inserito in Diritto&Diritti nel marzo 2004

L’agente provocatore in rete: uno strumento di acquisizione probatoria a carattere eccezionale.

[a cura di Leo Stilo]

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Corte di Cassazione – sez. III Penale – sent. 21 ottobre 2003, n. 39706; Pres. Dott. Giuseppe Savignano, Est. Dott. Amedeo Franco, P.M. Dott. Vittorio Meloni, Difensore avv. Bruno Desi.


MASSIMA
L’attività di contrasto alla pornografia minorile in Rete, attuata dalle forze di polizia, può sfociare in un’attività tesa a creare occasioni di acquisizione di materiale probatorio sia attraverso l’impiego dei c.d. agenti provocatori e sia attraverso la predisposizione di veri e propri siti civetta capaci di attirare i soggetti interessati allo scambio o alla diffusione del predetto materiale. La Corte di Cassazione ha affermato, nella sentenza in esame, che l’attività investigativa, di cui all’art. 14 della legge n. 269 del 1998, deve essere svolta nel rigoroso rispetto dei limiti sostanziali e procedurali fissati dalla legge. Il superamento di tali limiti determina, pertanto, non già la semplice irregolarità o illegittimità dell’acquisizione probatoria ma addirittura la sua assoluta illiceità e conseguente inutilizzabilità processuale.


