*** Sono trascorse due settimane dall’emissione del provvedimento del Tribunale di L’Aquila con il quale veniva accolto un ricorso proposto ex art. 700 c.p.c. da un privato nell’interesse proprio e dei propri pargoli che tanto clamore sembra aver suscitato, con l’ineludibile apporto mediatico di stampa e televisione. Personalmente, non mi dichiaro affatto sorpreso dal contenuto della motivazione espressa nel testo dell’Ordinanza, in quanto, - anche volendo prescindere dal comune rilievo che il risultato di un’elaborazione critica espressa nel variegato e complesso mondo del diritto non necessariamente possa definirsi l’equivalente di un’analoga percezione critica definita sulla base di principi matematici -, ove si consideri l’attuale periodo epocale in cui viviamo. Sarebbe perfino effimero ed ipocrita affermare il contrario, poiché, come sostenuto da un’autorevole corrente filosofica del nostro tempo, esiste solo ciò che appare pubblicamente, come peraltro, sembra confermare ampiamente l’attuale “tendenza”. Ora, passando ad un attento e rigorosamente “equi-distante” esame del testo del provvedimento, condizione imprescindibile, ove vuole realmente definirsi la complessa ratio decidendi insita nel complesso e non banale ragionamento seguito dal Tribunale, Sulla prima eccezione di nullità del ricorso ex art. 700 c.p.c. Nel corpo della motivazione del Tribunale abruzzese, si riscontra (mi sembra di leggere testualmente) che: “tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, si è ritenuto che è affetto da nullità il ricorso cautelare ante causam che non indichi la domanda che verrà fatta valere con l’instaurando giudizio di merito (cfr. Tribunale di Napoli, ordinanza 30 aprile 1997, in Foro it., 1998, 270; Pret. Vigevano – sezione distaccata di Mortasa, ordinanza 1 agosto 1995, ivi, 1996, I, 1864; Tribunale di Potenza, 29 marzo 1995, in Giur. Merito, I, 405; per alcuno, il ricorso dovrebbe addirittura indicare petitum causa pretendi e conclusioni: cfr. Pret. Alessandria, ordinanza 16 marzo 1993, in Giur. It. 1993, I, 775, che ritiene altresì trattarsi di nullità insanabile, perché siffatto ricorso non sarebbe in grado di raggiungere lo scopo che gli è proprio, ossia il collegamento teleologico tra domanda cautelare e domanda di merito), ma si è prontamente escluso che l’onere di indicazione della domanda dell’instaurando giudizio di merito richieda un’analitica e necessariamente ben distinta formulazione delle conclusioni di merito. E ciò soprattutto laddove si consideri - come rilevato in dottrina - che la disciplina del rito ordinario di cognizione consente all’attore di integrare o precisare la domanda nel corso dell’istruttoria (articolo 183 comma 5 Cpc). Deve affermarsi, pertanto, l’ammissibilità del ricorso che contenga anche in modo implicito, ma inequivocabilmente l’indicazione della domanda di merito (cfr. Tribunale di Trani, ordinanza 16 gennaio 1997, in Foro it., 1998, I, 2017; Tribunale di Nocera Inferiore 1 agosto 1995, in Giur. It., 1996, I, 238)”. Orbene, proprio partendo da una delle tante citazioni giurisprudenziali indicate dal Tribunale, si evince l’inammissibilità del ricorso ex art. 700c.p.c. atteso che “dagli elementi sistematici ricavabili dalla novella sul processo civile emerge che la domanda cautelare proposta "ante causam" deve necessariamente contenere l'indicazione della <causa petendi>, del <petitum> e delle conclusioni della futura causa di merito”. (cfr. Pretura Alessandria, 16 marzo 1993 pubblicata in Giur. it. 1993, I,2, pp.775). Ciò, stando alla ricostruzione del contenuto del ricorso sulla base delle stesse perplessità manifestate dal decidente nel provvedimento, e chiaramente salvo un approfondimento del contenuto dell’atto introduttivo, allo stato, non reperibile. In ogni caso v’è di più, ove si consideri che, in un passo successivo dello stesso provvedimento appena citato, si legge che per il medesimo giudicante, “è nullo ex art. 156 comma 2 c.p.c., poiché non può raggiungere lo scopo che gli è proprio, il ricorso cautelare "ante causam" che non indichi nell'atto introduttivo "petitum, causa petendi", nonché le conclusioni dell'instauranda causa di merito. Lo scopo del ricorso risiede infatti nel collegamento tecnologico tra domanda cautelare e la domanda di merito”. Di identico tenore espressivo, la stragrande maggioranza dei provvedimenti esistenti sulla materia considerata, laddove si consideri che “la mancanza dell'indicazione delle conclusioni di merito nel ricorso cautelare comporta l'inammissibilità dello stesso purché l'esame complessivo dell'atto consenta al giudice di individuare i termini della domanda” (cfr. Tribunale Roma, 14 giugno 2001, pubblicata in Lavoro nella giur. (Il) 2001, pp.1196). Come si può desumere agevolmente da una prima sommaria lettura, da quanto rilevato ut supra, non si riesce a