inserito in Diritto&Diritti nel aprile 2004

Paola Pastacaldi ,Mobbing in redazione  , Intervento al convegno romano "Mobbing e Impresa responsabile - Etica nell'economia - Legislazione europea ed italiana - Aspetti giuridici e clinici " + tre interviste e quattro notizie in box

 

***

Mobbing in redazione

"Un'arma contro la professionalità"

 

"Una delle sue caratteristiche  più gravi è l'irriconoscibilità"

 

"Annientare un professionista, indebolendolo sul piano dell'immagine e della sua credibilità, è l'arma più sottile e facile per quell' editore che abbia scelto di continuare a portare avanti il progetto di un giornalismo cattivo sotto il profilo dell'informazione autentica e non rispettoso del patto di fiducia che dovrebbe reggere il rapporto tra lettori e giornalisti. Un giornalismo che é invece ottimo sotto il profilo economico, grazie all'aumento dei proventi pubblicitari. Ma per fare questo gli editori hanno dovuto trasformare anche gli articoli in spazi pubblicitari e lo hanno fatto grazie alle citazioni di marche, prodotti, aziende e alle volte personaggi all'interno degli articoli stessi".

 

di Paola Pastacaldi

(consigliere dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia)

 

Vorrei mettere in risalto alcuni risvolti del mobbing così come viene messo in essere oggi dalle aziende editoriali, cioè quelle aziende responsabili dell'informazione in Italia.

Nei casi editoriali questi risvolti di azioni di mobbing sono fortemente mascherati e, proprio per questo loro aspetto, vanno annotati e considerati come parte integrante del danno, cioè la non visibilità e la non consapevolezza della vittima. Il non essere consapevole è la parte più complessa, in quanto riguarda la possibilità per i soggetti colpiti da azioni di mobbing di potersi difendere. Va anche fatta questa precisazione. Il soggetto mobbizzato non è passivo tout court, ma è caso mai ancora una volta la sua non consapevolezza del problema a renderlo una vittima passiva contro la sua volontà.

Una delle caratteristiche più gravi del mobbing è, infatti, come sappiamo, la sua irriconoscibilità. Prima che il soggetto si renda conto di essere vittima di una qualche forma di mobbing, passano molti mesi, alle volte anni. Soprattutto quando l'azienda e/o il direttore e i capi  non manifestano ufficialmente elementi di critica verso il giornalista, non forniscono motivi chiari della mancanza di un accordo lavorativo. Non si confrontano, insomma, con il lavoratore. Anzi, fingono che tutto sia normale. Su questa finta normalità si innesca il processo del mobbing.

Analizziamo il caso in cui il giornalista venga emarginato lavorativamente, cioé non utilizzato o sotto utilizzato, impegnato e/o in servizi che non appartengono alle sue competenze specifiche. Sembrerà questo un vecchio problema di natura squisitamente sindacale. Certamente lo è, ma ha risvolti nuovi che ne ampliamo l'area di considerazione. Alla luce della crisi del giornalismo di qualità, uno dei mezzi che gli editori utilizzano, più o meno consapevolmente, a seconda dei casi, è quello di emarginare il professionista attraverso azioni di mobbing, cioè di attacco alla sua personalità con l'intenzione di indebolirlo in senso morale e, infine, eliminarlo in senso materiale con la minor spesa possibile. Annientare un professionista, indebolendolo sul piano dell'immagine e della sua credibilità, è l'arma più sottile e facile per quell' editore che abbia scelto di continuare a portare avanti il progetto di un giornalismo cattivo sotto il profilo dell'informazione autentica e non rispettoso del patto di fiducia che dovrebbe reggere il rapporto tra lettori e giornalisti. Un giornalismo che é invece ottimo sotto il profilo economico, grazie all'aumento dei proventi pubblicitari. Ma per fare questo gli editori hanno dovuto trasformare anche gli articoli in spazi pubblicitari e lo hanno fatto grazie alle citazioni di marche, prodotti, aziende e alle volte personaggi all'interno degli articoli stessi. La pubblicità soffre di una crisi dovuta all'eccesso di prodotti. Il consumatore é sovraesposto e bombardato da troppa pubblicità. Le aziende  e i committenti pubblicitari cercano modi più incisivi di promozione dei prodotti: l'articolo che contenga messaggi pubblicitari è molto più appetibile perché considerato efficace sul consumatore. Questo in contrasto con l'accordo deontologico che vincola l'operato dei giornalisti. Ma vedremo cosa si intende con questo discorso relativo alla citazione pubblicitaria.

Crisi del giornalismo di qualità e mobbing. Il mobbing è diventato un' arma in mano agli editori per rendere inoffensivi i giornalisti. Come sappiamo il giornalismo di qualità sta subendo un attacco gravissimo da parte del marketing e della pubblicità. I giornalisti, come scrive Franco Abruzzo, presidente dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia, nel testo di introduzione al volume di commento al Nuovo Contratto, sono stati sviliti e trasformati in "operai del tondino". Una metafora dura. Ma la verità rimane. I giornalisti oggi passano carte, riprendono articoli da altri giornali, rubano notizie da Internet. Non vanno sui fatti, non controllano le fonti. E, quello che è più grave, mescolano le notizie con citazioni pubblicitarie. Non sono, dunque, al servizio della realtà, ma di una costruzione "interessata" della realtà, il tutto per un meccanismo distorto imposto anche dall'invadenza del mezzo televisivo.

La crisi della professione è profonda. I giornalisti soffrono di un grave malessere fisico e psichico che si materializza in assenze dal lavoro, malattie continue di vario genere, ansie, depressioni e persino attacchi di panico denunciati al ptondo soccorso.

La mancanza di identità professionale ha provocato un aumento pesante dei disturbi psichici e fisici della categoria dei giornalisti che andrebbero maggiormente analizzati e studiati, sotto due profili, quello professionale e quello della salute.

Molti dei nuovi giornali che affollano le edicole sono "prodotti editoriali". Gli articoli devono contenere pubblicità o citazioni pubblicitarie, questo è il nuovo diktat dell'editoria italiana. I lettori sono soltanto obiettivi o target del marketing o più semplicemente consumatori. L'informazione italiana, ben supportata da una pessima televisione nazionale, ha al suo interno il cancro della pubblicità, e non rispetta più il patto di credibilità tra lettore e giornalista. L'informazione  non è più la struttura nervosa della società, ma un contenuto manipolato e stravolto.