TESTO DELLA SENTENZA
(Omissis) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. Con decreto del Pubblico Ministero presso il Tribunale per i minorenni di Salerno del 27 gennaio 2003 fu disposto il sequestro probatorio, nei confronti di B.L. (maggiorenne) di un personal computer e di diversi oggetti accessori (dischetti, CD ROM, dischi Zip, dischi rigidi portatili) in relazione ai reati di cui agli artt. 600 ter e 600 quater cod. pen. Il Tribunale per i minorenni di Salerno, quale giudice del riesame, con ordinanza del 7 febbraio 2003, osservò: a) che sulla base degli atti trasmessi dal pubblico ministero sussisteva il fumus esclusivamente in relazione al reato di cui all’art 600 quater cod. pen., mentre non era assolutamente rinvenibile il fumus di una delle fattispecie delittuose di cui all’art 600 ter cod. pen.; b) che, per tale reato, non era prevista l’attività di contrasto ai sensi dell’art 14 della legge 3 agosto 1998, n. 269, il quale limita tale attività al solo fine di acquisire elementi di prova per i delitti di cui agli artt. 600 bis, primo comma, 600 ter commi 1, 2 e 3, e 600 quinquies cod. pen., e non anche per il reato di cui all’art .600 quater cod. pen., concernente la mera detenzione consapevole di materiale pedopornografico; c) che di conseguenza doveva annullarsi il decreto di sequestro impugnato ed ordinarsi la restituzione di quanto in sequestro. Il procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Salerno propone ricorso per cassazione deducendo: a) che il procedimento nei confronti di B. è nato a seguito di un provvedimento di stralcio emesso nel procedimento a carico di tale C.G., procedimento nel quale era stata disposta l’attività di cui all’art 14 della legge 3 agosto 1998, n. 269. Ne consegue che non ci si trova di fronte ad un’ipotesi di valutazione della legittimità del provvedimento del pubblico ministero che autorizza l’attività di contrasto ai sensi del citato articolo 14 ma in quella, diversa, di utilizzabilità in un processo di atti acquisiti in altro procedimento. b) che a quest’ultimo riguardo non è prevista nessuna specifica disposizione, con la conseguenza che devono applicarsi le disposizioni generali sull’utilizzabilità degli atti e sui presupposti dei provvedimenti di perquisizione e sequestro; c) che, anche se si volesse equiparare l’attività ex art. 14 legge 3 agosto 1998, n. 269, alle intercettazioni telefoniche o telematiche, non dovrebbe trovare applicazione l’art. 270, primo comma, cod. proc. pen., perché, secondo la giurisprudenza, qualora le registrazioni di intercettazioni telefoniche rappresentino non una conversazione relativa ad un fatto reato bensì una comunicazione che integra essa stessa condotta del reato addebitato, la loro acquisizione al processo va inquadrata nelle norme che regolano l’uso processuale del corpo di reato, dovendosi tali registrazioni considerare cose sulle quali il reato è stato commesso, con conseguente inapplicabilità delle limitazioni di cui all’art 270 cod. proc. pen.; d) che quindi non sussiste alcun limite alla possibilità di sequestro del materiale illegittimamente detenuto ex art 600 quater cod. pen., qualunque sia stata la fonte informativa dalla quale si abbia avuto notizia del possesso (come nel caso in cui il materiale pedopornografico fosse stato sequestrato a seguito di perquisizione diretta alla ricerca di armi o di droga), e ciò per il motivo che si tratta comunque di materiale che costituisce corpo del reato di cui al suddetto art. 600 quater cod. pen.; e) che, inoltre, dagli atti del procedimento stralciato, risulta che un soggetto che utilizzava lo pseudonimo usato dal B. prelevò il 9 marzo 2002 ben 25 documenti di carattere pedopornografico dal F-server installato nel corso delle indagini a carico di C.G., e tale attività di prelievo integra la fattispecie di “scambio” di materiale pedopornografico, per cui vi sono elementi sufficienti a ritenere il fumus del reato di cui all’art 600 ter cod. pen.; f) che il tribunale non ha tenuto conto del secondo comma dell’articolo 240 cod. pen. secondo cui è sempre disposta la confisca delle cose la cui detenzione costituisce reato, in relazione al settimo comma dell’art 324 cod. proc. pen., secondo cui la revoca del decreto di sequestro non può essere disposta nei casi indicati dall’art. 240, secondo comma, cod. pen.; g) che sotto questo aspetto la motivazione della ordinanza impugnata è anche manifestamente illogica perché, pur riconoscendo il fumus del reato di detenzione di materiale pedopornografico (art 600 quater cod. pen.) si autorizza a continuare tale detenzione ed a disperdere la prova del reato stesso. In data 30 aprile 2003 il difensore dell’indagato ha depositato memoria difensiva con la quale contrasta le argomentazioni svolte dal pubblico ministero ricorrente.