cogliere alcun genere di riferimento in merito a quanto considerato dal Tribunale, circa “l’ammissibilità del ricorso che contenga anche in modo implicito, ma inequivocabilmente l’indicazione della domanda di merito”. Ulteriori segnali contrastanti si colgono, ove si consideri quanto ritenuto dal Tribunale in relazione al tentativo di accostamento operato con il rito processuale ordinario. Infatti, è vero “che la disciplina del rito ordinario di cognizione consente all’attore di integrare o precisare la domanda nel corso dell’istruttoria (articolo 183 comma 5 Cpc)” ma non anche nella fase cautelare di un procedimento speciale, considerata l’assoluta autonomia del nuovo processo cautelare uniforme disegnato dal Legislatore con l’avvento della novella del 1990. Pertanto, la richiesta cautelare, per poter essere presa validamente in considerazione (prescindendo in tale fase iniziale dall’esame nel merito del grado di fondatezza o meno delle doglianze proposte dal ricorrente, rilevando, quanto testò appena dedotto, ai fini del giudizio in ordine alla pregiudiziale questione di ammissibilità della stessa istanza cautelare) dal Giudice Delegato all’Esame dei Procedimenti Cautelari proposti ante causam (come nella fattispecie trattata) deve essere già perfetta in ogni sua parte al momento del deposito del ricorso nella Cancelleria del predetto Giudice. Tuttavia, è innegabile che l’Ordinanza emessa dal Giudice della Cautela, sia di grande spessore e rilievo, tanto da aver suscitato il pubblico clamore che normalmente competono a provvedimenti di analogo genere e natura, laddove ci si trovi in presenza di un delicato quanto complesso ragionamento giuridico, caratterizzatosi - come nella fattispecie - essenzialmente per aver volutamente interpretato in un’ottica prettamente subiettiva ed originale, le stesse pronunce giurisprudenziali di per sé idonee a giustificare non l’accoglimento ma bensì il rigetto del ricorso proposto dalla parte con specifico riferimento a tale punto della controversia. Per mere ragioni di brevità, mi astengo dal riportare anche le ulteriori motivazioni contenute nei restanti provvedimenti citati, che, come innanzi esposto, sono comunque di identico tenore, sia di forma che di sostanza. Sulla seconda eccezione di nullità del ricorso ex art. 700 c.p.c. Si legge nell’Ordinanza del Tribunale che “non ignora questo giudice che si è ritenuto da parte di alcuno in dottrina che, quando sia promossa un’azione nei confronti di un minore, l’atto di citazione debba essere rivolto – a pena di invalidità (sanata dalla costituzione di entrambi) – ad entrambi i genitori, in quanto la rappresentanza del minore spetta agli stessi congiuntamente. Nel caso in esame, però, viene in rilievo non il profilo passivo di un rapporto processuale, ma l’esercizio dell’azione giudiziale in nome e per conto dei figli minori, fattispecie in relazione alla quale la giurisprudenza ritiene che, laddove non siano destinate ad incidere sul patrimonio del minore, non sia necessario l’esercizio congiunto da parte di entrambi i genitori (oltre alla preventiva autorizzazione del giudice tutelare) (in tal senso, alcune pronunce in materia di impugnazione davanti al giudice amministrativo proprio di provvedimenti dell’amministrazione scolastica: cfr. Tar Lombardia, 284/86; in Tar, 1986, I, 2827; Tar Abruzzo, sezione di Pescara, 157/85, in Tar, 1985, I, 2492; Tar Calabria, sezione di Reggio Calabria, 287/84, in Tar, 1985, I, 742)”. In considerazione di quanto appena espresso, il Giudice monocratico conclude sul punto affermando che: “la proposizione di una domanda giudiziale, anche cautelare, non deve essere necessariamente proposta da entrambi i genitori, benché la potestà genitoriale sia normalmente congiunta, per di più laddove – come nel caso all’esame di questo giudice – si tratta di richiesta di provvedimento d’urgenza e, comunque, privo di incidenza sulla sfera patrimoniale dei minori e volto piuttosto ad ampliare la sfera giuridica soggettiva degli stessi, che si assume compresa nel suo pieno esplicarsi”. Ora, ci si chiede se il Tribunale avesse malauguratamente rigettato il ricorso, - come si è peraltro verificato per quello proposto autonomamente dal genitore esercente la potestà - cosa sarebbe accaduto nell’ipotesi di applicazione del generale (ed obbligatorio) principio della soccombenza sancito dall’art. 91 c.p.c. in relazione all’art. 669 septies c.p.c.? Credo che, in tale ipotesi, si sarebbe verificata una probabile condanna del minore (rectius: del proprio genitore in qualità di esercente la potestà) con il conseguente ineludibile impoverimento del patrimonio familiare (tenuto conto della regola generale relativa al regime di comunione legale dei beni, che, in relazione alla cui circostanza, nella fattispecie, non mi sembra che il Tribunale sia stato sfiorato dal