*** Una delle più gravi carenze del processo civile esecutivo è costituita dalla inadeguatezza di tutela degli obblighi infungibili, per i quali cioè, la tutela risarcitoria è per definizione insufficiente, in quanto fornisce solo una utilità equivalente, ma non corrispondente a quella sperata dal creditore, mentre la tutela in forma specifica è logicamente non esperibile, essendo massima consolidata quella secondo cui nemo ad factum praecisum cogi potest. A fronte di tale limite di tutela, è compito dell’interprete ricercare soluzioni ermeneutiche in grado di garantire il più possibile la giustiziabilità delle posizioni di vantaggio riconosciute dall’ordinamento. Lo esige la stessa Carta Fondamentale, che nell’art. 24 Cost. stabilisce che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi. La norma, alla luce della più autorevole giurisprudenza costituzionale1, viene interpretata nel senso che il processo deve garantire la tutela di tutte quelle utilità e beni della vita riconosciuti dal diritto sostanziale, così come aveva insegnato Chiovenda. Se è riconosciuto un diritto sostanziale, ma poi quest’ultimo non può esser adeguatamente difeso in giudizio, vi è una palese e grave violazione della norma costituzionale, non tollerabile in un ordinamento giuridico civile e moderno. Purtroppo il Codice Civile non ha affrontato adeguatamente il problema, dato che da un lato ha previsto la garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c. per l’esecuzione sul patrimonio, dall’altro, per l’esecuzione in forma specifica, si è limitato a richiamare le insufficienti disposizioni del Codice di rito di cui agli artt. 612 ss. c.p.c. In tal modo, il Codice Civile ha perso una storica occasione per chiarire quale siano i limiti di tutela forniti dall’esecuzione in via specifica[2]. La norma costituzionale impone di rivedere criticamente il sistema delle tutele, e mette l’interprete nella scomoda posizione di dover tentare di sopperire, nei limiti del possibile, all’inerzia del Legislatore. Da sottolineare che detto compito grava non solo sul processualista, ma anche sul civilista, dato che il mero riconoscimento formale di un diritto sul piano sostanziale è cosa sterile ed inutile se poi esso non è concretamente giustiziabile. Preliminare all’esame da svolgere è un chiarimento sulla nozione di infungibilità, che si è visto essere un limite di ammissibilità della tutela in forma specifica. Hanno tale qualità in primo luogo gli obblighi di fare materialmente infungibili, cioè non realizzabili senza la volontà dell’obbligato. Sono infungibili anche gli obblighi complessi, ricomprendenti obblighi di fare infungibili, ad esempio l’obbligo di reintegra nel posto di lavoro. Infungibili sono inoltre gli obblighi di fare che pur essendo materiamente fungibili, comportino particolari difficoltà o complessità qualitative nella loro esecuzione da parte di un terzo. Ancora, l’infungibilità si ha anche in presenza di situazioni di vantaggio il cui godimento è assicurato dall’adempimento di obblighi di fare o non fare a carattere continuativo o periodico, e la condanna sia diretta non solo ad eliminare gli effetti della violazione già compiuta, ma ad assicurare l’adempimento (futuro) degli obblighi in questione. In tal caso, assolvendo la condanna una funzione di tutela preventiva, l’esecuzione forzata non potrà per definizione assicurare l’attuazione della condanna. Come emerso in giurisprudenza, non è fungibile un obbligo quando il suo adempimento dipende dal fatto di un terzo, diverso dal debitore, come ad esempio avviene in tema di compravendita di edifici per l’obbligo del venditore di far ottenere alla controparte il certificato di abitabilità, per il cui rilascio è competente l’autorità amministrativa[3]. Infine, la tipologia dei facere infungibili ricomprende le ipotesi di rilevanza della persona, individuate attraverso il ricorso alla categoria dei rapporti intuitu personae[4]. Prima di concludere sul tema dell’infungibilità, si segnala quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui spetta al giudice della cognizione accertare l’ammissibilità della domanda di condanna ad un facere infungibile, sicchè, una volta che tale domanda sia stata accolta, il giudice dell’esecuzione non può sindacare la coercibilità dell’obbligo, ma deve attuarlo, o tentare di attuarlo[5]. Di fronte a tale evidente lacuna dell’ordinamento giuridico, può essere molto utile per l’interprete esaminare i sistemi giuridici stranieri, per verificare se essi utilizzino strumenti di tutela in forma specifica adeguati, per poi magari cercare di estenderli al diritto interno, se sussistono i requisiti. Dall’esame comparativo svolto, si ritiene che vi siano almeno tre ordinamenti giuridici forniti di efficienti sistemi di tutela per l’inadempimento di obblighi infungibili. I tre modelli di riferimento sono quello francese, con la pratica delle astreintes, quello