MOTIVI DELLA DECISIONE. Deve essere logicamente esaminato per primo il quinto motivo del ricorso, con il quale si sostiene che dagli atti emergerebbero elementi in base ai quali sarebbe configurabile il fumus del reato di cui all’art. 600 ter cod. pen., e ciò perché un soggetto utilizzante lo stesso pseudonimo utilizzato dal B. avrebbe prelevato il 9 marzo 2002 25 documenti di carattere pedopornografico, con il che si sarebbe realizzata la fattispecie dello “scambio” di tale materiale e quindi il reato di cui all’art 600 ter cod. pen. Il motivo è chiaramente infondato. A questo proposito (pur essendo in realtà irrilevanti), sono del tutto esatte le osservazioni contenute nella memoria difensiva secondo cui tali pretesi documenti non sono stati mai acquisiti al fascicolo, con impossibilità da parte del tribunale del riesame e della difesa di poterne controllare il contenuto, e con conseguente illegittimità di una decisione del tribunale del riesame che si fosse basata sugli stessi. (omissis) Ma, come accennato, l’osservazione del difensore, seppur esatta, è nella specie irrilevante. Ed invero, quand’anche il B. avesse effettivamente prelevato dallo F-server in questione i 25 documenti pedopornografici di cui parla il pubblico ministero e quand’anche la prova di tale prelevamento fosse stata acquisita legittimamente e fosse quindi utilizzabile, ugualmente non sarebbe - con tutta evidenza - configurabile nessuno dei reati di cui ai primi tre commi dell’art. 600 ter cod. pen. ai quali esclusivamente l’art. 14 legge 3 agosto 1998, n. 269, limita l’attività di contrasto ivi prevista. Non ovviamente quello di cui al primo comma del detto articolo (che prevede l’ipotesi della realizzazione di esibizioni pornografiche o della produzione di materiale pornografico mediante lo strumento di minori degli anni diciotto) non quello di cui al secondo comma (che prevede l’ipotesi di chi fa commercio del detto materiale) né quello di cui al terzo comma (che prevede l’ipotesi di chi distribuisce, divulga o pubblicizza il detto materiale pedopornografico o distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all’adescamento o allo sfruttamento sessuale dei minori degli anni diciotto). Ma nemmeno sarebbe configurabile il reato di cui al quarto comma del medesimo articolo 600 ter cod. pen. (per il quale peraltro non è consentita l’attività di contrasto di cui al citato articolo 14 legge 3 agosto 1998, n. 269), reato che si riferisce al caso di chi consapevolmente cede ad altri, anche a titolo gratuito, materiale pedopornografico. Ed infatti, secondo la ipotesi prospettata dal pubblico ministero ricorrente - ma non risultante da nessuno degli atti messi a disposizione del tribunale del riesame - il B. si sarebbe limitato a prelevare del materiale pedopornografico dal sito civetta installato nel procedimento contro tale C. G., ma non avrebbe ceduto ad altri, neppure a titolo gratuito, il suddetto materiale. In ogni caso, quindi, nono essendovi stato nessuno “scambio” (ipotesi questa peraltro nemmeno contemplata dagli artt. 600 ter cod. pen. e 600 quater cod. pen.) di materiale pedopornografico in quanto il B. si sarebbe limitato esclusivamente a prelevarlo e non a cederlo a sua volta, neppure in cambio di quello prelevato, l’unico reato astrattamente ipotizzabile sarebbe quello di cui all’art 600 quater cod. pen., come appunto correttamente ritenuto dal tribunale del riesame.
I primi tre motivi del ricorso del pubblico ministero sono manifestamente infondati. Va preliminarmente rilevato che tali motivi si fondano, in gran parte, su un assunto palesemente erroneo, ossia quello di una pretesa assimilabilità della disciplina relativa alla attività di contrasto prevista e rigorosamente disciplinata dall’art 14 della legge 3 agosto 1998, n. 269, con la disciplina relativa all’utilizzabilità, anche in procedimenti diversi da quello in cui sono state disposte, delle intercettazioni telefoniche e telematiche. Si tratta invece di attività investigative del tutto diverse, aventi diverse caratteristiche e ben diverse potenzialità di incisione su beni costituzionalmente tutelati, ed assoggettate pertanto a diversi presupposti, di modo che non è possibile nessuna estensione analogica della disciplina relativa alle intercettazioni telefoniche alla attività di contrasto di cui al citato art. 14. La ragione è di tutta evidenza. Con l’attività di intercettazione di comunicazioni telefoniche o telematiche la polizia giudiziaria si limita, appunto, ad intercettare le comunicazioni che avvengono tra soggetti terzi senza svolgere alcun ruolo attivo e tanto meno un ruolo di provocazione. Con l’attività di contrasto di cui all’art. 14 legge 3 agosto 1998, n. 269, invece, in vista della gravità e dell’allarme sociale di alcuni ben specifici e determinati reati, la polizia giudiziaria è autorizzata, limitatamente ai reati stessi, a svolgere, in via del tutto eccezionale rispetto alle norme e ai principi fondamentali del nostro ordinamento processuale in tema di acquisizione delle prove, un vero e proprio ruolo di agente provocatore. Orbene, è evidente che una tale attività in tanto può ritenersi consentita e non in contrasto con norme costituzionali in quanto sia appunto strettamente limitata a casi eccezionali e soggetta ad una rigida disciplina che ne stabilisca rigorosamente i limiti e le procedure. Ne consegue, innanzitutto, che qualsiasi applicazione analogica di tale disciplina eccezionale a casi diversi da quelli tassativamente previsti dall’art. 14 citato, deve ritenersi assolutamente vietata ai sensi dell’art. 14 delle preleggi. Del resto è proprio la eccezionalità di questa disciplina e la sua deroga dai principi fondamentali, anche di valore primario - deroga razionalmente giustificata dalla particolare gravità ed odiosità dei reati che con essa si intendono contrastare - che ha indotto il legislatore a dettare dei limiti ben precisi e rigorosi, al di fuori dei quali l’attività in questione deve ritenersi non solo irregolare o illegittima, ma addirittura illecita, con conseguente inutilizzabilità, rilevabile d’ufficio in qualsiasi stato e grado del processo, ai sensi dell’art. 191 cod. proc. pen., di qualsiasi prova attraverso la medesima acquisita (cfr. Sez. III, 3 dicembre 2001, D’Amelio). In particolare, con l’articolo in questione, il legislatore ha