Il giornalista ingleseTobias Jones nel suo libro " Il cuore oscuro dell'Italia" (Rizzoli, Milano, 2003), dopo aver monitorato per qualche mese la tv italiana per contro del quotidiano "The Financial Times" che gli chiedeva di spiegare perché un popolo simpatico e intelligente e creativo come quello italiano avesse la tv più volgare d'Europa, ha osservato che: "...la televisione cerca per quasi tutto il tempo di vendermi qualcosa. Persino le notizie dei telegiornali sono state ridotte a pettegolezzi e battute sulle celebrità". Cosa che possiamo osservare anche noi tutti e tutte le sere.

Sappiamo che le sue osservazioni sui media hanno provocato lettere riservate di consenso da parte di una fetta del mondo giornalistico italiano, anche se espresso in forma riservata, per ovvi motivi di sicurezza da eventuali ritorsioni sul piano professionale.

Per rendere inabili più giornalisti possibile, gli editori hanno usato una sorta di emarginazione condotta con una metodologia "di corridoio": far lavorare sempre meno alcuni giornalisti senza giustificazioni o motivazioni apparenti. È stato facile a questo punto costringerli ad accettare di copiare le notizie da altri giornali, di inventare e, alla fine, quando il giornalista era distrutto sul piano psicofisico, proporgli articoli con la pubblicità all'interno, costringendoli a citare aziende e prodotti. Un giornalista fiaccato moralmente e fisicamente da mesi e anni di non lavoro, di solito si riduce ad accettare, pur di uscire dal malessere che provoca questa emarginazione non motivata. Perché un conto è scontrarsi con un direttore un capo o un editore per consapevoli motivi di disaccordo, politico o sindacale o lavorativo o anche più banalmente di simpatie o antipatie personali. Situazione ben più seria e difficile è quella nella quale non si sa perché si è attaccati o emarginati. Il mobbing, appunto.

Per realizzare giornali che siano contenitori pubblicitari - il problema ormai investe anche i quotidiani - bisogna limare le coscienze. Le coscienze si indeboliscono con gli attacchi subdoli, fiaccando il morale e il fisico soprattutto dei giornalisti di mezza età che hanno alle spalle una formazione deontologica pratica. Obiettivo degli editori è isolare queste coscienze.

Forse per questo a molti giornalisti oggi viene pagata la macchina, il telefonino anche per spese private senza limitazioni di sorta, per questo alcuni prepensionamenti sono dorati come i tempi non permetterebbero. Meglio non avere intorno giornalisti testimoni scomodi di un cambiamento di rotta durissimo. Se si continuerà così, la stampa non si occuperà più di informazione, ma fingerà di farlo, propagandando al posto delle notizie solo messaggi di indottrinamento all'acquisto.

Molti  avvisi disciplinari che arrivano oggi all'Ordine dei Giornalisti della Lombardia riguardano situazioni di grave attacco alla professionalità, con conseguente stress diagnosticato da medici, sino ad attacchi di panico, esaurimenti nervosi lunghi mesi che costringono il giornalista a stare lontano dal lavoro per rimetersi in sesto. La crisi del giornalismo italiano si substanzia in crisi di fisica del corpo giornalistico. Il malessere, lo stato di salute generale della stampa andrebbe analizzato più profondamente per capirne le origini.

La crisi della stampa nel mondo. Vorrei inserire il discorso del mobbing e della cambio di rotta dell'informazione, facendo una piccola digressione. La crisi della stampa di qualità è un fatto mondiale. Il caso recente del "New York Times" che ha visto un suo giornalista inventare per quattro anni notizie di serie "a", fingendo di essere andato sul posto, in realtà senza mai muoversi da casa, è esemplare. Il "New York Times" ha scelto di mettere in prima pagina il suo problema, facendo una inchiesta e denunciando apertamente tutte le bugie dal giornalista inserite nei suoi articoli, vagliandoli uno per uno. Ha deciso che il cattivo giornalismo si vince puntando sul giornalismo di qualità e sulla trasparenza. Naturalmente il direttore è stato licenziato assieme al giornalista. La credibilità e la reputazione del "N Y Times" nel mondo sono stati considerati un patrimonio professionale, dunque, ma anche economico.

Pochi mesi prima, in Europa, un giornale molto stimato come "Le Monde" ha subito un grave attacco da parte di altri giornalisti francesi che in un libro intitolato "La face cachée du Monde" (Pierre Péan e Philippe Cohen, Document Mille et une Nuits)  denunciavano gli interessi dei giornalisti e del direttore di "Le Monde" sotto il profilo personale e politico. "Le Monde", anche se in modo più leggero del "New York Times", ha affrontato il problema, realizzando un dossier su ottanta giornali nel mondo e parlando dell'emergenza di una cattiva stampa e della discussione deontologica in atto in molte redazioni, anche nella sua.

In breve, il mobbing in Italia è un modo indolore per gli editori di liberarsi degli ultimi giornalisti che non hanno ceduto alle pressioni del marketing e del cattivo giornalismo, perché forse ancora credono in una etica dell'informazione.

Il mobbing, un'arma contro la professionalità. Ma veniamo al mobbing che ha l'obiettivo di emarginare i giornalisti. La vittima di un attacco di mobbing tende a minimizzare, tende a cercare una soluzione in proprio convinta che gli incidenti lavorativi siano casuali e passeggeri oppure che dipendano da una sua momentanea mancanza di buona organizzazione. Solo dopo molti attacchi si rende conto di essere soltanto una vittima di cattive intenzioni. Più l'intenzione del giornalista è onesta, più egli tarderà a comprendere la sua reale situazione perdendo anni di lavoro e di benessere. Trovandosi alla fine fiaccato nel morale e, dunque, nella sua sostanziale capacità produttiva.

Il non far lavorare un giornalista è un modo tra quelli principali utilizzati per dequalificare e, alla fine, far scomparire la figura professionale dell'inviato speciale, di colui cioè che è il testimone principale degli avvenimenti, figura ormai considerata dagli editori ingombrante e scomoda, soprattutto per il nuovo giornalismo aggressivo del marketing perché non permette la manipolazione delle informazioni.

Nonostante le recenti guerre abbiano apparentemente riproposto questo ruolo come interessante, se ne analizziamo a fondo le caratteristiche, scopriamo che l'inviato in guerra è oggi un funzionario al seguito. Una figura di copertura, un volto in tv, un passaparola di notizie create e messe insieme da altri, la cui fonte è di solito scarsamente controllabile.