tedesco, con l’istituto del Geldstrafe, quello della Common law, con lo strumento della specific performance e del contempt of court. I tre rimedi hanno un carattere in comune: rispettano il principio secondo cui nemo ad factum praecise cogi potest, dato che la non coercibilità diretta di obblighi infungibili, tramite l’intervento in surroga di un terzo, è un’impossibilità logica prima che giuridica. Essi invece si servono di rimedi assai efficaci e raffinati, denominati mezzi coercitivi indiretti: questi non costituiscono un’esecuzione diretta, ma mirano indirettamente a fornire la tutela specifica incidendo sulla volontà del debitore, rendendo per lui più conveniente l’adempimento che l’inadempimento[6]. Il primo modello da esaminare è quello francese delle astreintes. E’ necessario partire dal dato normativo, per poi comprendere la vastità dell’intervento integrativo, rectius creativo, compiuto dalla giurisprudenza; addirittura non manca chi abbia paragonato l’ampiezza di tale opera di integrazione dello ius conditum alla giurisprudenza creativa del pretore romano[7]. Norma base è l’art. 1142 del code civil, secondo cui <<Toute obligation de faire ou de ne pas faire se rèsout en domnages et intèrets, en cas d’inexècution de la part du dèbiteur>>. Il principio, quindi, è quello per cui per gli obblighi di fare e non fare è prevista solo la tutela risarcitoria, non quella specifica[8]. Ma ecco che interviene la giurisprudenza creativa dei giudici francesi, i quali interpretano la regola della risarcibilità come avente solo carattere sussidiario, mentre regola generale è sempre quella della tutela in forma specifica. Nel sec. XIX si crea la figura delle astreintes, un rimedio indiretto in base al quale il giudice condanna la parte inadempiente di un obbligo non coercibile a pagare una somma per ogni giorno di ritardo e per ogni altro futuro inadempimento, riservandosi la possibilità di intervenire successivamente con una sentenza definitiva che conserva, riduce, o aumenta la pena originaria; di qui la distinzione tra astreinte provvisoria, nel caso in cui il giudice successivamente possa modificare la decisione, ed astreinte definitiva, quando ciò non sia possibile[9]. Tuttavia l’istituto in questione ha creato forti problemi
interpretativi e sistematici ai giudici d’oltralpe. In particolare, verso la
metà del secolo scorso i tribunali hanno ritenuto che la somma da versare
doveva essere commisurata al danno, dato che la funzione delle astreintes è risarcitoria, non
punitiva. Con ciò tuttavia, si rischiava di togliere all’istituto ogni efficacia
coercitiva indiretta, dato che si trattava di un mero risarcimento dei danni,
in più dilazionato nel tempo tramite il pagamento di una somma periodica. La
reazione a tale orientamento dei giudici di merito è arrivata da parte della Cour de Cassation, la quale ha
ribadito che le astreintes non hanno funzione risarcitoria, ma sono solo un mezzo per vincere la
resistenza del debitore. Attualmente, l’entità dell’astreinte
viene commisurata alle capacità finanziarie del debitore e alla sua presumibile
capacità di resistenza nell’ostinarsi a non adempiere[10].
Tale indirizzo è stato poi confermato dalla legge francese del Tuttavia permangono dei dubbi sull’opportunità di destinare al creditore le somme pagate a titolo di astreinte: se esse sono distinte dal risarcimento del danno, a che titolo attibuirle al creditore? Sarebbe stato forse più opportuno evitare ogni possibile equivoco legame con il risarcimento dei danni, e destinare le somme de qua ad esempio allo Stato, o in parte al creditore ed in parte allo Stato, affinchè l’inadempimento non diventi occasione di lucro[12]. Una volta definiti i contorni delle astreintes nel diritto francese, e constatata la loro efficacia nel costringere all’adempimento degli obblighi altrimenti incoercibili, bisogna verificare se sussistono i presupposti per una applicazione generalizzata anche nell’ordinamento italiano. A tal fine, si consideri che il substrato normativo che ha spinto alla creazione giurisprudenziale delle astreintes ha notevoli punti di contatto con il sistema giuridico interno: il Codice italiano del 1942 è largamente ispirato a quello del 1865, a sua volta fedele imitazione del code Napoleon, e il legislatore italiano, come quello francese prima dell’introduzione delle astreintes, non è stato in grado di approntare un adeguato sistema di tutela per gli obblighi incoercibili. Se l’estensione interpretativa nell’ordinamento italiano fosse possibile, si fornirebbe di adeguata tutela i creditori di obblighi infungibili che non si accontentino del mero risarcimento dei danni. In primo luogo, occorre verificare se l’ordinamento italiano conosca istituti assimilabili alle astreintes, ed in caso di esito positivo della ricerca, analizzare se sia possibile un’applicazione estensiva oppure analogica. La dottrina più attenta ritiene che