata davanti all’autorità consolare’ al fine di presentare opposizione avverso il decreto di espulsione. La peculiarità, come è stato rilevato[45], consiste nel consentire la presentazione del ricorso entro 60 giorni dalla data del provvedimento ‘personalmente e anche per il tramite della rappresentanza consolare’, salvo poi prevedere il patrocinio legale. Le spese del giudizio sono a carico dello Stato per lo straniero ammesso al gratuito patrocinio e la loro liquidazione avviene secondo quanto stabilito dall’art. 142 (L) del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia). Quanto ai requisiti per l’ammissione al gratuito patrocinio l’attestazione dell’autorità consolare sulla non falsità dell’autocertificazione relativa al reddito prodotta dal ricorrente, tuttavia, non è di per sé idonea in quanto si richiede alla autorità stessa di indicare quali siano gli elementi concreti acquisiti a conforto dell’asseverazione, in modo da rendere possibile i controlli[46].

La procedura che si instaura ha carattere civilistico. Il tribunale in composizione monocratica fissa l’udienza in camera di consiglio con decreto in calce al ricorso, notificato all’autorità che ha emesso il provvedimento, alla quale è data la facoltà di stare in giudizio personalmente o attraverso funzionari a ciò delegati, esattamente come accade per il procedimento di convalida del trattenimento nei centri di permanenza temporanea (artt. 13bis e 14, comma 4 D. Lgs. cit., art. 737 ss c.p.c.). Altra caratteristica propria della procedura civilistica è la non reclamabilità della decisione, ricorribile solo per cassazione; il che – stante il fatto che l’opposizione non sospende l’esecuzione - rende inutile la decisione del tribunale ovvero della Suprema Corte, come si è già avuto modo di illustrare. Una commistione tra procedura civile e penale, sottolinea Sacchettini, è la trasposizione in ambito civilistico della figura del difensore d’ufficio, tipica del processo penale. Non è per altro ipotizzabile che la facoltà di proporre ricorso per cassazione sia interpretabile, relativamente agli stranieri, sempre nei termini di una istanza personalmente sottoscritta. A tal proposito trova maggiormente rilievo il dettato dell’art. 13, comma 8 bis D. Lgs. cit., che espressamente fa riferimento ad un patrocinatore, né si può dimenticare che la stessa Corte di Cassazione si è già pronunciata sulla questione ricordando come un ricorso avverso decreto del tribunale ‘deve uniformarsi, in assenza di specifiche disposizioni derogatorie, alla disciplina prevista dal codice di procedura civile’, costituendo causa di inammissibilità la proposizione personale di parte[47].

 

Note:

* Esperta presso il Tribunale Distrettuale di Sorveglianza di Torino

[1] Il comma 7 dell’art. 2 va letto in combinato con gli articoli 18, 19 e 20.

[2] D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 cit., art. 2 e comma 7 dell’art. 6 t.u.

[3] Trova  anche conforto giurisprudenziale la possibilità di far uso dell’autocertificazione da parte degli stranieri nella sentenza della Corte dei Conti, sez. controllo, 1 giugno 1999 n. 37, in C. d. St. 1999, II, 1540. Vi si legge infatti che i “soggetti extracomunitari residenti in Italia possono utilizzare le dichiarazioni sostitutive limitatamente ai casi in cui si tratti di comprovare stati, fatti e qualità personali, certificabili od attestabili da parte di soggetti pubblici o privati italiani”, tuttavia – continua la Corte – “è esclusa per i cittadini extracomunitari non residenti in Italia la possibilità di utilizzare l’autocertificazione”.

[4] A completamento dell’informazione di carattere generale, cito B. FREDDA, Sicurezza nazionale ed impronte digitali. L’esperienza degli Stati Uniti, in Gli stranieri, Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, anno IX, n. 4, luglio-agosto 2002, p. 310. A proposito del nuovo sistema di sicurezza nazionale che ha coinvolto tutti i paesi dopo l’11 settembre 2001, quello della rilevazione alla frontiera delle impronte digitali e delle fotografie ha lo scopo di fermare terroristi noti o sospetti prima della loro entrata nel Paese. Non si può infatti dimenticare che ‘i terroristi e i criminali tentano di infiltrarsi usando nomi fittizi e falsi passaporti’. Il problema nasce semmai dal fatto che alcuni individui erano già presenti nel territorio e ‘nessuno aveva loro preso le impronte digitali perché mai erano stati sospettati di attività illecite’ e lo stesso potrebbe verificarsi nel futuro dal momento che oltre al controllo si tratta di ‘indovinare quali insospettabili celino, invece, pericolosi assassini ed attentatori’.