L'inviato vive dietro le truppe o dentro una stanza d'albergo, la sua fonte rimane la tv. I giornalisti inviati, invece, sono considerati dei bersagli privilegiati per la propaganda di guerre o di messaggi politici di altri Paesi. Perciò, paradossalmente, come ha sottilineato l'associazione "Reporters sens Frontieres", sono vittime di deliberate uccisioni come è accaduto a Daniel Pearl.

Ma questo è un altro problema.

Quando il giornalista non viene fatto lavorare in una redazione, accade di solito questo: nessuno si è lamentato, nessuno ha avuto da ridire sul suo operato; eppure gli vengono commissionati sempre meno servizi, alcuni servizi richiesti e realizzati non vengono pubblicati, le proposte rifiutate, i servizi di specifica competenza vengono dati ad altri senza spiegazioni. E poi cominciano la malevolenza, le chiacchiere, le insinuazioni e le critiche anche personali non solo  professionali. E' un circolo vizioso. La situazione si cronicizza.

E il danno professionale diventa grave e alle volte irreversibile.

Per una ovvietà perversa, ma comprensibile, qualche collega o superiore penserà o vorrà far credere ad altri che alla fine è colpa dell'interessato, è lui che non ha voglia di lavorare. Il mobbing ha già raggiunto il suo risultato.

Nel giro di un arco di tempo lento il vuoto lavorativo si configura come una responsabilità del giornalista, i capi non tarderanno a guardarlo male quando arriva in redazione, a farlo oggetto di critiche sussurrate, il giornalista d'altro canto si sentirà sempre più inutile e fuori posto, ogni volta che mette piede in redazione, penserà con sempre più imbarazzo alla sua giornata. Sarà sempre più timido nel fare proposte, insicuro, pensando che non vanno mai bene, sempre meno deciso nel chiedere perché i suoi articoli non vengono pubblicati. Diventerà debole e incapace di gestire il suo ruolo professionale. Pronto ad essere prono alla verità dei fatti che si preferisce inventare nelle redazioni dominate dalla pubblicità. Questi condizionamenti non risparmiano più alcun campo: sono passati dalle tradizionali rbriche di bellezza e di moda, ai viaggi, alle auto, sino ai segmenti più importanti come l'economia o la salute.

La dequalificazione diventa un dato di fatto.

Il giornalista alle volte decide di chiedere civilmente perché non lo fanno lavorare, ma nessuno gli risponderà, il giornalista scriverà al direttore, alla direzione del personale. Ma come sappiamo, ormai nessuno si prende la responsabilità della gestione umana delle risorse. Nessuno dirà mai che è colpa di qualcuno, nessuno getterà mai la prima pietra contro di lui, permettendogli così di difendersi. Il silenzio della direzione del personale e del direttore sono a questo punto già un atto di mobbing, perché mettono in lavoratore in una situazione di debolezza: nessuno gli dirà nulla, nessuno ammetterà di avergli fatto alcunché.

Così il lavoratore/giornalista non potrà difendersi. Questa è la passività cui allude la definizione di mobbing.

Ma io direi che più che passività è non consapevolezza artificiosamente mantenuta dagli attori del mobbing.

A questo punto la situazione diventa come una spirale, si avvita su se stessa. Tutti ormai pensano, anche se non lo dicono, che quel lavoratore non ha voglia di lavorare. Anzi forse sono le stesse direzioni del personale a far girare questa voce, avvallandola in via riservata o lasciando che altri lo dicano.

Ora non è più un giornalista costretto all'emarginazione da un  cattivo comportameno dell'azienda,  ma è piuttosto uno soggetto "lavativo" che non vuole lavorare, di cui l'azienda farebbe bene a sbarazzarsi. Sarà bene anche capire che a questo punto la "vittima" del mobbing non è solo un capro espiatorio, quindi ci potranno essere più casi di mobbing nella stessa redazioni. L'idea che il mobbing colpisca colui che è fuori dal gruppo è giusta, ma quando le regole virano così fortemente dalle loro origini come è accaduto nei giornali in questi vent'anni, il mobbing serve per colpire più persone, cioé tutte le persone che ancora resistono al cambiamento o meglio allo stravolgimento delle regole.

Il malessere psicofisico da mobbing. Il mobbing con il suo attacco crea uno stato di debolezza psichica e fisica ancora più forte nel lavoratore che è professionale e onesto. Questo stato di prostrazione  provoca, come sappiamo, varie problematiche a livello psichico e fisico, ancora allo studio.

Un esempio di quelle fisiche che considero particolarmente calzante con la figura del giornalista.

Questo stato di guerra interna che provoca il mobbing è, come abbiamo visto, latente e diffuso. Perché quando un giornalista non scrive, cade in disgrazia e prova un senso di colpa, misto a imbarazzo, nel trovarsi in un posto di lavoro dove tutti corrono e si danno da fare. E si guadagnano lo stipendio con il lavoro. Ecco che tutti potranno parlare male di lui. I colleghi potranno dire che lavorano troppo perché lui non fa niente, altri colleghi potranno pensare che non sa lavorare, altri ancora che è uno che non ha voglia di lavorare. I capi inevitabilmente troveranno più errori o saranno portati a sottolinearli. Guerra diffusa, dunque. La tensione nervosa diventa un elemento permanente del suo stare in redazione, ma anche fuori della redazione, a casa, nei momenti di tempo libero, sarà per lui una ossessione, perché penserà sempre al suo problema, apparentemente sempre più irrisolvibile e incomprensibile.

Questo minerà la sua fiducia.

Ogni momento si aspetterà un richiamo, vivrà nell'angoscia di sbagliare, nel timore di peggiorare con le sue mani la sua situazione. Sempre alla ricerca di una motivazione che non ha. Tensione nervosa significa sostanzialmente nervi tesi, cioè muscoli tesi. E', ovviamente, la paura che determina questo stato angoscioso. Possiamo anche immaginare questo soggetto come un essere che ogni volta che entra in ufficio è un po' come se mettesse piede in una giungla. Non sa, perché nessuno gli ha mai detto nulla, dove sbaglia, non sa dunque da dove gli potrà arrivare l'attacco. Si guarderà intorno, emotivamente parlando, come un  animale da preda. Il suo stato d'animo è l'angoscia. Più cade in uno stato di prostrazione meno è in grado di reagire all'attacco. Così reagirà male all'escalation di sottrazioni che subirà, riduzione dei mezzi concessi ad altri, telefono, computer portatile con le scuse più varie, verrà sottratto progressivamente al suo ruolo. Non deciderà più nulla perché, senza che gli sia fornita alcuna  giustificazione, gli sarà sottratta giorno per giorno la sua autorità, cioé la sua responsabilità, come previsto dal contratto.