esistano istituti avvicinabili alle astreintes, con riferimento alla legge sui marchi e quella sui brevetti[13]. In particolare, l’art. 66 comma II della legge sui marchi prevede che con la sentenza che accerta la lesione del marchio il giudice possa imporre una somma per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata e per ogni ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti contenuti nella sentenza stessa. Disposizione del tutto analoga è prevista nell’art. 86 comma I della legge sui brevetti industriali. Le norme sono state diversamente interpretate dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Particolarmente controversa è in giurisprudenza la natura risarcitoria, sul presupposto che un danno si sia effettivamente verificato, oppure coercitiva, a prescindere da qualsiasi ristoro per danni[14]. Tuttavia, nonostante tutte le difficoltà interpreative, non sembra confutabile che ci si trovi di fronte ad un caso di astreinte. Altro caso di astreinte, come ritiene la dottrina maggioritaria, è rappresentato dall’art. 18 comma IV dello Statuto dei lavoratori, in base al quale il datore di lavoro, in caso di illegittimo licenziamento, è tenuto al pagamento di una somma commisurata in base alle retribuzioni dovute dal momento del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegra. Giustamente si è sottolineata la finalità non meramente risarcitoria di tale indennità, ma di vero e proprio mezzo coercitivo indiretto[15]. Anche nel diritto comunitario si fa applicazione della tecnica delle astreintes. Un esempio è l’art. 16 del reg. n. 17/1972 in tema di violazione delle norme del Trattato sulla concorrenza, secondo cui in caso di infrazione delle regole della libera competizione il giudice può infliggere penalità di mora per ogni giorno di ritardo al fine di costringere all’adempimento. Chiara è la funzione di tali penalità: è una finalità di coercizione indiretta, mentre manca completamente qualsiasi scopo risarcitorio[16]. Alla luce di tali singole disposizioni normative, che chiaramente rappresentano casi di astreinte, bisogna finalmente verificare se sia possibile una loro estensione analogica, fino al punto magari di colmare la lacuna di tutela degli obblighi incoercibili. L’esame si concentra sulle norme della legge marchi e brevetti, che più sono state fatto oggetto di attenzione da parte di dottrina e giurisprudenza. In particolare, è emerso un orientamento secondo cui tali norme sono applicabili analogicamente alla disciplina della violazione della concorrenza ed a quello della concorrenza sleale. In tal senso, l’art. 2599 c.c., nel punto in cui stabilisce che con la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale si impongono gli opportuni provvedimenti affinchè ne vengano eliminati gli effetti, andrebbe interpretato nel senso che tali opportuni provvedimenti possono consistere anche nei mezzi coercitivi indiretti previsti nella legge marchi e brevetti[17]. L’analogia si fonda su <<tutto il sistema dei rapporti tra azione per violazione di marchio ed azione di concorrenza sleale. Si è detto giustamente che si tratta di un rapporto di “complementarità” in quanto la medesima fattispecie concreta puo giovarsi di ambedue le tutele (che così si sommano), oppure, se manca qualcuno degli elementi tipici per la tutela tipica ex norme sui marchi registrati, il comportamento di chi viola il marchio altrui può nondimeno ricadere sotto i divieti della concorrenza sleale. (… omissis …). Dunque, se talvolta le due tutele coesistono, seppur per uno stesso fatto valutato sotto profili sostanziali diversi, non si capisce perché dal punto di vista dei rimedi, esercitando l’azione in concorrenza sleale uno debba subire preclusioni che non trova nell’azione a tutela del segno distintivo o del brevetto. A maggior ragione ciò si potrà dire quando l’azione personale della concorrenza sleale si presenta come rimedio residuale, ove non sia consentita la tutela tipica dei segni distintivi o dei brevetti; in tal caso, oltre che residuale, la tutela diverrebbe sproporzionatamente inadeguata. (… omissis …). Dunque sarebbe iniquo non consentire che l’inibitoria ex art. 2599 c.c. sia assistita dall’astreintes, mentre lo è l’inibitoria in tema di marchi e brevetti>>[18]. Anche la giurisprudenza si è mostrata spesso favorevole all’applicazione analogica in materia di concorrenza sleale, per motivi simili a quella appena esposti[19]. La soluzione comunque è pienamente da condividersi, in quanto ha il pregio di fornire di tutela diritti che altrimenti ne rimarrebbero sprovvisti, in palese violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost. Si è ottenuto dunque un primo importantissimo risultato: si è esteso l’efficace tutela delle penalità di mora a tutti i casi di concorrenza sleale. E’ naturale chiedersi ora se tali mezzi coercitivi indiretti abbiano addirittura portata generale, se cioè siano applicabili per