benché minimo dubbio). Dunque, già sotto tale profilo, non mi sembra opportuno affermare quanto riportato nell’Ordinanza laddove si riscontra che “come nel caso all’esame di questo giudice, si tratta di richiesta di provvedimento d’urgenza e, comunque, privo di incidenza sulla sfera patrimoniale dei minori e volto piuttosto ad ampliare la sfera giuridica soggettiva degli stessi, che si assume compresa nel suo pieno esplicarsi”. Del resto, non mi sembra che avuto riguardo ai soli casi concernenti la proposizione di provvedimenti d’urgenza sia comunque “scontata” una compensazione delle spese di lite da parte del Giudice della cautela adito dalla parte ricorrente. Ma proprio da un’attenta lettura di tale passo dell’ordinanza, credo di intravedere un’importante aspetto circa la visione tipicamente super partes, che notoriamente connota l’imparzialità e l’autonomia della figura di un qualsivoglia soggetto investito dell’esercizio della funzione giurisdizionale nel nostro Paese. Infatti, considerato che la motivazione rassegnata su tale punto specifico non attiene al merito, circa l’esame della fondatezza o meno del ricorso, suscita indubbia perplessità il rafforzamento del predetto concetto espresso su tale punto con l’inciso finale: “….volto piuttosto ad ampliare la sfera giuridica soggettiva degli stessi, che si assume compresa nel suo pieno esplicarsi”? In realtà, appare fin troppo chiaro come, solo conoscendo in anticipo la sorte del ricorso (avuto riguardo all’esame delle ragioni di merito dello stesso, sotto il duplice profilo della ricorrenza del fumus boni juris e del periculum in mora) potesse giungersi a tale affermazione, volta a contrastare ancora un’eccezione pregiudiziale di rito concernente l’ammissibilità del ricorso. Detto con le parole povere di un comune cittadino, tale affermazione suona come se il Tribunale - prima ancora di terminare l’esame di tutte le singole e complesse eccezioni pregiudiziali sollevate dal resistente, e, dall’Avvocatura dello Stato - avesse comunque, già deciso di accogliere sic et simpliciter la domanda proposta, prescindendo da ogni fastidioso impedimento di ordine processuale (inammissibilità del ricorso) e procedurale (difetto di giurisdizione), i quali ultimi, quindi, considerata la raffinata, quanto sottile disputa giuridica in corso, sarebbero stati in ogni caso prontamente respinti al mittente! Sull’eccezione di difetto di giurisdizione dell’AGO. Possiamo finalmente iniziare a considerare l’ipotesi concernente il difetto di giurisdizione dell’A.G.O. in relazione alla questione trattata. Sul punto, il Tribunale afferma che “la lettera e) del comma 2 dell’articolo 33 suddetto, infatti, prosegue escludendo espressamente dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo i "rapporti individuali di utenza con soggetti privati" e le "controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona". Orbene, proprio considerando tali espresse esclusioni dall’ambito di estensione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella materia dei servizi pubblici, procedendo alla qualificazione della domanda – rilevando a tal fine non il contenuto dei provvedimenti d’urgenza richiesti, bensì l’azione di merito che si intenda intraprendere, rispetto alla quale la cautela invocata si pone come strumentale – deve ritenersi sussistere la giurisdizione del giudice ordinario. In primo luogo, infatti, deve rilevarsi come la pretesa di tutela del diritto inviolabile e costituzionalmente garantito di libertà religiosa dei figli minori del ricorrente, che si assume leso in conseguenza all’esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica "Antonio Silveri" di Ofena (facente capo all’istituto comprensivo di scuola materna ed elementare di Navelli) che gli stessi frequentano, attiene al rapporto individuale di utenza del pubblico e servizio di istruzione tra detti alunni e l’istituto scolastico alla cui attività i medesimi attendono”. In verità, senza voler contrastare a tutti i costi l’originale e subiettivo punto di vista del Giudicante adito, - degno di assoluto rispetto quantomeno sotto il profilo della completa esposizione dell’argomento specificamente richiamato su tale punto - sia consentito allo scrivente di dubitare dell’obiettiva applicabilità dello stesso alla fattispecie in esame, posto che, le ragioni ostative all’applicabilità sembrerebbero derivare proprio dalle stesse argomentazioni contenute nella decisione. Infatti, il Giudicante ha ritenuto esistente la propria competenza giurisdizionale, fondandola sulla ritenuta esclusione dall’ambito di operatività della giurisdizione esclusiva amministrativa sancita dall’art. 33 del D.Lgs.vo 80/1998, nel testo successivamente modificato dalla L.205/2000, in quanto, la lettera “E”, comma 2 della predetta norma, prevede l’esclusione dalla giurisdizione esclusiva