Con il risultato che la sua tensione muscolare potrà provocargli dolori permanenti che non tarderanno a passare dai muscoli alle ossa. Dolori che lo perseguiteranno anche di notte. A nulla serviranno le visite mediche: pochi medici di base sono oggi di fatto in grado di risolvere e capire dolori così forti che, dopo una diagnostica tradizionale, non risulteranno avere una origine biologica. Sappiamo che questi dolori, se protratti per anni in un individuo ansioso, possono essere simili a quelli di un diabetico.

Solo metodi fisici o di movimento che coinvolgano anche il sistema nervoso potranno risolvere questa situazione. I dolori alle ossa sono quasi invalidanti. Difficoltà a camminare, dolori sotto i piedi, a scendere dalla macchina, a stare seduti, al collo, alle gambe causa problemi di circolazione, dolori anche di notte.Muscolarmente parlando la vittima di un mobbing durato anni può ritrovarsi invecchiato precocemente, sempre meno capace di articolare i movimenti più elementari.

La scarsa conoscenza da parte del personale sanitario delle modalità del mobbing fa sì che molti medici di base oggi scelgano di prescrivere ad un lavoratore che vive questa situazione un anno di terapia antidepressiva, negando l'evidenza di un attacco di mobbing,  creando nel soggetto una dipendenza da farmaci.

Su questo problema le terapie tradizionali legate alle ginnastiche di varia disciplina non danno risultati. Uno dei metodi capaci di affrontare alla radice questa tensione muscolare e ossea invalidante, è il metodo di Moshé Feldenkreis,medico ebreo, nato in Russia nel 1904 e morto in Israele nel 1984, laureato in ingegneria meccanica, che collaborò con Joliot Curie sulla fissione nucleare, il quale ha avuto geniali e intuitive idee sulle relazioni tra il corpo e la mente, per stimolare il sistema nervoso attraverso movimenti inusuali (tra i suoi allievi Leonard Bernstein, Margareth Mead, David Ben Gurion, Moshe Dayan).  In Italia è stato Michele Forte (1943 - 1997), insegnante Isef alla scuola di ballo della Scala di Milano, impegnato in vari ambiti dell'handicap anche grave, con saggi e ricerche sulla riabilitazione, a  portare con successo il metodo, aprendo le porte ad una sua diffusione.

Non a caso questo metodo si avvale dell'idea fondamentale che il nostro movimento è legato all'immagine che noi abbiamo di noi stessi, come si legge nel libro  di M. Feldenkrais "La conscienze du corps" (Marabout, Verviers Belgique, 1967).

Un lavoratore mobizzato si trova inevitabilmente costretto a combattere sul piano della sua immagine, in quanto viene spinto dagli eventi a disistimarsi o ad avere una debole immagine di sé, con conseguente indebolimento della sua struttura muscolare, sino a provare gravi dolori che ledono la sua integrità fisica e la sua autonomia di movimento. Il Feldenkrais aiuta il paziente a ritrovare il suo movimento e quindi la sua salute psicofisica. 

Ma per concludere potremmo, infine, dire che il danno umano più grave e non quantificabile è quello di uccidere nel lavoratore la sua energia produttiva o creativa. Il lavoro giornalistico è ancora oggi un lavoro creativo, che si fonda su metodiche artigianali. È lavoro dell'intelletto molto ambito, nonostante il degrado di cui soffre e ormai si parla. Impedire a una persona di dare quello che sa dare ogni qualvolta mette piede in un ufficio o in una redazione significa uccidere le sue energie vitali. Impedire alla persona di porsi in maniera positiva rispetto al suo futuro, impedirle di "essere" nel senso più ampio del termine nel luogo di lavoro, costringendolo per buona parte della giornata, composta di almeno otto ore, in una condizione di non esistenza crea un abbassamento delle difese e dunque un insorgere di malesseri che lentamente diventano malattia. Questo significa mortificare la persona stessa e possiamo ipotizzare che il danno si estenda a tutto l'organismo.

Gli esposti disciplinari che arrivano all'Ordine dei Giornalisti della Lombardia sempre più parlano di questo malessere diffuso e poco chiaro. Gli attacchi di panico non sono affatto rari tra i giornalisti.Come si fa a non avere paura di un attacco che non si sa da dove viene? Immaginiamo i soldati del Vietnam. Con la differenza che la guerra è psicologica. Ma vorremmo spiegare che ormai è senza quartiere. E anche sotto il profilo squisitamente umano la decadenza del rispetto reciproco nella relazione giornaliera aggrava la situazione: è diffusa la maleducazione, il linguaggio infarcito di parolacce, le aggressioni verbali violente, le offese e il pettegolezzo regna sovrano. Come se alcune redazioni si fossero trasformate in caserme dell'Ottocento di bassa lega. Il mobbing ha un'area vastissima di intervento. Può essere la critica costante del giornalista su questioni professionali, l'orario, il modo di scrivere, la qualità delle proposte. Ma può essere l'arroganza di un direttore che non sopporta che il suo giornalista scriva libri, può essere infine la sua colpa una sola, quella di essere un giornalista che ha ancora una tensione deontologica.

Il marketing nelle redazioni. Il nuovo padrone dei giornali.Il mobbing è un modo per rendere inabili persone "non affidabili", inaffidabili cioé sotto il profilo del marketing. Chi non accetta di scrivere articoli pubblicitari è inaffidabile e viene punito, non lo si fa lavorare, lo si critica, sui servizi, sugli orario, su tutto. Ma il vero motivo è il rifiuto (o la mancata collaborazione) di una tentata corruzione. Il mobbing è un alleato prezioso. L'ufficio del personale finge di preoccuparsi, chiama il lavoratore, ma non fa niente per cambiare la situazione. Il lavoratore è solo e non sa capire che gli accade: non ha nessuno che lo difenda se non i suoi principi etici, se ancora sopravvivono in lui. Ma la legge è ancora dalla sua parte, se avrà il coraggio di farla rispettare. Il codice deontologico dei giornalisti è molto chiaro a proposito e ciò che fanno gli editori è fuori legge.

Alla fine il giornalista ha perso ogni velleità di ribellione, accetta tutto. Cambio di ruolo, dequalificazione, demansionamento, umiliazioni verbali. Perché, senza saperlo, ha messo piede nella palude del mobbing. Anticamera della fine della professione. E, come ci dicono medici e psicologi, anche di malattie che da psichiche diventano fisiche.