costringere all’adempimento di obblighi infungibili altrimenti incoercibili in ogni caso. Vari sono stati i tentativi condotti in dottrina per pervenire a tale risultato. Secondo una certa tesi, è possibile un impiego generalizzato delle astreintes solo se queste vengono intese come risarcimento dei danni futuri: in tal caso, la somma periodica da versare sarebbe il corrispettivo dal futuro danno morale derivante dall’inadempimento[20]. Tuttavia, più che dimostrare l’effettiva esistenza di una forma di tutela indiretta degli obblighi infungibili, i sostenitori di tali teorie sono riusciti solo a dimostrare l’astratta compatibilità nell’ordinamento di tale tutela; le argomentazioni adottate sono state facilmente respinte sulla base dello jus conditum, riuscendo ad ottenere come unico risultato l’unanime adesione all’idea che un intervento del legislatore sarebbe estremamente opportuno, come testimoniato dal progetto di riforma del codice di rito redatto nel 1926 da Carnelutti, dove si prevedeva l’impiego generalizzato delle astreintes per la coercizione all’adempimento di obblighi di fare e non fare, e di tentativi condotti più recentemente tramite lo strumento della delega legislativa (art. 23 del d.d.l. n. 2246 del 1975; art. 24 del d.d.l. dell’8 maggio del 1981)[21]. Risulta comunque fondata la tesi per cui, nonostante le astreintes non siano contrarie a nessun principio del nostro ordinamento, non possono trovare applicazione generalizzata nell’ordinamento italiano poiché manca il necessario appiglio normativo, auspicandosi però un preciso intervento del Legislatore[22]. Non è invece fondata la teoria secondo cui l’applicazione analogica delle ipotesi di astreintes legislativamente disciplinate non sia possibile in quanto impedita dalla loro natura penale: in realtà il rimedio in questione non ha natura penale, ma semplicemente di pena privata, la quale consiste in una sottrazione di un diritto privato o di imposizione di un’obbligazione privatistica per punire il trasgressore di una norma[23]. Dimostrato che le astreintes non possono costituire un rimedio generalizzato, bisogna verificare se sussistono altri strumenti per poter colmare il vuoto di tutela legislativa per la coercizione di obblighi infungibili. Come accennato supra, la comparazione giuridica offre un secondo esempio di tutela efficace, rappresentato dall’istituto tedesco del Geldstrafe, disciplinato dai §§ 888 e 889 della Z.P.O., cioè il codice di rito. Tali norme prevedono che se è inadempiuto un obbligo infungibile e non coercibile in via diretta, il debitore può essere condannato ad una sanzione pecuniaria, secondo il meccanismo coercitivo delle astreintes, ed in ultima istanza all’arresto. A differenza del rimedio francese, quello in questione ha un carattere più marcatamente pubblicistico, testimoniato dalla possibilità della carcerazione, ma soprattutto dal fatto che le somme pagate in esecuzione della condanna sono versate allo Stato, e non al creditore[24]. Quest’ultima è la differenza più vistosa rispetto al modello francese, evitandosi così quell’obiezione formulata con riferimento a quest’ultimo, secondo cui la condanna all’adempimento potrebbe trasformarsi in occasione di ingiustificato profitto per il creditore. Occorre ora verificare se tale efficace strumento di tutela sia estendibile in via interpretativa anche nell’ordinamento italiano. A tal fine, si segue lo stesso procedimento metodologico adoperato con riferimento alle astreintes: prima si analizza se nell’ordinamento italiano esistono istituti assimilabili al Geldstrafe, e poi, in caso di esito positivo della ricerca, si esamina se essi possano giustificare un’applicazione generalizzata, tramite lo strumento dell’interpretazione analogica. La dottrina ha dimostrato che sono rintracciabili esempi di Geldstrafe nello Statuto dei lavoratori, precisamente nell’ art. 18[25]. La norma, nel suo ultimo comma, stabilisce che se il datore di lavoro non ottempera all’ordine del giudice di reintegrare nel posto di lavoro il sindacalista illegittimamente licenziato, egli è tenuto anche a pagare per ogni giorno di ritardo una somma pari alla retribuzione di cui il lavoratore è creditore a favore del Fondo di adeguamento delle pensioni[26]. Il rimedio è quanto mai opportuno per garantire il principio di effettività della tutela giurisdizionale, soprattutto alla luce del costante orientamento giurisprudenziale che qualifica come incoercibile l’obbligo di reintegra gravante sul datore di lavoro[27]. Si concorda tuttavia con quella dottrina che esclude l’impiego generalizzato di tale rimedio tramite lo strumento analogico: è palese infatti il suo carattere eccezionale, limitato al contesto del tutto particolare in cui è previsto[28]. Particolare interesse desta, infine, il terzo modello di tutela degli obblighi infungibili, cioè quello della specific performance e del contempt of court, utilizzato