previsto due diverse ipotesi di attività di contrasto. La prima è quella indicata dal primo comma del detto art. 14, per la cui legittimità occorre la presenza dei seguenti presupposti: a) che l’attività investigativa sia svolta nell’ambito di operazioni disposte dal questore o dal responsabile di polizia di livello almeno provinciale; b) che l’attività sia svolta da ufficiali di polizia giudiziaria (e non quindi da semplici agenti); c) che i detti ufficiali di polizia giudiziaria appartengano alle strutture specializzate ivi indicate; d) che vi sia l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per poter procedere all’acquisto simulato di materiale pornografico, alle relative attività di intermediazione e alla partecipazione ad iniziative turistiche; e) che la detta attività sia diretta al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti di cui agli artt. 600 bis, primo comma, 600 ter, commi primo, secondo e terzo, e 600 quinquies cod. pen. La seconda ipotesi è quella prevista dal secondo comma del detto art. 14, e per la sua legittimità occorre la presenza dei seguenti presupposti: a) che le indagini siano svolte nell’ambito di compiti di polizia delle telecomunicazioni, definiti con apposito decreto ministeriale, dall’apposito organo del ministero dell’interno per la sicurezza e la regolarità dei servizi di telecomunicazione; b) che l’attività sia svolta su richiesta della autorità giudiziaria, motivata a pena di nullità; c) che l’attività sia finalizzata esclusivamente a contrastare i delitti di cui agli artt. 600 bis, primo comma, 600 ter, commi primo, secondo e terzo, e 600 quinquies cod. pen. commessi mediante l’impiego di strumenti informatici o mezzi di comunicazione telematica ovvero utilizzando reti di telecomunicazione disponibili al pubblico, d) che, sempre esclusivamente a tal fine, il personale addetto può utilizzare indicazioni di copertura, anche per attivare siti nelle reti, realizzare o gestire aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi telematici, ovvero per partecipare ad esse. Orbene, va osservato in via preliminare, che, come esattamente rileva il difensore nella sua memoria, nel caso di specie la stessa legittimità e regolarità della attività di contrasto (condizione indispensabile per la utilizzabilità degli elementi di prova attraverso essa acquisiti: cfr. Sez. III, 3 dicembre 2001, D’Amelio, già ricordata) effettuata nel procedimento ordinario da cui è scaturito, per stralcio, quello a carico del B., è una mera petizione di principio, in quanto non sono mai stati trasmessi al tribunale gli atti a sostegno di tale asserzione. Esattamente, quindi, il difensore rileva che così operando il decreto di sequestro, da mezzo di ricerca della prova, rispetto alla notitia criminis che dovrebbe essere già acquisita rispetto al B., si è in realtà trasformato in strumento di acquisizione della notitia criminis. Né potrebbe ritenersi, come sembra invece opinare il ricorrente, che la regolarità e legittimità della procedura di autorizzazione e di espletamento dell’attività di contrasto rileverebbe soltanto nel procedimento originario e non in quello stralciato, e ciò in applicazione analogica della disciplina in materia di intercettazioni telefoniche. Ed infatti, a prescindere da ogni altra considerazione, si è già osservato come l’attività di contrasto in esame sia regolata da una disciplina del tutto eccezionale e che in ordine ad essa non possono trovare applicazione analogica norme e principi giurisprudenziali valevoli per la diversa fattispecie delle intercettazioni telefoniche, che riguarda ipotesi del tutto diverse e differenziate dalla vera e propria attività di agente provocatore che la polizia giudiziaria è autorizzata a svolgere dall’art 14 legge 3 agosto 1998, n. 269, nei soli casi e limiti da esso espressamente previsti. Nella specie, oltretutto, l’acquisizione e la valutazione dei provvedimenti idonei a dimostrare la sussistenza dei presupposti giustificativi dell’attività di contrasto in esame nonché le modalità con le quali l’attività di provocazione si era concretamente espletata, erano tanto più necessari in quanto la difesa aveva esplicitamente sostenuto, per mezzo della consulenza tecnica di parte, che l’inchiesta aveva preso avvio da un programma civetta appositamente predisposto dalla società Uniplan Software s.r.l. di Salerno su richiesta del pubblico ministero, sistema automatico “approntato non tanto per monitorare, quanto per provocare attivamente e - potenzialmente- confondere gli utenti che si collegavano ad alcuni sospetti canali mIRC”. Il sistema della Uniplan, secondo la difesa, inoltrava ogni 50 secondi un’offerta pubblicitaria in inglese e senza alcun riferimento a pedopornografia” ed il messaggio civetta aveva il carattere di “assoluta genericità” essendo “in grado di allettare e confondere pressoché la totalità degli utenti internet italiani non interessati a materiale pedopornografico”. Rileva altresì la consulenza tecnica di parte che i 25 file civetta che sarebbero stati scaricati dal B. avevano “nomi comunissimi, assolutamente generici, tutt’altro che inequivocabili e - comunque - in nessun modo riconducibili a pedopornografia”. Trattasi ovviamente di osservazioni di merito che non rilevano in questa sede di legittimità e che, tuttavia, si è ritenuto opportuno riportare perché essi appaiono portare un sostegno all’impressione, che chiaramente seppure implicitamente traspare dalla motivazione della ordinanza impugnata, che si sia trattato nel suo complesso di una operazione investigativa poco