Le malattie del mobizzato: "Dall'ansia, all'insonnia, a disturbi dell'apparato digestivo, a dolori ai muscoli e alle ossa, sino alla disistima che può portare a tentativi di suicidio. Nessun apparato si salva».

 

Intervista/1. Maria Lieti/Taranto

La storia sconvolgente

di un  "abusivo"

che  ogni giorno era

portinaio e redattore

 

Maria Lieti è una psichiatra, responsabile del "Centro per la Prevenzione Diagnosi e Cura per le malattie da Stress da lavoro" e primario del "Centro Salute Mentale" della Asl di Taranto

 

 

di Paola Pastacaldi

Maria Lieti è una psichiatra, responsabile del "Centro per la Prevenzione Diagnosi e Cura per le malattie da Stress da lavoro" e primario del "Centro Salute Mentale" della Asl di Taranto. Ha seguito nove casi di giornalisti in stato di stress grave, perché mobbizzati. Nel'99 i giornali locali di Taranto vissero un periodo di dure riconversioni editoriali che li portarono ad essere assorbiti in alcuni casi, in altri divennero cooperativa, da gruppi più grandi, come quello di Caltagirone (è il caso del "Quotidiano di Lecce") con il conseguente acuirsi della conflittualità tra dipendenti giornalisti e editori per la garanzia del posto di lavoro. Abbiamo scelto di raccontare una sola di queste storie e in forma anonima perché ci é sembrata la più dura e la più emblematica, in quanto appartiene al gradino più basso della professione, quando cioé il giornalista chiede il riconoscimento del suo stato e vive in quella terra di nessuno in cui è facile diventare vittima, sia sul piano professionale che economico, dei datori di lavoro e della malevolenza colleghi. Del protagonista citiamo solo le iniziali A.D.

Quale era il problema di A.D.?

«Il giornalista in questione collaborava con il giornale "Il Corriere del Giorno" di Taranto da anni e scriveva anche per la prima pagina, oltre a collaborare con un giornale locale che si chiama "Dialogo", di matrice cattolica. Ma, dato che non era mai stato riconosciuto come giornalista, svolgeva contemporaneamente le funzioni di portiere, con il contratto di correttore di bozze, cioé quello dei poligrafici. Insomma faceva un po' di tutto e, quando lo chiamavano, lasciava la portineria e faceva l'articolo richiesto, poi tornava a fare il portiere. Dopo un certo tempo di questo correre dalla portineria alla scrivania, ha cominciato a stare male: non dormiva e aveva pensieri intrusivi, cioé pensava ossessivamente al lavoro e infine aveva perso l'autostima. Più lo chiamavano per fare un lavoro giornalistico e più lui si sentiva male, perché facendo il portiere si sentiva debole nei confronti dei colleghi che lo trattavano con disprezzo. Il suo malesere si era così acuito che era stato costretto a mettersi in malattia. Ma una delle ultime volte, alla scadenza del certificato medico, si era sentito peggio - aveva timore di affrontare il giudizio dei colleghi - e voleva rinnovarlo. Stava così male che, pur essendo venuto da me per avere il certificato, si era dimenticato di richiedermelo. L'azienda ne approffittò e lo licenziò. Io gli feci un certificato con una diagnosi più lieve di quella che aveva realmente, indicando una sindrome ansioso depressiva, solo per farlo riassumere, ma fu respinta. Allora decisi di fargli una relazione più veritiera con tanto di cartelle cliniche, dicendo la verità, cioé che aveva un disturbo di depressione grave,  che si chiama sindrome post traumatica da stress, e che si era, per questo, dimenticato il certificato. Il Tribunale civile di Taranto lo fece riassumere e fu la prima volta che un tribunale riconobbe il mobbing e il fatto che,  se la malattia la provoca un datore di lavoro, deve pagare anche se il lavoratore sta a casa per problemi di salute. Il Tribunale riconobbe il danno e condannò l'azienda a pagargli un assegno mensile. A.D. aveva anche una famiglia, una moglie e tre figli da mantenere, la sua malattia gli avrebbe provocato una crisi economica non indifferente. L'azienda, che nel fratttempo era diventata una Cooperativa di giornalisti, tentò varie volte di avvicinarlo, proponendogli di tornare al lavoro con il contratto veccchio, ma lui non accettò»

Aveva bisogno di un riconoscimento morale e materiale per arginare i danni del mobbing. Vuole descriverci perché lei rietnne che fosse stato mobbizzato?

«I vecchi dipendenti facevano accordi tra il Comitato di Redazione e il nuovo editore e decidevano le persone che si dovevano licenziare, ma lo facevano trattando le questioni nei corridoi, cioé ognuno telefonava al suo santo,. I più raccomandati accettarono di lavorare con minor stipendio, ma mantenendo il posto di lavoro, e contemporaneamente cercando di emarginare dalla trattativa alcuni. Si dicevano le cose alle spalle, parlavano male di quelli che avevano deciso di lasciare a casa, dicendo che non valevano niente. Insomma la contrattazione non era condotta a livello corretto e reale. Eppure uno di questi mobbizzati lavorava per l'Ansa e un altro per l'inserto regionale del del Corriere. Sappiamo che le persone mobbizzate, come si evince dalle statistiche, sono le più professionali e amano il lavoro. Sono degli onesti che non si mettono nel branco».

Lei è psichiatra, i danni sul piano della salute quali sono?

«Dall'ansia, all'insonnia, a disturbi dell'apparato digestivo, a dolori ai muscoli e alle ossa, sino alla disistima che può portare a tentativi di suicidio. Nessun apparato si salva».

 Ma se da un lato e fortunatamente il riconoscimento del Tribunale ha fatto giustizia, dall'altro il giornalista non può più scrivere e, dunque, è condannato ad essere escluso e lontano dal suo lavoro, cioè dallo scrivere, che è poi ciò che potrebbe guarirlo.  Il mobbing condanna la sua vittima al male peggiore, a non uscire più dalla malattia, cioé a non scrivere.

«Ho pensato anche a questo per il caso di A. D. Come riabilitazione morale ho chiesto che potesse continuare a scrivere anche per altri giornali. A.D. sta a casa pagato dall'azienda, ma continua a collaborare con "Dialogo", il giornale locale. L'azienda del suo giornale, però, ogni due mesi lo licenzia e io lo faccio riassumere. Il risultato che abbiamo ottenuto è che ora sta molto meglio, lontano dal lavoro. Ha chiesto di diventare giornalista e su questo ha una causa in corso, ma non soffre più del disprezzo dei colleghi».