[5] Il diritto di accesso (comma 2 dell’art. 4) rimane immutato per quanto attiene le domande di visto presentate ai sensi degli art. 22 (lavoro subordinato a tempo determinato e indeterminato), 24 (lavoro stagionale), 26 (ingresso e soggiorno per lavoro autonomo), 27 (ingresso per lavoro in casi particolari), 28 (diritto all’unità di famiglia), 29 (ricongiungimento familiare), 36 (ingresso e soggiorno per cure mediche) e 39 (accesso ai corsi delle università).

[6] Basti citare in tal senso:

a)       Decreto del Ministro dell’interno 18 aprile 2000, n. 142. Regolamento di integrazione e modifica del regolamento di attuazione degli articoli 2 e 4 della legge 7 agosto 1990, n. 241, adottato con decreto ministeriale 2 febbraio 1993, n. 284, come modificato dal decreto ministeriale 19 ottobre 1996, n. 702.

b)       Cir. Min. interno, Dip. P.S. – Servizio immigrazione, n. 300/C/2001/1036/P/12.229.2/1 Div. del 5 settembre 2001. Semplificazione amministrativa (concernente carte di soggiorno e nulla osta per ricongiungimento familiare).

[7] Si tratta dei casi di cui all’art. 24, comma 2 che determinano il divieto di accesso.

[8] Legge n. 675 del 1996, art. 13 ’Diritto dell’interessato’

1.        In relazione al trattamento di dati personali l’interessato ha diritto:

a)                               di conoscere, mediante accesso gratuito al registro di cui all’articolo 31, comma 1, lettera a), l’esistenza di trattamenti di dati che possono riguardarlo;

b)                               di essere informato su quanto indicato all’articolo 7, comma 4, lettere a), b) e h);

c)                               di ottenere, a cura del titolare o del responsabile, senza ritardo:

1)                                                             la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la comunicazione in forma intelligibile dei medesimi dati e della loro origine, nonché della logica e delle finalità su cui si basa il trattamento; la richiesta può essere rinnovata, salva l’esistenza di giustificati motivi, con intervallo non minore di novanta giorni;

2)                                                             la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati;

3)       l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, qualora vi abbia interesse, l’integrazione dei dati;

4)       l’attestazione che le operazioni di cui ai numeri 2) e 3) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si riveli impossibile o comporti un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato;

d)      di opporsi, in tutto o in parte, per motivi legittimi, al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta.

[9] D. lgs. n. 135 del 1999, art. 6 ‘Stato civile, anagrafi e liste elettorali’

1. Ai sensi dell’articolo 1, si considerano di rilevante interesse pubblico i trattamenti di dati concernenti la tenuta degli atti e dei registri dello stato civile, delle anagrafi della popolazione residente in Italia e dei cittadini italiani residenti all’estero, nonché delle liste elettorali.

Art. 7 ‘Cittadinanza, immigrazione e condizione dello straniero’

1. Ai sensi dell’articolo 1, si considerano di rilevante interesse pubblico le attività dirette all’applicazione della disciplina in materia di cittadinanza, di immigrazione, di asilo, di condizione3 dello straniero e di profugo e sullo stato di rifugiato”.

[10] Se ci riportiamo a quanto esposto sul divieto di accesso ovvero di motivazione di provvedimenti di espulsione e sul diritto alla difesa contro provvedimenti che vanno a ledere potenzialmente diritti di libertà della persona, un conforto alla interpretazione letterale della legge n. 241/90 ci deriva direttamente dal Protocollo n. 7 alla Convenzione (adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98, è entrato in vigore in Italia il 1° febbraio 1992) ove si legge che uno straniero legalmente residente non ne può essere espulso se non a seguito di provvedimento adottato ai sensi di legge e sarà autorizzato (art. 1) a:

a)       far valere le sue ragioni contro la espulsione,

b)       far esaminare il suo caso, e

c)       farsi rappresentare a tale scopo innanzi all’autorità competente;