nell’ordinamento della Common Law. Si tratta di un efficace strumento coercitivo indiretto avente portata generale, consistente nel riconoscere natura di reato penale al mancato adempimento di una sentenza di condanna ad una prestazione infungibile ed altrimenti incoercibile[29]. Il rimedio è di creazione delle corti che giudicavano secondo l’equity, dato che la Common law, quando era ancora rigidamente separata dall’equity anche nella distinta competenza delle corti, conosceva solo il rimedio risarcitorio, e non quello in forma specifica[30]. Il creditore si rivolge al giudice per ottenere la sentenza civile di condanna alla prestazione specifica, tramite la specific performance e l’injunction; in caso di inottemperanza a tale condanna, il creditore si rivolge di nuovo al giudice che la ha pronunciata, per ottenere che il debitore venga ritenuto colpevole del reato di contempt of court (cioè disprezzo della corte, letteralmente tradotto). La pena consiste nell’arresto e/o nel pagamento di una multa, di cui beneficiario è normalmente il creditore. Tuttavia, la sanzione è venuta via via addolcendosi nel corso dei secoli, ed oggi la condanna è quasi sempre solo ad una multa crescente progressivamente con il protrarsi dell’inadempimento, similmente alle astreintes, da cui però si differenzia per il marcato carattere penale[31]. Bisogna ora verificare se l’ordinamento italiano conosca rimedi analoghi al contempt of court, tenendo ben presente che non sarebbe possibile nessuna applicazione estensiva ed analogica, dato il carattere penale del rimedio in questione. L’unica soluzione è quindi che uno strumento analogo a quello della Common law nel sistema italiano esista già, ed abbia in sé portata generale, senza bisogno di un’apposita interpretazione analogica che come detto non sarebbe possibile. Nell’ordinamento italiano esistono varie applicazioni di rimedi analoghi al contempt of court, tra cui la sanzione prevista nell’art. 28 comma IV dello Statuto dei lavoratori, nel caso in cui il datore non ottemperi all’ordine del giudice di cessazione della condotta antisindacale[32]. Come già rilevato tuttavia, in questa sede non interessano norme che non siano generali, in quanto non potrebbero essere estese analogicamente in settori più ampi di quelli per i quali esse siano previste. Parte della dottrina sostiene che esistono nell’ordinamento interno rimedi assimilabili all’efficace contempt of court inglese suscettibili di applicazione generalizzata, capaci così di fornire di tutela adeguata i creditori di prestazioni infungibili: ci si riferisce agli artt. 388 e 650 c.p.[33]. La tesi è stata sostenuta parecchi anni or sono, ma ha suscitato la reazione contraria della dottrina e della giurisprudenza dominante, tanto da indurre realisticamente chi per primo la ha proposta a ritenerla per tale motivo non più percorribile[34]. Si ritiene tuttavia da parte di chi scrive che il tentativo vada ripercorso, dato che esso costituisce forse l’unico strumento coercitivo indiretto avente nell’ordinamento italiano portata così generalizzata da soddisfare pressochè tutte le ipotesi di tutela in forma specifica. L’art. 388 c.p., nel comma I, statuisce che chi si sottrae all’adempimento di obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna con atti fraudolenti è condannato alla reclusione o ad una multa. Nel comma II, si stabilisce la medesima pena per chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice concernente l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, oppure prescrivente misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso, o del credito. L’ultimo comma precisa che tali reati sono perseguibili a querela della persona offesa. L’art. 650 c.p. invece, stabilisce che è condannato all’arresto o ad un’ammenda chi non osserva un provvedimento dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica o d’igiene. Si richiama l’attenzione sul comma I dell’art. 388 c.p., il quale, nel punire la sottrazione agli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, si prospetta come un rimedio di portata generale, particolarmente utile nell’ipotesi di condanna ad obblighi non suscettibili di esecuzione forzata, o perché infungibili, o perché la condanna, oltre a reprimere gli effetti della violazione già compiuta, mira ad esplicare una funzione preventiva; sembra sussistere quel medesimo grado di efficacia e di generalità che si è visto caratterizzare il rimedio del contempt of court. Unica perplessità sull’opportunità di fondare la tutela degli obblighi infungibili su una fattispecie penale costituente reato potrebbe essere quella di uno squilibrio pubblicistico eccessivo, dato che ad essere inadempiuto è pur sempre un obbligo civile. Tale inconveniente è tuttavia superato dalla stessa disposizione legislativa, che subordina la punizione dell’inadempiente da un lato alla previa ingiunzione di eseguire la sentenza rivolta