rispettosa delle norme di legge e dei diritti fondamentali del cittadino. Quel che però importa rilevare è che, qualora fosse corrispondente al vero l’affermazione che sembra essere stata fatta dalla difesa secondo cui l’attività di contrasto fu effettuata, sia pure a seguito di specifico incarico del pubblico ministero, ad una società privata, quale la Uniplan Software s.r.l. di Salerno, e non invece da agenti o ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti all’organo del ministero dell’interno per la sicurezza e la regolarità dei servizi di telecomunicazione, così come espressamente richiesto dall’art 14, secondo comma, legge 3 agosto 1998, n. 269, ne deriverebbe la illegittimità (anzi: illiceità) di tutta la suddetta attività nel suo complesso e la totale inutilizzabilità, in ogni stato e grado del giudizio, di qualsiasi elemento di prova acquisito per mezzo della stessa, non solo nel procedimento in esame ma anche in quello originario ed anche in relazione agli specifici reati previsti dal suddetto art. 14. Il tribunale del riesame, peraltro, giustamente non ha affrontato questi problemi in quanto ha rilevato un’altra causa preliminare ed assorbente di inutilizzabilità degli elementi di prova acquisiti. Tali elementi di prova, infatti, sono stati acquisiti attraverso una attività di contrasto espletata ai sensi dell’art. 14 legge 3 agosto 1998, n. 269, il quale però limita la liceità di una tale attività solo al fine di contrastare i delitti di cui agli artt. 600 bis, primo comma, 600 ter, commi primo, secondo e terzo, e 600 quinquies cod. pen. Ne consegue che, poiché nel caso di specie l’unico reato ipotizzabile a carico dell’indagato è quello dell’art 600 quater cod. pen., la suddetta attività di contrasto - quand’anche fossero sussistenti tutti gli altri presupposti richiesti dalla legge per la sua legittimità - non poteva comunque essere utilizzata per scoprire i delitti in questione. In altre parole l’attività di contrasto non poteva in nessun modo essere diretta a scoprire comportamenti di quei soggetti che si limitavano esclusivamente a procurarsi o a detenere materiale pedopornografico così come non poteva essere assolutamente utilizzata per scoprire i comportamenti di quei soggetti che si limitavano, anche consapevolmente, a cedere ad altri, anche a titolo gratuito materiale pedopornografico (art. 600 ter comma quarto cod. pen.), ossia si limitavano ad una singola cessione di immagini o di filmati pedopornografici, dovendo invece essere diretta esclusivamente alla scoperta dei comportamenti consistenti nella “distribuzione” o “divulgazione” o “pubblicizzazione” ad un numero indeterminato di persone del detto materiale (ovvero a scoprire i comportamenti integranti un altro dei reati espressamente indicati dalla disposizione in esame). Poiché pertanto gli elementi di prova a carico dell’indagato per il reato di cui all’art 600 quater cod. pen., sono stati acquisiti mediante un’attività che, avendo oltrepassato i limiti rigorosamente fissati dal suddetto art. 14, è da considerarsi non solo irregolare o illegittima, ma addirittura illecita (in quanto l’attività dell’agente provocatore, di per se illecita, non trova più giustificazione e fondamento in una norma di legge) ne consegue che del tutto esattamente il tribunale del riesame ha ritenuto i suddetti elementi di prova assolutamente inutilizzabili, ai sensi dell’art 191 cod. proc. pen., in ogni stato e grado del procedimento. Le contrarie osservazioni svolte in proposito dal ricorrente sono del tutto inconferenti e comunque prive del benché minimo fondamento. Basterebbe osservare che, come giustamente rileva la difesa dell’indagato, qualora si desse credito a siffatte argomentazioni si finirebbe per avvalorare una prassi abnorme, quella cioè di sanare eventuali irregolarità o illiceità procedimentali da parte della polizia postale (o anche di qualsiasi soggetto al quale per caso il pubblico ministero avesse illegittimamente delegato l’attività) nell’azione di contrasto al fenomeno della pedopornografia attraverso una semplice operazione di stralcio a totale discrezione (se non arbitrio) del pubblico ministero procedente. D’altra parte l’argomento del ricorrente - secondo cui il fatto che il procedimento contro il B. ha tratto origine da un provvedimento di stralcio emesso in diverso procedimento nel quale fu disposta l’attività di contrasto di cui all’art 14, dovrebbe comportare la conseguenza che nel presente procedimento non si potrebbe più valutare la legittimità della attività di contrasto ma solo la utilizzabilità in un processo di atti acquisiti in un altro processo - è, più che manifestamente illogico, del tutto abnorme ed assurdo. Ed invero - a parte la circostanza che non è dato sapere se nell’originario procedimento contro tale C. G. si procedesse per uno dei reati previsti dall’art 14 della legge 3 agosto 1998, n. 269, ovvero si procedesse anche in esso per il reato di cui all’art 600 quater cod. pen. o all’art 600 ter, comma quarto, cod. pen. (nel qual caso l’attività di contrasto sarebbe stata illecita anche nel procedimento originario con conseguente inutilizzabilità anche in esso degli elementi probatori acquisiti) - sta di fatto che non può certamente sostenersi che la eventuale legittimità della procedura seguita nel diverso procedimento riverserebbe automaticamente i suoi “effetti virtuosi” in quello nuovo e diverso. L’art. 14 della legge 3 agosto 1998, n. 269, non consente che l’attività di contrasto attraverso l’agente provocatore sia svolta per accertare elementi di prova in ordine