è comunque possibile che l’esercizio dei diritti previsti non possa essere esercitato in via preventiva, quando sussistano ragioni di ordine pubblico o sicurezza nazionale e soprattutto dall’art. 286 del trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 di protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali. E’ per altro vero che l’art. 63 n. 3, lett. b) del Tr. CE (POCAR, 2001, p. 306) non precisa (né lo troviamo altrove, fatta eccezione per il Protocollo n. 7) se le disposizioni comunitarie debbano riguardare, in caso di espulsione, anche le ‘garanzie riconosciute allo straniero’ quali l’obbligo di motivare il provvedimento, di consentire adeguati mezzi di tutela giurisdizionale nei confronti del provvedimento, nonché il divieto di espulsioni verso Stati nei quali lo straniero possa trovarsi in pericolo.

[11] Proposta modificata di Regolamento del Consiglio che istituisce il sistema ‘Eurodac’ per il confronto delle impronte digitali dei richiedenti asilo e di taluni altri cittadini di paesi terzi, al fine di agevolare l’attuazione della Convenzione di Dublino, stilato dalla Commissione il 16 marzo 2000.

[12] Sistema d’informazione Schengen – Guida per l’esercizio del diritto di accesso, in www.garanteprivacy.it/garante/frontdoor/1,1003.html

[13] Tar Veneto, sent. n. 1863/2000, www.cittadinolex.kataweb.it

[14] Il ricorrente nella fattispecie aveva subito una condanna penale tramite l’applicazione dell’art. 444 c.p.p. per reati non contemplati fra quelli che la legge n. 39/90 (art. 7), indica come legittimanti l’espulsione.

[15] Corte. cost., sent. n. 122 del 5 maggio 1997, www.consulta.it

 

[16] G. PIAZZA, Rimedi giustiziali e giurisdizionali avverso i provvedimenti amministrativi adottati nei confronti degli stranieri ai sensi del D. lgs. n. 286 del 1998. Profili giurisprudenziali, in Gli stranieri, Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, anno IX, n. 2, marzo-aprile 2002, p. 110 (viene presentata una sintesi dei mezzi offerti dalla legislazione attuale ai singoli, con un richiamo alla relazione tra giudice ordinario e pubblica amministrazione, nonché al gratuito patrocinio).

[17] La comunicazione può riguardare i provvedimenti che dispongono il respingimento, la revoca o il rifiuto del permesso di soggiorno, la revoca o il rifiuto della carta di soggiorno, il rifiuto della conversione del titolo di soggiorno, il decreto di espulsione.

 

[18] Cass., sez. I civ., 30 ottobre 2001, n. 13493, rel. Luccioli, in Gli stranieri, Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, anno IX, n. 1, gennaio-febbraio 2002, p. 31.

Sulla sospensione feriale dei termini e i relativi incidenti di costituzionalità, si può richiamare Corte cost.  sent. 3 marzo 1982, n. 53, www.consulta.it 

[19] Cass., sez. I, 14 giugno 2002, n. 8512, Selimaj, in Guida al diritto, n. 36 del 21 settembre 2002, p. 67.

[20] C.d.S., sez. IV, 17 aprile 2002, n. 2028/2002; sez. IV, 15 febbraio 2002, n. 945/02, in www.giustizia-amministrativa.it/ricerca2

[21] C.d.S., sez. IV, 17 gennaio 2002, n. 238/2002, www.giustizia-amministrativa.it/ricerca2.

 Confronta anche C.d.S., sez. IV, 23 gennaio 2001, n. 2496/2001

[22] Cass. Pen., sez. I, 29 marzo 2000, Huayamares, in Cass. Pen., 2001, p. 2188, n. 1105

[23] Cass., sez. I, 25 ottobre 2002, n. 15057, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, n. 2 del 18 gennaio 2003, p. 69.

[24] Trib. Roma, sez. I civ., 27 aprile 2000, n. 27940, est. Salvio, in Gli stranieri, Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, n. 2, maggio-agosto 2000, p. 179.

[25] Corte cost., sent. n. 178 del 16 dicembre 1980, www.consulta.it

[26] Corte cost., sent. 8-16 giugno 2000, n. 198, www.consulta.it

[27] Sulla questione C.d.S., sez. IV, 3 luglio 2001, n. 106/01, www.giustizia-amministrativa.it/ricerca2 (Nel caso specifico motivo, accolto, del ricorso è l’errata interpretazione da parte del Tar per il Trentino-Alto Adige, Sez. Autonoma di Bolzano, dell’art. 5, comma primo, legge n. 39/90 in base al quale non deve essere comunicata la traduzione integrale del provvedimento).