dal creditore all’obbligato, dall’altro alla querela dell’offeso; in tal modo si instaura un equilibrato raccordo tra interesse pubblico generale all’osservanza degli obblighi accertati nella sentenza civile di condanna ed interesse privato all’attuazione del provvedimento del giudice[35]. La ricerca di un efficace mezzo coercitivo indiretto avente portata generale sembrerebbe oramai conclusa. Tuttavia, non poche complicazioni nascono quando si esamina il tipo di condotta e l’elemento psicologico richiesto affinchè si perfezioni il reato di cui all’art. 388 comma I c.p., occorrendo da una parte la commissione di atti fraudolenti, e dall’altra il dolo specifico. Non basta allora la semplice elusione del provvedimento del giudice, ma occorre una precisa volontà manifestatasi con modalità particolarmente riprovevoli: in tal modo, l’ambito di applicabilità della norma si riduce drasticamente solo a poche e marginali ipotesi. Ne consegue che tale rimedio assume non più un’efficacia generale, ma solo residuale: è applicabile solo nei pochi casi in cui sussistono i requisiti richiesti. A tale obiezione si sottrae la norma contenuta nel comma II dell’art. 388 c.p., la quale richiede solo l’elemento del dolo generico, e non della frode. Tuttavia, come si è ricordato poco sopra, la norma si riferisce tassativamente all’inesecuzione di misure cautelari o di provvedimenti concernenti l’affidamento dei minori. Certo, in tal modo si ottiene l’importantissimo effetto di fornire di tutela adeguata provvedimenti come quelli ex art. 700 c.p.c., ma di più non si può ricavare, non potendosi certo definire quello in questione un rimedio avente portata generale. Si concorda con la tesi dottrinale secondo cui il rimedio avente portate generale che si sta ricercando possa essere rinvenuto nell’art. 650 c.p.[36]. La norma, come prima ricordato, punisce con la pena dell’arresto o dell’ammenda chi non ottempera a provvedimenti dell’Autorità dati per ragione di giustizia, o di sicurezza pubblica o di igiene. La norma non è un mero doppione dell’art. 388 c.p., come testimoniato dalla clausola di riserva contenuta nell’art. 650 c.p., in base alla quale essa è applicabile se non sussistono gli estremi di un reato più grave, tra cui proprio l’art. 388 c.p. Esaminando singolarmente le varie espressioni terminologiche che ricorrono nella disposizione, è facile attribuire al termine “Autorità” anche il significato di autorità giudiziaria, mentre all’inciso provvedimenti dati “per ragione di giustizia” il significato di sentenza[37]. Non si concorda quindi con la critica mossa dalla maggioranza dei commentatori a tale tesi, secondo cui così facendo si compirebbe un’illegittima interpretazione analogica di una norma penale, dato che ad Autorità andrebbe dato il significato di Pubblica Amministrazione, mentre l’inciso provvedimenti dati per ragione di giustizia non si riferirebbe precipuamente alle sentenze. Si ritiene invece che quest’ultima obiezione si fondi su un equivoco: proponendo essa un’interpretazione riduttiva della norma, qualifica come analogica quella che invece sembra corretto definire null’altro che un’interpretazione dichiarativa e letterale, o al massimo estensiva. Non a caso, l’espressione Autorità non si riferisce ad un particolare tipo di Potere, altrimenti il Legislatore, dato il carattere di stretta interpretazione in malam partem delle norme penali, non avrebbe mancato di specificarlo. Altra critica che viene mossa alla tesi qui sostenuta è che il reato contravvenzionale previsto dall’art. 650 c.p. sarebbe di particolare tenuità, incapace di costituire un rimedio coercitivo indiretto veramente efficace. L’obiezione è infondata per varie ragioni. In primo luogo, il fatto che il reato in questione costituisca una contravvenzione e non un delitto, risulta addirittura un vantaggio, dato che l’art. 42 c.p. precisa che nelle contravvenzioni si è puniti sia per dolo che per colpa, evitandosi l’inconveniente che si è visto limitare la portata dell’art. 388 comma I c.p.[38]. In secondo luogo, il rilievo della tenuità della pena è superato dall’esame sistematico di un’altra norma, l’art. 26 c.p., secondo cui <<quando per le condizioni economiche del reo, l’ammenda stabilita dalla legge può presumersi inefficace, anche se applicata nel massimo, il giudice ha facoltà di aumentarla fino al triplo>>. In terzo luogo, il carattere ripetitivo della violazione dell’ordine del giudice giustifica l’applicazione della recidiva prevista dall’art. 99 c.p., con aumenti di pena fino ad un terzo. Tutte le obiezioni all’applicazione dell’art. 650 c.p. come rimedio coercitivo indiretto avente portata generale sono dunque superate sulla base dello jus positum. Un’ultima considerazione resta da svolgere: applicando l’art. 650 c.p. in astratto potrebbe aversi la conseguenza di un’incarcerazione per inesecuzione di una condanna ad un obbligo civile infungibile. Ciò