al reato di cui all’art 600 quater cod. pen., per cui la totale inutilizzabilità degli elementi di prova relativi a tale reato eventualmente raccolti in relazione a tale reato resta ferma in ogni caso a prescindere dalle origini e dalle vicende procedimentali e non può ovviamente venire meno solo per il fatto - del tutto casuale e irrilevante - che il procedimento per il reato di cui all’art 600 quater cod. pen. prenda origine da uno stralcio effettuato in un diverso procedimento. D’altra parte l’illogicità dell’assunto del ricorrente risulta anche da un’altra considerazione: se per ipotesi nel processo originario a carico del C. si procedesse per il solo reato di cui all’art. 600 quater cod. pen. e conseguentemente gli elementi di prova illegalmente acquisiti per mezzo della attività di contrasto di cui all’art. 14 citato fossero in tale procedimento inutilizzabili, si determinerebbe l’assurda conseguenza che i medesimi elementi probatori diverrebbero - del tutto ingiustificatamente - utilizzabili in un altro procedimento sol perché quest’ultimo ha preso origini da uno stralcio del procedimento originario. Quanto alle argomentazioni del ricorrente basate su una presunta equiparazione della attività di contrasto in questione con quella delle intercettazioni telefoniche e telematiche e su una pretesa applicazione analogica alla prima delle norme e dei principi giurisprudenziali relativi a quest’ultima, si è già ampiamente rilevato come nessuna equiparazione tra le due attività è possibile (dato che nella prima, a differenza che nella seconda, si è in presenza di una vera e propria attività di agente provocatore) e come sarebbe del tutto illegittima ed arbitraria una tale estensione analogica, se non altro perché trattasi di norme che fanno eccezione a regole generali e che quindi non possono essere applicate in via analogica al di là dei casi tassativamente previsti dalla legge. Parimenti del tutto inconferente e manifestamente infondato è il paragone, che il ricorrente pretenderebbe di fare, con l’ipotesi in cui il materiale pedopornografico venisse ritrovato a seguito di perquisizione diretta alla ricerca di armi o di sostanze stupefacenti. Anche in questo caso il ricorrente dimentica che nella ipotesi in questione non si tratta di una normale attività investigativa della polizia giudiziaria diretta all’accertamento di un qualche reato, nel corso della quale venga per caso scoperta l’esistenza di un differente reato, bensì siamo di fronte ad una attività di un agente provocatore, che è autorizzata e resa lecita esclusivamente negli stretti limiti e per l’accertamento dei limitati reati per i quali è consentita. Ne consegue che è del tutto ovvio e corrispondente ai principi - ed anzi una contraria interpretazione sarebbe in contrasto con fondamentali principi costituzionali e dovrebbe quindi essere comunque disattesa per evitare possibili censure di illegittimità costituzionale - che qualora attraverso tale attività di agente provocatore si vengano per caso a scoprire reati diversi da quelli alla cui scoperta tale attività era esclusivamente indirizzata, gli elementi probatori relativi a tali reati non possano comunque essere in nessun caso utilizzati. Nella specie, la detenzione da parte dell’indagato, di materiale pedopornografico non è stata scoperta nel corso di una normale perquisizione diretta alla scoperta di armi o di sostanze stupefacenti (nel qual caso gli elementi probatori rinvenuti sarebbero stati chiaramente utilizzabili ed il materiale certamente sequestrabile) bensì a seguito di una attività di agente provocatore che è divenuta illecita (con conseguente inutilizzabilità degli elementi probatori acquisiti) nel momento in cui è stata utilizzata per l’accertamento di reati diversi da quelli tassativamente previsti dalla legge. Parimenti irrilevante e manifestamente infondato è poi il richiamo all’art. 240, secondo comma, cod. pen., ed all’art. 324 cod. proc. pen.. Innanzitutto, invero, tale disposizione presuppone pur sempre che il sequestro degli oggetti sia stato legittimamente eseguito, mentre nella specie si tratta di un sequestro palesemente illegittimo perché operato sulla base di un’attività di agente provocatore avente i caratteri della illiceità e su elementi probatori totalmente inutilizzabili. In secondo luogo, a tutto voler concedere, ossia anche a voler ritenere in ipotesi applicabile l’art 324, settimo comma, pure nelle ipotesi di sequestro disposto in base a prove assolutamente inutilizzabili, perché acquisite per mezzo di una attività illecita e pure nelle ipotesi in cui, come nella specie - proprio per la totale inutilizzabilità delle prove - non è configurabile il fumus di alcun reato e presumibilmente non si potrà mai giungere ad una pronuncia di condanna, il divieto di restituzione potrebbe tutt’al più riguardare le sole cose la cui detenzione costituisce reato, ossia i dischetti, CD ROM, o altri supporti magnetici che concretamente contengono immagini o filmanti pedopornografici ma non anche tutto il restante materiale illegittimamente sequestrato all’indagato. Né potrebbe ritenersi che il sequestro possa trovare giustificazione in base alla considerazione che si tratta di corpo del reato. E ciò, a prescindere da ogni altra considerazione, perché, come esattamente rilevato dall’ordinanza impugnata, non essendo assolutamente utilizzabili i risultati delle indagini illegittimamente svolte, nella specie non è ravvisabile il fumus di alcun reato e quindi nemmeno la presenza di alcun corpo del reato. Il ricorso deve pertanto essere respinto.