delle controversie concernenti i “rapporti individuali di utenza con i soggetti privati” e le “controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona”. Conseguentemente, “considerando tali espresse esclusioni (leggo la testuale motivazione del provvedimento) dall’ambito di estensione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella materia dei servizi pubblici, procedendo alla qualificazione della domanda - rilevando a tal fine non il contenuto dei provvedimenti d’urgenza richiesti, bensì l’azione di merito che si intenda intraprendere, rispetto alla quale la cautela invocata si pone come strumentale - deve ritenersi sussistere la giurisdizione del giudice ordinario” che, tradotto in parole povere, il significato che si coglie è il seguente: la giurisdizione dell’A.G.O. sussiste nella fattispecie esaminata, considerato l’inquadramento della domanda non in funzione della misura cautelare invocata, ma bensì in funzione del giudizio di merito (non ancora iniziato) la cui proposizione è allo stato degli atti quantomeno futura ed incerta, poiché il ricorrente, almeno in linea di principio, potrebbe anche decidere di non attivarsi per iniziare la successiva fase di merito. Ora delle due l’una: il potere di determinare - circoscrivendolo adeguatamente, e, non certo ampliandolo - il petitum e la causa petendi esiste in relazione ad una domanda che, allo stato degli atti ancora non esiste giuridicamente? Da tale risposta, dipende buona parte della soluzione inerente alla questione giurisdizionale sollevata. Per ragioni sostanzialmente identiche, non potrebbe condividersi l’ulteriore passo motivazionale del provvedimento, nel quale si legge: “né sembra possibile svilire la questione all’esame di questo giudice riconducendola – come ritengono i resistenti (cfr. pag. 5 della memoria difensiva depositata in data 14 ottobre 2003) – ad un profilo organizzativo del pubblico servizio di istruzione. A ben vedere, affermare ciò vorrebbe dire che con il ricorso in esame, il ricorrente abbia inteso censurare un profilo relativo all’organizzazione dei mezzi nell’ambito di un ufficio pubblico, essendo appunto mezzi materiali anche quelli facenti parte dell’arredo scolastico, nel cui ambito verrebbero dettate le disposizioni che prevedono l’esposizione del crocifisso nella aule delle scuole pubbliche (come si dirà diffusamente di seguito). Tale prospettazione, benché in passato sostenuta in giurisprudenza (cfr. Pret. Roma 17 maggio 1986, in Riv. Giur. Scuola, 1986, 619), sembra non voler cogliere la vera essenza della questione, elidendo il profilo della lesione – seppure prospettata – di un diritto assoluto costituzionalmente tutelato. Evidente forzatura che, di fronte al rilievo in tal senso del resistente in sede di discussione del ricorso, ha spinto il rappresentante dell’Avvocatura dello Stato a contestare che l’assunto difensivo possa essere riassunto nella riconducibilità della questione a meri profili attinenti all’arredo scolastico (cfr. verbale dell’udienza del 15 ottobre 2003)”. In effetti, il Tribunale, proseguendo nella propria disamina, rileva come sia inapplicabile il tentativo di richiamare il “ profilo organizzativo del pubblico servizio di istruzione” in quanto, “tale prospettazione, benché in passato sostenuta dalla giurisprudenza, sembra non voler cogliere la vera essenza della questione, elidendo il profilo della lesione - seppure prospettata - di un diritto assoluto costituzionalmente tutelato”. Anticipando quanto in appresso si dirà, sia consentito rilevare come non possa escludere la fattispecie lamentata da una organizzazione generale della modalità della prestazione del servizio istruzione; basterà considerare che analoghe censure che possano muoversi sotto il profilo della modalità di una istruzione ancorata e legata a principi confessionali non possono se non qualificarsi critiche al “ sistema organizzativo” del servizio indipendentemente dal sottostante diritto costituzionalmente garantito che nelle singole fattispecie possano farsi valere. In ogni caso, esaminando la questione con animo sereno, - scevro da qualsivoglia pregiudizio intriso di una falsa bigotteria - sorge naturale la seguente domanda: se la questione esaminata attiene ad una possibile lesione di un diritto costituzionalmente garantito, implicante un conflitto normativo, forse la strada maestra da percorrere - rimanendo nell’amplissimo spazio interpretativo delle norme richiamate nel provvedimento - sarebbe stata quella di sollevare una ipotetica questione di incostituzionalità delle stesse, ovvero, in alternativa, la pacifica ammissione della inesistenza del diritto azionato in sede cautelare. Infatti, delle due l’una: se il punto focale del ragionamento seguito dal Tribunale deve rinvenirsi nel voler tutelare ad ogni costo quella che sembrerebbe essere apparsa prima