si porrebbe in palese contrasto con il senso della legge 1877 n. 4166, con cui si è abolito l’imprigionamento per debiti. Poiché tale legge è stata sempre considerata una grande conquista di civiltà, non sembra certo opportuno ottenere il risultato opposto applicando l’art. 650 c.p. Risulta quindi apprezzabile la tesi di chi afferma che nell’ipotesi generale di inesecuzione di una sentenza civile di condanna è comminabile solo la pena dell’ammenda, mentre la pena dell’arresto va inflitta solo qualora il provvedimento del giudice civile sia stato pronunciato a tutela di una situazione soggettiva di vantaggio che sia concretizzazione di un diritto di libertà dell’attore: solo in tal caso la libertà personale dell’obbligato può cedere rispetto all’interesse dell’attore vittorioso, senza che sia alterato il senso dell’abolizione dell’imprigionamento per debiti[39]. Come si è rilevato, sussiste nell’ordinamento italiano un rimedio assimilabile all’efficace contempt of court. L’art. 650 c.p., ed in via residuale l’art. 388 c.p., nonostante l’opinione contraria della dottrina e della giurisprudenza assolutamente maggioritaria, si è dimostrato essere uno strumento valido per assicurare l’adempimento di obblighi infungibili altrimenti incoercibili, utilizzando la tecnica della coercizione indiretta. Solo in questo modo si riesce a colmare una grave lacuna di tutela dell’ordinamento, tale da ledere il fondamentale principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost.; altrimenti non avrebbe alcun senso riconoscere un diritto sul piano sostanziale se poi non è possibile tutelarlo adeguatamente, ottenendo un equivalente monetario, e non precipuamente quell’utilità riconosciuta a livello sostanziale, tramite la tutela specifica. La lettura proposta dell’art. 650 c.p. risulta dunque essere non solo legittima, ma anche costituzionalmente doverosa, dovendo l’interprete ricercare quell’ermeneutica della legge capace di dare attuazione il più possibile, nei limiti del lecito, ai principi costituzionali. Note:
[1] C. Cost., [2] A. DI MAJO, Forme e tecniche di tutela, in Foro it., 1989, V, 132 ss.
[3] Cass., [4] S. MAZZAMUTO, L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli, 1978, p. 12.
[5] Pret. Legnano, [6] F. D. BUSNELLI, Verso una riscoperta delle <<pene private>>?, in Resp. civ. e prev., 1984, p. 26 ss. Il tema dei mezzi coercitivi indiretti si lega con quello delle cd. <<pene private>>, consistenti nella privazione di un diritto privato o nella determinazione di un’obbligazione privatistica a scopo di punizione del trasgressore di una norma. Come rileva l’Autore, deve esser fugato dalle pene private qualsiasi carattere pubblicistico: esse sono sanzioni civili, non sanzioni penali, come tali individuabili solo se previste espressamente dalla legge. L’Autore rileva vari esempi di pene private, come l’indegnità a succedere, la revocazione della donazione per ingratitudine del donatario, le sanzioni previste contro gli abusi del locatore dall’art. 31 l. equo canone, ecc. In quanto sanzioni non aventi carattere penale, esse si prestano ad interpretazioni estensive ed analogiche, colmando diversi vuoti di tutela dell’ordinamento. [7] A. FRIGNANI, Le penalità di mora e le astreintes nei diritti che si ispirano al modello francese, in Riv. dir. civ., 1981, I, p. 511. [8] L.-J. CONSTANTINESCO, Il metodo comparativo, edizione italiana di A. Procida Mirabelli Di Lauro, in Sistemi giuridici comparati, I, 2, a cura di A. Procida Mirabelli Di Lauro, Torino, 2000, p. 142. [9] A. DONDI, L’astreinte endoprocessuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1981, p. 524 ss.; S. MAZZAMUTO, op. cit., p. 59 ss.; A. DI MAJO, op. cit., p. 262; L.-J. CONSTANTINESCO, op. cit., p. 186. [10]A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, II, p. 1165; A. FRIGNANI, op. ult. cit., p. 512; A. DI MAJO, op. cit., p. 263. [11] A. FRIGNANI, op. cit., p. 514. [12] A. DI MAJO, op. cit., p. 264; A. FRIGNANI, op. cit., p. 514 ss.
[13]
A. FRIGNANI, op. cit., p. 524 ss. Per
ulteriori riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, si veda
R. BOCCA, Lo speck Alto
Adige, il principio di territorialità e la cross-border
injunction del giudice di Bolzano, nota a Trib. Bolzano
[14] Trib. Roma, Per la tesi della natura risarcitoria, si consideri Trib.
Vicenza,
[15]
F. MAZZIOTTI, Diritto del lavoro, Napoli, 1998, p. 529; A. FRIGNANI, op. cit., p. 518 ss.. In
giurisprudenza, Pret. Milano, [16] A. FRIGNANI, op. cit., p. 518 ss. [17] F. FERRARA, La teoria giuridica dell’azienda, Milano, 1982, p. 332 ss.; T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, p. 257 ss.; L. MOSCO, La concorrenza sleale, Napoli, 1956, p. 272. In tal senso anche
G. GHIDINI, Della
concorrenza sleale (art. Per ulteriori riferimenti in dottrina e giurisprudenza si veda R. BOCCA, op. cit., 1016 ss. [18] Le parole virgolettate sono di A. FRIGNANI, op. cit., p. 531 ss.
[19] Favorevoli all’applicazione di penalità di mora
nell’ambito della concorrenza sleale sono Trib.
Bolzano, Sfavorevoli all’applicazione di penalità
di mora nel caso della concorrenza sleale, sulla base della mancata previsione
normativa e della specialità delle disposizioni in tema di marchi e brevetti,
sono Trib. Ancona, [20] L. FERRARA, L’esecuzione processuale indiretta, Napoli, 1915, p. 5 ss. [21] A. FRIGNANI, op. cit., p. 531 ss. [22]A. FRIGNANI, op. cit., p. 535; ID., Il mondo delle astreintes: sviluppi recenti e prospettive, in Rass. dir. civ., 1988, 936 ss. [23] A. PROTO PISANI, op. cit., p. 1166 ss. [24] A. PROTO PISANI, op. cit., p. 1167 ss. [25] A. PROTO PISANI, op. cit., p. 1168. [26] A. FRIGNANI, Le penalità di mora e le astreintes nei diritti che si ispirano al modello francese, cit, p. 530. L’Autore, con un’impostazione che non sembra condivisibile, qualifica il rimedio in questione come astreinte, e non come Geldstrafe. Per una soluzione analoga, si veda G. GHEZZI, Statuto dei diritti dei lavoratori (voce), in Noviss. dig. it., XVIII, Torino, 1971, p. 415.
[27] Cass., [28] A. PROTO PISANI, op. cit., p. 1168 ss. [29] A. DI MAJO, La tutela civile dei diritti, III, Milano, 1993, p. 265 ss.; A. PROTO PISANI, op. cit, p. 1169 ss. [30] L.-J. CONSTANTINESCO, op. cit., p. 184. [31] U. MATTEI, Il modello di common law, in Sistemi giuridici comparati, II, a cura di A. Procida Mirabelli Di Lauro, Torino, 1997, p. 168. [32] G. GHEZZI, Statuto dei diritti dei lavoratori, (voce), in Noviss. dig. it., XVIII, Torino, 1971, p. 418, nota 9. [33] A. PROTO PISANI, op. cit., p. 1170 ss.; A. FRIGNANI, op. ult. Cit., p. 509. [34] A. PROTO PISANI, Brevi note in tema di tutela specifica e tutela risarcitoria, in Foro it., 1983, V, p. 132; ID., Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1999, p. 820. [35] A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di condanna, cit., p. 1170 ss. [36] A. PROTO PISANI, op. ult. cit., p. 1170 ss.
[37] In giurisprudenza, tra le pronunce che riconoscono
all’inciso Autorità anche il significato di autorità giudiziaria, si esamini Pret. Todi, La giurisprudenza contraria afferma
invece che per “Autorità” deve intendersi solo la Pubblica Amministrazione. In
particolare, si veda Cass., Non si concorda con quest’ultimo orientamento, per varie ragioni. In primo luogo, non è fondata la contrapposizione dei provvedimenti del giudice che sarebbero attuazione di un interesse particolare, e provvedimenti amministrativi, tutelati dall’art. 650 c.p., attuativi di un interesse generale. Come è stato rilevato in G. VERDE, Profili del processo civile, I, Napoli, 1999, p. 37, l’attività giurisdizionale civile ha un fondamentale tratto in comune con l’attività amministrativa, consistente proprio nell’attuazione del diritto oggettivo, differenziandosene invece sotto l’aspetto soggettivo, dato che solo il giudice, e non la P. A. è terzo ed imparziale rispetto agli interessi trattati. Se allora tratto comune è l’attuazione del diritto oggettivo, non si comprende l’obiezione secondo cui la sentenza sia attuazione di un presunto interesse individuale a differenza dell’atto amministrativo. In secondo luogo, non si concorda con l’obiezione secondo cui l’art. 650 c.p. sarebbe applicabile solo se espressamente previsto nella singola fattispecie: se il legislatore avesse voluto perseguire tale risultato, soprattutto alla luce del principio di stretta interpretazione delle norme penali, non avrebbe mancato di inserire nella norma in questione un inciso del tipo “nei casi previsti dalla legge”, oppure altro equipollente. Per quanto concerne l’inciso “per ragioni
di giustizia”, la giurisprudenza è pressochè unanime
nel ritenere l’espressione come avente un significato assai lato, comprendente
non solo provvedimenti amministrativi, ma anche giurisdizionali. Tra le tante
decisioni, su tutte si consideri Cass.,
[38] Cass., [39] A. PROTO PISANI, op. ult. cit., p. 1177. |
|
|