[28] In tal senso Cass. pen., sez VI, 18 ottobre 1994, n. 10775, Bruzzaniti e altri, in Il Codice di procedura penale, 10 ed., La Tribuna, 2000, p.338

[29] Art. 143, comma secondo c.p.p. “Oltre che nel caso previsto dal comma 1 e dall’art. 119, l’autorità procedente nomina un interprete quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in n dialetto non facilmente intelligibile ovvero quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana. La dichiarazione può anche essere fatta per iscritto e in tal caso è inserita nel verbale con la traduzione eseguita dall’interprete”.

[30] In tal senso Cass. pen., sez. VI, ord. 4 febbraio 1994, n. 3052, Bouaziz, in Il codice di procedura penale, cit., p. 425

[31] Cass., sez. VI, 4 giugno 1999, n. 1605, Mahmudi Arif; sez. I, 23 settembre 1999, n. 4841, Zicha, in Gli stranieri, Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, n. 1, gennaio-aprile 2000, p. 44

[32] Corte cost., 16 dicembre 1980, n. 178, www.consulta.it

[33] O. FORLEZA, Sull’eventuale lesione del diritto di difesa – La verifica concreta del giudice di merito, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, n. 24 del 1 luglio 2000, p. 72.

[34] Corte cost., sent. n. 227 del 8 giugno 2000, www.consulta.it

[35] Cass., sez. I, 26 giugno 2000, n. 3759, Ilir, in Gli stranieri, Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, n. 3, settembre-dicembre 2000, p. 348.

[36] Cass., sez. I civ., 11 gennaio 2002, n. 298, Chader, in Gli stranieri, Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, anno IX, n. 1, gennaio-febbraio 2002, p. 37.

[37] Cass., sez. I civ., 25 gennaio 2002, n. 879, rel. Vitrone, in Gli stranieri, Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, anno IX, n. 1, gennaio-febbraio 2002, p. 37.

[38] Trib. Rieti, sent. 25-29 ottobre 2002, est. Fanelli, www.penale.it/giuris/meri_124.htm  

[39] M. PAVONE, Problemi di controllo giurisdizionale della espulsione amministrativa del cittadino straniero, dicembre 2002, www.filodiritto.com/diritto/penale/espulsioneamministraivapavone.htm

[40] Trib. Roma, sez. X civ., decreto 25 marzo 2000, www.proweb.it/mpepe/immigrazione/Sentenze-immigraz/decretol.htm. Vedi anche Cass., sez. I, sent. 25 ottobre 2002 n. 15057, in Guida al diritto, Il sole 24 Ore, n. 2 del 18 gennaio 2003, p. 69

[41] Sulla questione, nel senso non sempre condivisibile, della mancanza di obbligo in capo all’autorità amministrativa di comunicare l’avvio del procedimento: Cass., sez. I civ., 19 dicembre 2001, n. 16030, Mora, in Gli stranieri, Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, anno IX, n. 1, gennaio-febbraio 2002, p. 35.

[43] C.d.S., sez. I, 14 giugno 2001, n. 55/2001, in Cons. St., 2001, I, p. 2416 ss.

I. SCALZO, Necessità di una motivazione sufficiente per il diniego dei visti, in Gli stranieri, Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, anno IX, n. 1, gennaio-febbraio 2002, p. 14.

[44] Cass.,  9 febbraio 1999, n. 1082, www.cittadinolex.kataweb.it/Article (l’inammissibilità deriva dal fatto che tale ricorso sarebbe stato di competenza del tribunale di Palermo e solo dopo, eventualmente, della Corte di Cassazione).

[45] E. SACCHETTINI, Allo straniero garantito il gratuito patrocinio nel ricorso contro il decreto di espulsione, in Guida al diritto, n. 37 del 28 ottobre 2002, p. 106

[46] Cass., sez. I, cc. 25 gennaio – 8 marzo 2001, n. 9661, Yu Xiao Sing, in Gli stranieri, Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, n. 4, luglio-agosto 2001, p. 299

[47] Cass., sez. I, 26 aprile 2002, n. 2794, Kryvutska, in Gli stranieri, Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione, anno IX, n. 2, marzo-aprile 2002, p. 130