facie come una macroscopica lesione di un diritto costituzionalmente garantito dalla nostra Carta Fondamentale, allora, vertendosi in tale specifica ipotesi, sarebbe stato non solo opportuno, ma finanche doveroso per il Giudicante sospendere il giudizio rimettendo gli atti alla Consulta, previa individuazione dell’eventuale contrasto normativo, ove ritenuto esistente nel caso specifico. Diversamente argomentando, appare logico dover ritenere inesistente qualsiasi contrasto in ordine a tale questione specifica, con la conseguente inesistenza - ove esprimibile in termini puramente teorici - dell’addotta situazione pregiudizievole destinata ad incidere significativamente sul diritto azionato in sede cautelare, quantomeno nei termini indicati nel provvedimento. Neppure deve ritenersi confinata aprioristicamente - con una visione miope e strumentale - l’azione proposta ex art. 700 c.p.c. nell’alveo della responsabilità aquiliana come asserito nel provvedimento laddove si riscontra: “la cautela richiesta è funzionale al fruttuoso esercizio dell’azione di responsabilità aquiliana per l’asserita lesione del diritto di libertà religiosa di cui si invoca la tutela con la reintegrazione in forma specifica ex articolo 2058 Cc. Conseguentemente, tanto l’azione proposta da Adel Smith in proprio, quanto quella proposta da questi quale genitore esercente la potestà sui figli minori, rientrerebbero nell’ulteriore esclusione sancita dalla lettera e) dell’articolo 33 del decreto legislativo 80/1998 (e successive modificazioni) rispetto alla previsione della giurisdizione del giudice amministrativo per le controversie relative a servizi pubblici, ossia le azioni risarcitorie. La circostanza stessa che il rimedio invocato dal ricorrente si concreti in una richiesta di ordinarie ai resistenti un facere, prima in via provvisoria ed urgente e, quindi, in via definitiva, discende dal fatto stesso che venga proposta un’azione risarcitoria in forma specifica e non può determinare - come invece ritiene parte resistente - una diversa qualificazione della domanda quale attinente ad un aspetto organizzativo del servizio pubblico, atteso che la reintegrazione in forma specifica implica sempre la condanna ad un facere, a un non facere e a un dare da parte del soggetto danneggiante”. Infatti, poiché, nella fattispecie trattata, i figli del ricorrente erano regolarmente iscritti alla classe frequentata presso la struttura pubblica, è inevitabile come con l’iscrizione alla stessa sia intercorso un vero e proprio contratto. Pertanto, la responsabilità del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. - nella fattispecie, attualizzata “ad hoc” con una pur pregevole operazione di “transfert” nell’art. 2058 c.c. - deve ritenersi ampiamente superata dalla concorrente esistenza di una tutela di tipo marcatamente contrattuale, come si desume dalle stesse argomentazioni usate (sia pure al fine di dimostrare un diverso aspetto della vicenda) dal Tribunale nell’aver riscontrato l’esistenza di uno specifico quanto particolare rapporto individuale di utenza con il privato, quale motivo della ritenuta esclusione della controversia in esame dalla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo. L’argomento è capzioso e renderebbe sempre accessibile la strada della giurisdizione ordinaria, dimenticando la attuale competenza del Giudice Amministrativo anche per il risarcimento del danno conseguente ad atti illegittimi, come previsto dalla L.205 del 2000. Neppure appare condivisibile l’ulteriore assunto circa il “ritenersi pacifica la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario, vertendosi in materia di diritti soggettivi e, per di più, venendo in rilievo un diritto di libertà inviolabile e costituzionalmente garantito (cfr. Tribunale di Roma, sezione seconda, ord. 18 dicembre 2002, in www.edscuola.it, Pre. Milano, ord. 15 febbraio 1990, in Foro it, I, 1746; Trib. Milano, 18 dicembre 1986, ivi, 1987, I, 2496). Né appare dubitabile che la situazione giuridica soggettiva dedotta dal ricorrente, in proprio e in relazione ai figli minori, sia di diritto soggettivo, poiché si riconnette in via diretta alla norma costituzionale dell’articolo 19, che tutela non solo la libertà di culto, ma anche - e come si dirà più ampiamente di seguito - la libertà cosiddetta negativa di religione e la libertà di coscienza in relazione al fenomeno religioso (come sostenuto dalla dottrina e come affermato dalla Corte costituzionale in più decisioni)”. Infatti, nessuno può negare che il diritto in esame, di indubbia dignità costituzionale, ed anzi, proprio perché tale, - essendo un diritto personalissimo del singolo individuo - giammai potrebbe definirsi semplicisticamente al rango di semplice diritto soggettivo, giacché da tale classificazione, esula la tipologia di diritti ut supra evidenziata. Sull’ammissibilità