P.Q.M., la Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso.


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NOTA


Nella sentenza del 21 ottobre 2003, n. 39706[1], la Corte di Cassazione si sofferma a puntualizzare alcuni confini dell’attività di contrasto alla pornografia minorile ed in particolare i limiti entro cui possono essere esercitate le attività tese all’acquisizione degli elementi di prova da parte delle forze di polizia ai sensi dell’art. 14 della legge n. 269 del 1998.
Con questa legge sono state introdotte nel tessuto del codice alcune figure di reato tese a contrastare lo sfruttamento sessuale di soggetti minori e la pedo-pornografia.
Tra le forme di commercializzazione quella che desta maggiore preoccupazione è quella riguardante la diffusione di materiale pedopornografico e la prostituzione di soggetti minori veicolate attraverso Internet e le nuove tecnologie informatiche.
La gravità di tale fenomeno ha obbligato il legislatore italiano a creare, ritagliandole dalle classiche istituzioni di polizia, strutture investigative specializzate. La legge n. 269 del 1998 presenta, proprio in questo settore, importanti novità sul piano dell'investigazione e della ricerca della prova.
Tra gli strumenti più rilevanti si deve annoverare l'istituzione, mutuata dalla lotta contro altri fenomeni criminali[2], del c.d. agente provocatore[3].
Per tracciare brevemente le linee di questa figura è sufficiente, in questa sede, riportare il pensiero espresso da alcuni autorevoli studiosi sul punto:
«Una particolare forma di istigazione è quella realizzata dal c.d. agente provocatore: cioè colui il quale (si tratta non di rado di appartenenti alla polizia) provoca un delitto al fine di assicurare il colpevole alla giustizia. Tale figura, sorta in origine come ipotesi di concorso morale sotto forma di istigazione qualificata, è andata nel corso del tempo ampliandosi fino a comprendere sia casi in cui l’agente provocatore assume la veste di soggetto passivo del reato (come nel caso paradigmatico della truffa), sia quelli in cui un soggetto si infiltra in un’organizzazione criminale alla scopo di scoprirne la struttura e denunciarne i partecipanti»[4];
«(omissis)... l’agente provocatore, cioè colui che, istigando od offrendo l’occasione, provoca la commissione di reati al fine di coglierne gli autori in flagranza, o comunque, di farli scoprire e punire. Trattasi, in genere, di appartenenti alla polizia i quali, così operando, mirano a rendere possibile la scoperta di un’organizzazione criminale o l’individuazione di un singolo delinquente»[5].
La figura dell’agente provocatore, alla luce dell’esperienza concreta che in questi anni si è sedimentata in vari ambiti (primo fra tutti quello della lotta allo spaccio di sostanze stupefacenti), non presenta un carattere omogeneo poiché si manifesta in diverse situazioni: dall’infiltrato al c.d. falsus emptor nell’ambito dei reati-contratto.
Tuttavia, nonostante le varie realtà fenomeniche attraverso cui si materializza tale istituto, il comune problema giuridico è quello di valutare:
1) se ed in quali termini l’agente provocatore possa essere chiamato a rispondere penalmente dei reati oggetto della sua provocazione;
2) quali limiti sono posti alla sua attività di procacciatore di prove.

Ritornando al caso specifico, l’art. 14 della legge n. 269 del 1998 nasce come norma di carattere eccezionale, creata dal legislatore in vista dell’elevato allarme sociale provocato da alcuni gravi reati.
In questa prospettiva, infatti, la polizia giudiziaria è autorizzata ad esercitare delle attività eccezionali tese ad acquisire il materiale probatorio utile al fine di assicurare alla giustizia chi si è reso colpevole dei suddetti crimini.

La Suprema Corte ribadisce, tuttavia, che tale attività di ricerca della prova può essere considerata legittima solo, ed in quanto, sia limitata a casi tassativamente individuati dalla legge e sia circondata da rigorose procedure idonee a garantire la tutela dei diritti inviolabili delle persone coinvolte nelle diverse operazioni.

Proprio per questo motivo, ogni estensione analogica oltre i casi tassativamente previsti si deve ritenere non attuabile ed espressamente vietata ai sensi dell’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile (c.d. preleggi).
La Corte di Cassazione, nel solco di queste argomentazioni, ha voluto puntualizzare ulteriormente i presupposti necessari per poter svolgere le attività investigative previste dall’art. 14 della legge 269 del 1998.

Per quanto concerne le attività di cui al primo comma, l’attività investigativa e di contrasto deve svolgersi nell’ambito di un’operazione disposta dal questore o da un responsabile della polizia almeno di livello provinciale.
Questo elemento rappresenta il presupposto organizzativo necessario per poter svolgere tali attività. Inoltre, le stesse operazioni devono essere svolte da ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti a strutture specializzate per la repressione dei delitti sessuali o per la tutela dei minori, ovvero di quelle create per contrastare la criminalità organizzata. Con questa seconda condizione il legislatore ha voluto identificare le qualità tecniche e professionali dei soggetti chiamati a svolgere tali complesse e difficili operazioni di controllo e di contrasto a specifiche tipologie di reati.
A tali presupposti si viene ad aggiungere anche la necessaria autorizzazione dell’autorità giudiziaria per:
1. procedere all’acquisto simulato del materiale pornografico;
2. svolgere attività di intermediazione;
3. partecipare alle iniziative di cui all’art. 5 della predetta legge.

Infine, la stessa autorizzazione è subordinata al fatto che le predette attività siano dirette ad acquisire elementi di prova sui delitti di cui all’art. 600 bis, primo comma, 600 ter, commi primo, secondo e terzo, e 600 quinquies del codice penale.
In merito alle attività di contrasto cui al primo comma dell’art. 14 della legge 269/1998, si rilevano alcuni problemi interpretativi nell’analisi semantica dell’espressione “attività di intermediazione di materiale pornografico”. Tale attività, senza dubbio, deve consistere nell’azione di porre in comunicazione o comunque in contatto almeno due soggetti diversi dall’intermediario. Il problema sorge, però, nel momento in cui tale attività di contrasto deve essere svolta su internet.