Un ultimo dubbio. Il problema del mobbing, tra le altre cause diciamo legate ad interessi aziendali,  non sarà da imputare alla lontana anche ad una debolezza originaria o familiare della vittima?

«No, assolutamente. Solo in alcuni rari casi, ma direi in una stretta minoranza, osservando tutti i mobbizzati e non solo i giornalisti, c'è un substrato di un mancato riconoscimento da parte dei genitori. In generale non c'è questo. Sfido la persona più forte ad essere trattata come un cretino. Se uno tiene alla sua professione, prima o poi cade in depressione. Certo sarebbe meglio per la sua salute che cambiasse strada. Chi ha avuto una esperienza di questo genere non la potrà mai dimenticarla. È difficile da descrivere cosa si vive in simili situazioni, ma dobbiamo ammettere che chi é stato in un lager vedrà il mondo in un modo diverso dagli altri e per tutta la vita».

 

 

 


Intevista/2. Renato Gilioli/Milano

L'inattività forzata fa scattare

questa equazione:

"Non mi danno da lavorare

 e, dunque, non valgo niente".

(Poi arriva la malattia)

 

 

Renato Gilioli è il neruropsichiatra responsabile del "Centro di Disadattamento lavorativo della Clinica del Lavoro Luigi Devoto" di Milano, il centro nato nel '96, il primo in Italia, che ha al suo attivo quattromila casi. I giornalisti, che sono stati in cura presso questo centro come soggetti colpiti da mobbing, sono una trentina.

 

«Il mobbing consiste in una serie di azioni ripetute di molestie morali (e sottolineiamo morali, n.d.r.) che hanno per finalità e per effetto un degrado delle condizioni di lavoro, atto a ledere i diritti e la dignità, alterare la salute e compromettere l'avvenire professionale. Questa è la  definizione di mobbing della legge francese, che prevede nei suoi casi limite il carcere, anche se per me è eccessivo. Ma è quella che considero più completa e corretta». Renato Gilioli è il neruropsichiatra responsabile del "Centro di Disadattamento lavorativo della Clinica del Lavoro Luigi Devoto" di Milano, il centro nato nel '96, il primo in Italia, che ha al suo attivo quattromila casi. I giornalisti, che sono stati in cura presso questo centro come soggetti colpiti da mobbing, sono una trentina.

Quali sono le storie di mobbing che le ha conosciuto legate al mondo giornalistico?

«Il primo caso che abbiamo avuto era quello di una giornalista con l'incarico di caporedattore di un periodico. La storia in breve è questa: in redazione arrivò un collega più giovane e inesperto, fecero amicizia, in senso esclusivamente professionale, collaboravano insieme bene e con correttezza, sino a quando lui le rivelò di essere omosessuale. Poi nel giro di un certo periodo la situazione professionale cambiò in peggio per la donna e in meglio per lui, che fece carriera. Per lei iniziarono una serie di problemi e, contemporaneamente, il rapporto con il giovane collega si deteriorò. Mentre lei veniva dequalificata e accerchiata con azioni moleste e malevole, lui avanzava. I colleghi, che noi chiamiamo in queste situazioni il coro, presero posizione contro la donna. Quello che era accaduto e che infine abbiamo saputo, è che c'era stata una presa di controllo del potere da parte di un gruppo di omosessuali».

Ci descrive i disturbi di salute dei mobbizzati?

«I sintomi sono sempre gli stessi. In ordine di tempo prima arrivano i disturbi al sonno, inizialmente nella qualità, il sonno è agitato e pieno di incubi che rievocano il lavoro, poi si dorme sempre meno. Segue uno stato di allarme psisosomatico, mal di testa, male allo stomaco, si riaccendono vecchi disturbi e questi peggiorano, come per esempio l'asma, la pressione. Se si beve si aumentano le dosi e così per il fumo, questi sono chiari disturbi del comportamento. Seguono problemi dell'alimentazione, come l'iperfagia, oppure si mangia troppo, anche di notte, o si diventa quasi bulimici. O al contrario, si riduce l'appettito, si diventa svogliati e  si dimagrisce. Accade che si possano perdere o acquistare dieci chili in poco tempo. L'umore si deprime e si perde la voglia di fare, si diventa apatici. Un'altro disturbo può essere che non si prova più godimento o piacere per la vita, si diventa inerti e insensibili a tutto. Si possono avere anche dolori alle articolazioni che vengono presi per dolori reumatici e sono,invece, osteoarticolari, dovuti alla tensione e allo stress continuo, questi  sono molto difficili da riconoscere come tali».

È possibile che il non lavorare provochi tutto questo?

«Bisogna comprendere bene che l'inattività del "lavativo", per usare un termine semplicistico, è una cosa diversa. Lui sta bene così. Ma l'inattività forzata diventa patogena. Una persona che di solito svolgeva volentieri il suo lavoro che improvvisamente o gradualmente si trova esautorata e messa in condizione di non lavorare, entra in depressione, perché fa questa equazione: non mi danno da lavorare e, dunque, non valgo niente. È aggiungo che è un sentimento che incrina l'equilibrio normale ed è difficile da evitare».

Come si comporta una persona che soffre di queste patologia?

«Ci sono persone che diventano rabbiose o iperattive, molto irritabili e litgiose, poi tutto questo sfocia in una depressione».

Quando, secondo lei, si verificano questi episodi di attacco, in che circostanze? Casuali oppure no?

«Sovente c'è in corso un cambio di società e serve un "repulisti", per usare un termine brutale, perché é arrivata una nuova direzione e si necessita di mettere da parte qualcuno. Ho curato, tra i giornalisti mobbizzati, anche un direttore di giornale e il meccanismo è sempre lo stesso, quello di esautorare nella speranza che una persona se ne vada».

Vuole spiegarci come vengono catalogati i sintomi?