di un provvedimento inibitorio - emesso in via cautelare - consistente in un’attività di <facere> o <non facere> imposta alla p.a.. Proprio con riferimento all’articolo 2 della L. 2448/1865, all. E, che devolve alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria le materie riguardanti un diritto civile o politico, il riferimento giurisprudenziale citato dal Tribunale nell’Ordinanza - Pret. Milano, ord. 15 febbraio 1990, Brossais c. Ministero Pubblica Istruzione e altro, in Foro it. 1990, I, pp.1746 - ove letto per esteso, afferma che: “sono inammissibili le richieste di provvedimenti di urgenza contro la p.a. avanzate dal genitore che, non avendo scelto, all'atto d'iscrizione del figlio alla scuola pubblica media inferiore, se avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica o, piuttosto, usufruire delle attività alternative, chieda all'autorità giudiziaria ordinaria, in primo luogo, di accertare il diritto alla libertà religiosa e, in secondo luogo, di inibire gli atti diretti a comprimere tale diritto (in particolare, è stato osservato che, in sede di tutela cautelare urgente, non è possibile il mero accertamento del diritto nè l'emanazione di provvedimenti inibitori volti a condannare la p.a. ad un "facere"). Pertanto, appare quantomeno non conforme alla massima giurisprudenziale citata, la statuizione contenuta nell’Ordinanza diretta a provocare la rimozione di un simbolo religioso, e, quindi, sostanzialmente un’attività di “facere”. Il Tribunale, prosegue la disamina di quanto richiesto nel ricorso, osservando che sarebbe controversa, la possibilità di emanare provvedimenti che prevedano un “facere” (come richiesto, appunto, nel caso in esame) ovvero un “non facere” da parte della pubblica amministrazione. A norma dell’articolo 4 della legge 2248/1865 all. E, nonostante la posizione di diritto soggettivo del privato che si assuma violata da un atto o da un comportamento della pubblica amministrazione, è infatti vietato al giudice di sostituirsi all’autorità amministrativa, sicché - salvo deroghe espresse - non è ammessa, tanto in sede di giudizio ordinario di cognizione quanto in sede cautelare ed urgente, non solo l’adozione di provvedimenti di annullamento, modifica o sospensione di un atto amministrativo, ma anche di un comportamento (come appunto la condanna ad un facere o ad un non facere) direttamente incidente nella sfera di discrezionalità della pubblica amministrazione, ossia in quegli atti o comportamenti attuativi dei fini istituzionali della pubblica amministrazione.Orbene, premesso che Cassazione, civile, Sezioni unite 12906/98 citata – non appare affatto pertinente alla fattispecie trattata, in quanto relativa all'apprensione di un fondo del privato da parte dell'Amministrazione, decorsi tre mesi dall’emissione del decreto prefettizio autorizzativo dell'occupazione temporanea e d'urgenza, inerendo piuttosto ad una controversia rientrante nella materia regolata dalla legge 22 ottobre 1971 n. 865, forse, il Giudicante intendeva riferirsi “ad un presunto comportamento di fatto, non riconducibile nell'ambito dell'attività pubblicistica della Amministrazione medesima”. Infatti, in tale ultima ipotesi, dovrebbe ritenersi esperibile da parte del medesimo privato l’azione di reintegrazione o manutenzione nel possesso, non operando in tale situazione il divieto per il giudice ordinario di condanna della Amministrazione ad un facere, sulla scorta dell’art. 4 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E. Ma a ben vedere, l’Ordinanza, appare carente proprio nelle motivazioni che dovrebbero condurre a tale conclusione. Infatti, per: Pretura di Monza, 23 marzo 1990, Genovese e altro c. Ministero Pubblica Istruzione e altro, in Foro it. 1990, I, pp.1745, laddove si esamina il testo del provvedimento per esteso, si legge: “è ammissibile la richiesta di provvedimento di urgenza contro la p.a., avanzata dai genitori che, avendo scelto, all'atto d'iscrizione dei due figli rispettivamente alla scuola pubblica materna ed elementare, di non avvalersi dell'insegnamento religioso cattolico nè delle attività alternative, chiedano all'autorità giudiziaria ordinaria di inibire il comportamento con cui si vieta l'assenza dei minori dai locali scolastici durante lo svolgimento della lezione di religione (in particolare, è stato osservato che è possibile emanare provvedimenti inibitori avverso atti della p.a. compiuti in carenza assoluta di potere)”. Tanto premesso, a) dov’ è la carenza di potere della P.A., visto che nell’Ordinanza non si colgono le motivazioni sotto tale profilo? b) l’oggetto della richiesta sarebbe in ogni caso non un’attività di facere o non facere, bensì la richiesta inoltrata dai genitori all'autorità giudiziaria ordinaria di inibire il comportamento con cui si vieta l'assenza dei minori dai locali scolastici durante lo svolgimento della lezione di religione. Sembrerebbe quindi proprio l’antitesi rispetto a quanto si è verificato nel caso in esame. Parimenti privi di pregio sono i riferimenti a Cassazione Civile 1.10.1997, (non a sezioni unite, ma riferentesi alla sezione II) , poiché riguardante un’ipotesi di usucapione ex art. 1159 bis c.c. estranea alla questione che ci occupa; mentre, il richiamo a Cass. Civ. sez.unite n.39/2001 - volta ad affermare che sussisterebbe la giurisdizione ordinaria in base al principio che le azioni possessorie, quelle di nunciazione, quelle cautelari ex art. 700 c.p.c. e quelle petitorie sono esperibili davanti al Giudice ordinario -.non si attaglia al caso in esame. Infatti, la ammissibilità della azione cautelare nei confronti della P.A. - allorquando il comportamento perseguito da quest'ultima non si ricolleghi ad atti o provvedimenti amministrativi, emessi nell'ambito e nell'esercizio di poteri discrezionali ad essa spettanti, idonei ad incidere nella sfera giuridica del privato, ma si concreti in una mera attività materiale che invada la sfera giuridica e patrimoniale del privato, ledendo beni di cui questi assuma di essere proprietario, od anche semplice “possessore” – non si riscontra nel caso in cui trattasi non già di comportamenti “materiali” trasgressivi della regolamentazione della P.A., giacché nel caso concreto, la esposizione del simbolo della Croce è addirittura previsto da norme alle quali la stessa P.A. è astretta ad osservare . Quindi trattasi non di attività “materiale” ma “organizzativo” e non “discrezionale” dell’attività della p.a. specificamente considerata. Ora, premesso che la questione trattata nel precedente invocato attiene ad una fattispecie completamente diversa da quella in esame, non può non evidenziarsi come, l’attività in oggetto, non possa essere classificata come “materiale” poiché riguarda una materia oggetto di insegnamento didattico espletato nel corso dell’ora di religione (cattolica) in relazione alla quale, deve quindi ritenersi sussistente il potere discrezionale, anche sotto il profilo organizzativo della p.a.. Non va poi trascurata la circostanza che, - come detto innanzi - il ricorrente avrebbe semmai potuto chiedere l’eventuale esonero dei propri figli dal partecipare all’ora di religione, proprio per consentire la salvaguardia della propria libertà all’integrità morale di tipo religioso, che, a sua volta implica il diritto - costituzionalmente garantito - di scegliersi la propria religione (od eventualmente nessuna per gli atei). Infatti, sul punto, giova sottolineare che la Costituzione protegge il diritto considerato nella sua valenza uti singuli di tutti i cittadini, senza discriminazioni di sorta, anche sotto il profilo della c.d. laicità che non deve quindi essere esasperata come principio, considerandola come una specie di “dogma” sempre “pronto all’uso” da agitare dinanzi a qualsivoglia orientamento - anche religioso di - tipo diverso al fine di non incorrere nell’opposto eccesso: quello della tutela di un diritto ad un concetto superiore di laicità espresso in termini prettamente assolutistici. Sul rispetto della libertà religiosa costituzionalmente garantita. Da ultimo, il Tribunale in sede cautelare sembra aver travisato l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato, sez. II, che in data 27 aprile 1988 aveva emesso il proprio Parere n. 63/1988 avente ad oggetto proprio il quesito concernente l’insegnamento della religione cattolica ed esposizione dell'immagine del predetto simbolo religioso nelle aule scolastiche. Ebbene, in tale occasione, il Consiglio di Stato, aveva affermato che “deve ritenersi che siano tuttora legittimamente operanti le disposizioni di cui all'art. 118 del R.D. 30 aprile 1924, n. 965 e quelle di cui all'allegato c) del R.D. 26 aprile 1928, n. 1297, concernenti l'esposizione del Crocifisso nelle scuole, le quali non attengono all'insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli impegni assunti dallo Stato in sede concordataria”. Precisando che il simbolo religioso, rappresenta il simbolo di una civiltà e cultura espresso in termini universali, indipendente dall’appartenenza ad una specifica confessione religiosa, rilevando altresì come la normariva esistente ad hoc, di natura regolamentare, è preesistente rispetto ai Patti Lateranensi, in relazione ai quali, non si sono mai poste in contrasto. Nulla, viene stabilito nei Patti Lateranensi relativamente all'esposizione del simbolo nelle scuole o, più in generale negli uffici pubblici, nelle aule dei tribunali e negli altri luoghi nei quali il predetto simbolo si trovano ad essere esposti. Conseguentemente, le modificazioni apportate al Concordato Lateranense, con l'accordo, ratificato e reso esecutivo con la Legge 25 marzo 1985, n. 121, non contemplando esse stesse in