Nel contesto della norma in esame, il concetto di intermediazione deve essere interpretato in modo consequenziale all’attività di acquisizione simulata del materiale illecito. In questa prospettiva, anche alla luce dell’analisi delle condotte sanzionate dall’art. 600 ter, comma primo, secondo e terzo, l’intenzione del legislatore appare essere quella di consentire un’attività di tipo “commerciale” che può concretizzarsi , al fine di reperire i necessari elementi probatori, nel mettere in contatto chi produce, detiene o diffonde il materiale pedo-pornografico con chi intenda acquisirlo.

Si può scorgere anche in questa disposizione il perseguimento di uno degli scopi più importanti della legge n. 269 1998 che consiste nel voler colpire il mercato on-line che vive sulla distribuzione del materiale pornografico attraverso dei meccanismi sostanziali e processuali atti non solo a colpire i singoli responsabili che di volta in volta potranno essere così denunciati e perseguiti ma soprattutto a mandare in corto l’intero circuito “imprenditoriale ed organizzativo”.
Per quanto riguarda la seconda ipotesi di attività di contrasto prevista dall’articolo 14, secondo comma, della legge n. 269 del 1998, è necessario premettere l’esistenza di una serie di imprescindibili condizioni. Innanzitutto, le indagini devono essere svolte nell’ambito dei compiti della polizia delle telecomunicazioni e su richiesta dell’autorità giudiziaria, motivata a pena di nullità[7].

In secondo luogo tali attività devono essere espressamente finalizzate a contrastare i delitti di cui agli artt. 600 bis, primo comma, 600 ter, commi primo, secondo e terzo, e 600 quinquies c.p., commessi mediante l’impiego di sistemi informatici o mezzi di comunicazione telematica ovvero utilizzando reti di telecomunicazione disponibili al pubblico.
La norma puntualizza che, sempre ai suddetti fini, il personale addetto possa utilizzare delle “identità” di copertura, anche mediante la predisposizione e la gestione di siti (c.d. civetta), aree di comunicazione o scambio di materiale illecito. Come si può notare, l’attività di contrasto alla pornografia minorile in Rete, attuata dalle forze di polizia, può sfociare legittimamente in un’attività tesa a creare occasioni di acquisizione di materiale probatorio sia attraverso l’impiego della figura degli agenti provocatori e sia attraverso la predisposizione di veri e propri siti civetta capaci di attirare i soggetti interessati allo scambio o alla diffusione del materiale illecito. La Suprema Corte, in conclusione, afferma con estrema decisione che l’attività investigativa, di cui all’art. 14 della legge 269 del 1998, deve essere svolta nel rigoroso rispetto dei limiti sostanziali e procedurali fissati dalla legge. Chiarendo, altresì, che il superamento di tali limiti determina inconfutabilmente non già la semplice irregolarità o illegittimità dell’acquisizione probatoria ma addirittura la sua assoluta illiceità con la chiara ed ineluttabile conseguenza di rendere «…gli elementi di prova assolutamente inutilizzabili, ai sensi dell'art 191 cod. proc. pen., in ogni stato e grado del procedimento».


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[1] Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, sentenza 21 ottobre 2003, n. 39706; (Pres. Dott. Giuseppe Savignano, Est. Dott. Amedeo Franco, P.M. Dott. Vittorio Meloni, Difensore avv. Bruno Desi).

[2] Si pensi, ad esempio, agli importanti risultati ottenuti: 1. nella lotta al traffico illecito di sostanze stupefacenti grazie all’art. 97 del D.P.R. 309 del 1990 che prevede l’acquisto simulato di droga da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria; 2. nella lotta alla criminalità organizzata con l’art. 12 quater del D.l. n. 306 del 1992 convertito nella legge 356 del 1992 relativo al contrasto alla criminalità mafiosa.

[3] POMANTE, Internet e criminalità, Torino, 1999, 21: «L’art. 14 della legge n.2 del 1998, infatti, fornisce alla Polizia giudiziaria strumenti organizzativi ed investigativi già adottati con successo nella lota al traffico di sostanze stupefacenti, a conferma del particolare rigore con il quale è stata disciplinata la materia e della rilevanza data al bene giuridico tutelato».

[4] FIANDACA - MUSCO, Diritto penale, parte generale, op.cit., 455.

[5] MANTOVANI, Diritto penale, IV edizione, Padova , 2001, 553.

[6] Cassazione penale, III sez, sentenza dell’11 febbraio 2002, n. 5397 ( Pres. Malinconico - Rel. Franco - P.M. Izzo): …l'art. 14, comma 2, della legge n. 269 del 1998, richiamando le prescrizioni di cui all'art. 15 Cost., richiede una duplice garanzia: a) che l'attività di polizia giudiziaria avvenga su richiesta dell'autorità giudiziaria; b) che tale richiesta sia motivata; disponendo, inoltre, che la mancanza di essa comporta la nullità delle indagini e dei relativi accertamenti. Ne consegue - ove le predette prescrizioni siano violate - l'inutilizzabilità, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, delle prove illegittimamente acquisite a norma dell'art. 191 c.p.p.