«In senso psichico sono stati etichettati dentro due grosse categorie. Prima, i disturbi da adattamento, seconda, quelli più gravi detti post traumatici da stress. Quelli definiti dell'adattamento non si riferiscono ad una persona che è disadattata, come potrebbe far pensare la parola. Il concetto è invece questo: quando ad una persona si chiede di più, quella persona mette in moto meccanismi psicofisiologici normali, cerca di lavorare di più. Ma ad un certo punto non basta e allora la persona non ce la fa più, perché la richiesta si rivela in realtà troppo alta e mista a uno stillicidio di comportamenti negativi che durano mesi, alle volte anni, nasce  così una risposta di disadattamento. La persona cerca di farcela, ma poi non ce la fa, diminiusce il rendimento e la performance. I disturbi traumatici da stress, invece, sono stati studiati la prima volta in America nei soldati che avevano combattuto in Vietnam e che  si erano trovati in situazioni di guerra continua, con aerei che mitragliavano, imboscate. Questi soldati vivevano un tale stress che li portava ad avere continui flash back, cioé rivivevano tutto, come una ossessione. Questo si chiama pensiero intrusivo ed è incentrato sulle situazioni già vissute. È uno stress che non si può controllare, diventa un tratto del comportamento. Si arriva per lo stesso motivo ad evitare ogni situazione che sia legata al disturbo, si evita persino il luogo dove il disturbo è nato, perché ogni volta lo si associa ad uno stato di ansia. Nei giornalisti ho rilevato molti di questi distubi della prima serie, ma anche qualcuno del secondo. II vissuto di essere emarginati dal lavoro, se dura anni, diventa una perdita di status, di ruolo che sotto il profilo psicologico é pesante e fa, talvolta, vivere il mobber come un carnefice».
Alle volte nello stesso ufficio i mobber, gli attori del mobbing, sono più di uno, così anche i mobbizzati.

«Certo, quando ci sono situazioni di modifiche societarie ed economiche, come accade sovente nelle banche o negli ospedali, ma anche nei giornali. Le grandi trasformazioni che abbiamo avuto nell'ultimo decennio hanno portato alla necessità di riduzione drastica di persone. Mi è capitato di seguire dei giornalisti mobbizzati in un giornale che stava fallendo. Il giornale in effetti ha chiuso, ma lì dentro abbiamo registrato una situazione di mobbing generalizzato. Che il mobbing sia un mezzo per eliminare le persone è un dato di fatto, già riconosciuto nel corso di un grande convegno organizzato dalla Federazione della Stampa due anni fa».

Come si può curare un giornalista in depressione da mobbing, premesso che ne sia consapevole?

«È un problema serio e le cure sono dei palliativi: si usano dei farmaci per la depressione  qualche colloquio psicologico, almeno finché la situazione non si risvolve, il che è l'unica vera cura per la guarigione. Alcuni  intraprendono azioni legali e chiedono il risarcimento del danno oppure il reintegro nelle mansioni. Il mobbing che dura anni è una malattia professionale: l'Inail lo riconosce come tale. Mobbing significa danno alla professionalità e alla salute. Una persona sottoposta a questo stress diventa confusa, non capisce perché non viene invitata alle riunioni, emarginata dalle scelte operative, tolti gli strumenti di lavoro, le informazioni di servizio alle volte in un modo brutale per la dignità della persona. Eppure, sino a poco prima, era in carriera. Il cambiamento è repentino e immotivato, almeno apparentemente».

Un cammino lungo, quello del vostro Centro, dentro una sofferenza provocata da cause non facilmente identificabili.

«All'inizio ci dicevano che era una nostra fantasia, ma dal '96 abbiamo visto i casi di quattromila persone».

Nella definizione che lei ha scelto, quella della Francia, c'è il termine molestie morali ripetute. Ci spieghi.

«Si intendono molestie psicologiche, cioè non fisiche o sessuali. Esautorare una persona e metterla ai margini significa incidere sul suo stato morale. Nei casi più gravi si può arrivare al suicidio, cosa che gli svedesi sostengono con durezza. Noi ne abbiamo avuto uno solo, per fortuna».


Intervista/3. Luciano Pastore/Roma

La depressione  di chi non vuole

diventare esecutore passivo

di una linea editoriale

che  ha stravolto il  giornale

 

Luciano Pastore è lo psicologo responsabile dell'"Area Interdipartimentale di Psicosomatica e Psicologia Ospedaliera del Centro Clinico per il Mobbing e il disagio lavorativo" della Asl di Roma.

 

 

«I giornalisti mobbizzati che sono venuti da noi presentano caratteristiche simili ai dirigenti d'azienda», a parlare è Luciano Pastore, lo psicologo responsabile dell'"Area Interdipartimentale di Psicosomatica e Psicologia Ospedaliera del Centro Clinico per il Mobbing e il disagio lavorativo", della Asl di Roma.

Cosa significa questa somiglianza?

«Vengono mobbizzati nei modi tipici della marginalizzazione dal lavoro. Di solito sono professionisti che non si adeguano alla linea redazionale, naturalmente bisogna poi vedere caso per caso. Alle volte il malessere è imputabile allo stesso giornalista che vive il giornale come una cosa sua; altre volte invece è una legittima ribellione per chi non riesce più a trovare un equilibrio nel lavoro,  perché la linea del giornale è stata stravolta. Quando si tratta di  questo ultimo caso, lo si capisce dal fatto che, da un punto di vista clinico, psicologico, si tratta di persone pacate ma decise, che non si sono adeguate ad essere esecutori passivi, di una linea che non gli appartiene».

Chi sono i giornalisti che avete avuto in cura?

«Giornalisti di grandi testate, che sono venuti da noi di loro iniziativa spinti dalla sofferenza. Dobbiamo però notare che i giornalisti di solito non sanno stare fermi, sono irrequieti, hanno un fondo di stato depressivo e ansioso che però fa parte del loro personaggio. Quando vengono attaccati entrano in una depressione più chiara e subiscono un abbassamento consapevole dell'autostima e  cominciano ad avere problemi emozionali e anche fisici».

Quali sono le patologie del mobbizzato?

«Problemi cardiovascolari, all'apparato digerente, alla sfera sessuale, depressione, ipertensione arteriosa fino all'infarto, e anche probelmi osteomuscolari. Sovente intervengono anche problemi relazionali, perché il mobbizzato diventa un capro espiatorio, si trova a disagio nel gruppo, lo rimproverano senza motivo, lo escludono dai giochi, gli danno i lavori più umili, i pezzi più appetibili li danno agli altri».».

E arriva la depressione.

«La depressione è un fatto che coinvolge tutti i mobbbizzati e un fatto relativo al crollo dell'immagine sociale. Per il giornalista la firma è molto importante e anche l'immagine. Tanto più oggi che socialmente parlando la prima domanda che si fa a una persona è che lavoro fai e quanto guadagni. Viviamo in un'epoca che spinge tutti a riconoscersi molto nel lavoro. Quando avviene un corto circuito, viene meno anche l'identità e crolla l'immagine. Purtroppo ci si fa notare più con un comportamento aggressivo e alle volte anche maleducato che normale. La televisione in questo ha fatto scuola».