alcun modo la materia de qua, così come nel Concordato originario, non possono influenzare, né condizionare la vigenza delle norme regolamentari di cui trattasi. Non si è quindi, tuttora, verificata nei confronti delle medesime, alcuna delle condizioni previste dall'art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale. Né appare ravvisabile un rapporto di incompatibilità con norme sopravvenute e tantomeno può configurarsi una nuova disciplina dell'intera materia, già regolata dalle norme anteriori. Occorre, poi, anche considerare che la Costituzione repubblicana, - pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose - non prescrive alcun divieto alla esposizione nei pubblici uffici di un simbolo, che per i principi che evoca e dei quali si è detto, fa parte del patrimonio storico dell’umanità.( parole testuali contenute nel provvedimento del C.d.S. citato ) . Né pare, d'altra parte, che la presenza dell'immagine simbolistica nelle aule scolastiche possa costituire motivo di costrizione della libertà individuale a manifestare le proprie convinzioni in materia religiosa. Di identico tenore le conclusioni rassegnate dall’Avvocatura dello Stato di Bologna in sede di emissione del Parere datato 16 luglio 2002, laddove si evidenzia che le disposizioni che prevedono l'affissione del Crocifisso nelle aule scolastiche sono da ritenere ancora in vigore, così come non va ritenuta lesiva del principio costituzionale di libertà religiosa l'affissione di un simbolo religioso. Sul punto, l’Avvocatura dello Stato richiamava le conclusioni rassegnate dal Consiglio di Stato nel parere innanzi citato, nel quale si statuiva che le disposizioni dell'art. 118 del R.D. 30 aprile 1924, n. 965 e quelle dell'allegato C del R.D. 26 aprile 1928, n. 1297, dovevano ritenersi tuttora in vigore, sottolineando la piena conformità con l’orientamento interpretativo della Corte Costituzionale con riferimento agli artt. 2, 3, 7 e 19 della Costituzione, sottolineando come (cfr. sentenze nn. 203 del 1989; 13 del 1991; 290 del 1992) gli artt. 3 e 19 Cost., tutelano i valori di libertà religiosa nella duplice specificazione di divieto: a) che i cittadini siano discriminati per motivi di religione; b) che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione. Va inoltre considerato – a sommesso parere di chi scrive – come la forza della fonte normativa di cui all’art. 118 del R.D. n. 965 del 1924, sia stata vieppiù confermata dalla volontà del legislatore repubblicano che, mentre con Legge 14 luglio 1965, n. 902 (in Gazz. Uff., 31 luglio, n. 190). ( Norme relative al personale non insegnante delle scuole medie e degli istituti di istruzione classica, scientifica e magistrale) si preoccupava di modificare il predetto decreto regio, non operava alcuna modificazione all’art. 1118 nel punto relativo alla esposizione del crocifisso. Il che rende indubbia la volontà attuale, anche dell’ordinamento repubblicano di confermare la valenza legislativa della norma disponente la esposizione del simbolo della Croce. Tanto avrebbe dovuto indurre il Tribunale a sottoporre la questione di legittimità costituzionale del complesso normativo e non già a ritenerlo privo di forza legale. Passando poi alla disamina costituzionale della problematica, è opportuno considerare che i principi che concorrono a determinare la struttura del principio di laicità dello Stato, non si risolvono necessariamente nell’indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma bensì nella garanzia della salvaguardia della libertà di religione, in un regime di pluralismo confessionale e culturale.Solo in ipotesi di concreta incisione sulla libertà religiosa potrebbe addursi una violazione del principio costituzionale. Perfino la Corte di Cassazione - sez. III, in data 13.10.1998 - affermava che non poteva ritenersi contrastante con il principio (indubbiamente di dignità costituzionale) di libertà religiosa, la presenza del simbolo presente nelle aule scolastiche. Infatti, il principio di libertà religiosa, ove posto a confronto con quello di uguaglianza, conduce all’incontrovertibile risultato che a nessuno può essere imposta per legge una prestazione di contenuto religioso ovvero contrastante con i suoi convincimenti in materia di culto, fermo restando che deve prevalere la tutela della libertà di coscienza soltanto quanto la prestazione, richiesta o imposta da una specifica disposizione, abbia un contenuto contrastante, con l'espressione di detta libertà. Tanto, prescindendo del tutto da considerazioni di natura prettamente soggettiva circa i pure cospicui pareri che individuano nella Croce la espressività non di segni di aconfessionalità dello Stato, ma ecumenici segni di civiltà innegabilmente presenti in tutte le espressioni sovra umane ed anche atee. Avvocato * |
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