Quanti malati avete in cura?

«Al momento abbiamo mille cartelle cliniche aperte. Ma, per correttezza, devo precisare che la metà di coloro che vengono da noi, una metà ha intenzioni rivendicative e non vuole essere aiutati. Solo l'altra metà é disperata, ha problemi psicofisici e chiede aiuto».

 

 

box -1

Durante il convegno di Roma proiettato anche il film "Mi piace lavorare"

Si è tenuto a Roma, presso il Cnel, nei giorni 20 e 21 gennaio, un convegno su "Mobbing Impresa responsabile", sottotitolo "Etica nell'economia - Legislazione europea ed italiana - Aspetti giuridici e clinici" , con il patrocinio dell'Ordine degli psicologi del Lazio. Nel comitato scientifico l'avvocato Rita Brandi, presidente del Collegio Arbitrale del Ministero del Lavoro, l'avvocato Ciccarelli consulente Adiconsum, Ferdinando Cecchini dell'Inas Cisl, Catia del Monte, consigliere dell'Ordine degli psicologi del Lazio. Ha curato l'ufficio stampa Anna Maria Pavan, autrice del libro "Mobbing e Giustizia assente. L'altra questione Mondadori" (www.geocities.com). Pubblichiamo di seguito alcune interviste legate alla parte medica e psicologica, cioé al riconoscimento e ai danni provocati dal mobbing alla salute. Nel corso del convegno sono stati proiettati spezzoni del film sul tema del mobbing dal titolo "Mi piace lavorare", con Nicoletta Braschi, regia di Francesca Comencini.

 

**************************

box-2

Bono: "L'etica aziendale valorizza

l'obbedienza piuttosto che l'autonomia".

L'eccesivo controllo manageriale

introduce rigidità e porta apatia

 

All'interno del segmento dedicato al tema "Impresa e mobbing: tra etica e morale" segnaliamo alcuni pensieri ricavati da uno degli interventi, quello di Danilo Bano, professore del Dipartimento di Scienze Economiche dell'Università Ca' Foscari di Venezia, che ha scelto di parlare delle ragioni morali contro le violenze psicologiche sul lavoro. Premesso che nel mobbing, un termine inglese mediato dall'etologia (to mob, che significa attaccare, assalire), si mette in atto un'offesa alla dignità umana, Danilo Bano ha sottolineato i risvolti etici legati all'organizzazione del lavoro. Attraverso la socialità le organizzazioni aziendali - ha detto - promuovono i loro valori, anch'essi aziendali, con il risultato di diffondere una visione morale, cioé una etica organizzativa che induce a vedere il sociale in un'ottica di ordine e di sistema, anziché di conflitto o di cambiamento.

«Si tratta, perciò, di un'etica che valorizza le regole e l'obbedienza, piuttosto che l'autonomia e la creatività - ha detto -. L'individuo interiorizza quest'etica che accredita un modello rassicurante, però in questo modo interiorizza dei valori che lo spingeranno verso fini che non gli appartengono. Alla fine l'organizzazione favorisce o impone la separazione dell'individuo dal suo universo interiore, mettendo così in ombra la soggettività». Uno studioso  americano, A. H. Maslow in "Toward Psicology of Being" (Van Nostrand, New York 1968) ha correttamente sottolineato che l'agire ha come motivazione la centralità dell'essere, cioé il bisogno dei soggetti di crescere in quanto individui. La riflessione che ne segue è che: «L'eccesivo controllo manageriale sul comportamento dei sottoposti di qualsiasi organizzazione è, a lungo andare, controproducente perché introduce rigidità laddove è necessaria la flessibilità e porta l'apatia dove è richiesto impegno. L'efficienza si persegue offrendo dunque una certa autonomia e delle opportunità di crescita personale». L'idea di base è che le persone sono libere in base ai loro poteri morali (la capacità di avere giustizia e di concepire il bene) e ai poteri della ragione (di giudizio, pensiero) legati ai poteri morali. L'intervento prosegue su un filone squisitamente di filosofia della morale che sarebbe interessante approfondire per comprendere dove si radicano certe distorsioni legate alle violenze psicologiche e dunque morali sul lavoro.

 

*************

 

Duecento le pratiche Inail

per "patologie da stress"

 

Il mobbing dà i numeri. Sono 200 le pratiche aperte a tutt'oggi all'Inail per "patologie da stress correlate", di cui solo 21 riconosciute come malattie professionali, generate da vessazioni in ambiente lavorativo. A diffondere tali dati è il presidente dell'Istituto italiano di medicina sociale, Pierantonio Ricci, annunciando in anteprima i contenuti di una relazione elaborata dall'ente. "Spesso - spiega Ricci - si tendono a far rientrare nel mobbing i fenomeni più disparati e questo perché manca una definizione universalmente accettata per questa patologia. Bisogna concentrare gli sforzi nella soluzione concreta dei problemi, piuttosto che strumentalizzare la popolarità di un fenomeno in preoccupante crescita per non condivisibili attacchi al mondo delle imprese". (da Il Sole 24 Ore del 7 febbraio 2004)

 

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Sentenza della sezione lavoro della  Cassazione

Mobbing e demansionamento:

dimissioni in grave stato psichico

sono annullabili dal giudice

 

La Corte di Cassazione, con la sentenza 515/2004, ha rinviato alla Corte di Appello la sentenza che rigettava il ricorso di una dattilografa, demansionata e sottoposta a pressione psicologica, che in un momento transitorio di grave turbamento aveva rimesso le proprie dimissioni dal posto di lavoro.

La Corte ha ribadito che dovevano essere valutate più attentamente le condizioni della lavoratrice per rilevare la sussitenza di una incapacità ex 428 Cc., anche se temporanea e desumibile da indizi e circostanze: difatti, perché sia ravvisabile una situazione di incapacità di intendere e di volere non è necessaria la totale esclusione della capacità psichica e volitiva del soggetto agente, essendo sufficiente invece che questi, al compimento dell'atto, si trovi in uno stato di turbamento psichico tale da impedirgli di apprezzare l'importanza dell'atto medesimo e di liberamente determinarsi al suo compimento.

La Suprema Corte, infine, ha sottolineato che lo stato di incapacità di intendere e di volere può essere provato in modo indiretto in base ad indizi e presunzioni, che anche da soli possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità.