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LA
LIBERTA’ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO
DEL
LAVORATORE NELL’IMPRESA
Avv. Marco Boretti
Una delle maggiori espressioni di una vera democrazia è quella riguardante la possibilità di manifestare liberamente il proprio pensiero. Questo diritto, a parte le esperienze d’Oltremanica della Magna Charta e dei Bills of Right, si concretizza con le grandi rivoluzioni del XVIII secolo. Il legislatore rivoluzionario, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, aveva, infatti, espressamente previsto, all’art. 11, che “la libera comunicazione del pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo, ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge”. La
Costituzione della Repubblica italiana garantisce, all’art. 21, il diritto
di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e
ogni altro mezzo di diffusione.
Così
gli articoli 9, 10 e 11 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo, ratificata con legge dallo Stato italiano, confermano la
sussistenza di un diritto inalienabile alla libertà di manifestazione.
E’
natura che anche al lavoratore, quale membro della collettività, sia
garantita la libertà di pensiero.
Se
questo assunto poteva avere una valenza generale, solo con la legge n. 300/70,
il c.d. Statuto dei Lavoratori, è stata sancita a livello normativo una
garanzia alla libertà di pensiero del lavoratore nell’impresa.
Proprio
l’articolo di esordio dello Statuto, dispone che “I lavoratori senza
distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno
diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il
loro pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme
della presente legge”.
Si
tratta, in buona sostanza di una affermazione di principio che vale a
delineare i principi ispiratori di tutta la legge, anzi, di tutta la normativa
giuslaburista.
I
principi enunciati, benchè di rango costituzionali, non sono previsti di una
sanzione che colpisca la loro violazione, come, ad esempio l’art. 28 della
medesima legge, che censura il comportamento antisindacale.
In
linea generale, comunque, qualunque comportamento lesivo del diritto della
libertà di espressione deve considerarsi tout court illegittimo.
Scopo
della disposizione legislativa è di riaffermare il fondamentale principio di
libertà riconosciuto dall’art. 21 Costituzione, impedendo che il datore di
lavoro si avvalga della sua posizione di supremazia per comprimere la libera
manifestazione del pensiero da parte dei suoi dipendenti nei luoghi di lavoro.
Oggetto
della norma è indiscutibilmente la libertà di manifestazione del pensiero,
in ogni sua forma (anche telematica).
La
manifestazione del pensiero è tutelata espressamente nei luoghi ove i
dipendenti prestino la loro opera, espressione volutamente generica.
Per la
manifestazione del pensiero fuori dai luoghi di lavoro, non sarebbe in realtà
immaginabile una compressione diretta da parte del datore di lavoro, ma
soltanto una coazione indiretta mediante atti di pressione discriminatori,
vietati da altre disposizioni dello Statuto (artt. 15, 4 e 8).
La
libertà di manifestazione del pensiero ingloba anche la libertà di critica
nei confronti del datore di lavoro (Pret. Milano 14.12.1971), nei limiti,
ricordati dall’articolo in commento, “della Costituzione e delle norme
della presente legge”.
Le
opinioni espresse dal lavoratore dipendente, anche se vivacemente critiche nei
confronti del proprio datore di lavoro, specie nell'esercizio dei diritti
sindacali, non possono costituire giusta causa di licenziamento, in quanto
espressione di diritti costituzionalmente garantiti o, quanto meno, di una
libertà di critica. Peraltro, qualora il comportamento si traduca in un atto
illecito, quale l'ingiuria o la diffamazione, o comunque in una condotta
manifestamente riprovevole può riscontrarsi, sotto il profilo sia soggettivo
che oggettivo, quella gravità necessaria e sufficiente a compromettere in
modo irreparabile il vincolo fiduciario, così da non consentire la
prosecuzione anche provvisoria del rapporto. (Cass.
Sez. Lav., sent. n. 10511 del 22-10-1998).
Limitazioni
particolari a detta libertà possono assumersi in relazione alle concrete
modalità di tempo e di luogo.
Infatti,
è da escludere che si possa interrompere e sospendere l’attività
lavorativa per discutere di questioni politiche; la fattispecie spezzerebbe il
nesso sinallagmatico intercorrente fra retribuzione e attività lavorativa
medesima.
La
giurisprudenza ha individuato nel limite costituzionale dell’art. 41 della
carta fondamentale l’obbligo del rispetto del normale svolgimento
dell’attività aziendale (Cass. 1325/83) e del necessario adempimento
dell’obbligo di lavorare (Pret. Milano 15.06.1973; Pretura Milano
05.11.1977).
Anche
l’attività di volantinaggio, quale espressione del libertà di
manifestazione del pensiero, riscontra l’innegabile limite del rispetto del
normale svolgimento dell’attività sindacale.
La
giurisprudenza di merito ha stigmatizzato quale illegittima l’attività di
volantinaggio durante il normale orario di lavoro, sanzionabile
disciplinarmente, lecito invece durante le pause di lavoro (Pret. Torino
29.11.1972; Tribunale Roma 19.07.1977; Trib. Bologna 05.05.1973).
E’
altresì ritenuta illegittima la distribuzione di scritti anonimi, in
contrasto con le leggi sulla stampa (Tribunale Monza 25.02.1981).
E’
invece assodato il diritto di organizzare assemblee ove discutere di vari
problemi e manifestare liberamente il proprio pensiero.
I
soggetti protetti sono i singoli lavoratori, non alle organizzazioni
esponenziali, come appunto nel caso dell’art. 28 o 20 della medesima legge.
Per
i lavoratori in Cassa integrazione è stato escluso il diritto di accedere in
azienda al solo fine di manifestare il proprio pensiero (Pretura Busto Arsizio
10.04.1981).
Un
problema particolare si è manifestato nel caso di rapporto di dipendenza con
le imprese di tendenza, quali partiti politici, sindacati, istituti religiosi,
etc. In questa ipotesi, il datore di lavoro presuppone una scelta di opinione
implicita nel rapporto di lavoro.
E’
pur vero che non può essere esclusa in radice la libera manifestazione del
pensiero per il solo fatto di avere un rapporto di dipendenza con un ente
esponenziale, ma è intuitivo che la dissidenza rispetto ai fini istituzionali
dell’impresa potrebbe generare una causa di incompatibilità della
prosecuzione del rapporto.
Ove
non abbiano formato oggetto di specifica previsione - giustificata dalla
particolare prestazione lavorativa - in sede di conclusione del contratto di
lavoro, la rinuncia al diritto alla riservatezza circa la propria appartenenza
a partiti politici e la determinazione dei limiti d'attuazione di tale
rinuncia sono rimesse alla valutazione discrezionale del lavoratore che è
titolare del diritto stesso. (Nella specie, la S.C. - rilevato il giudicato
interno in ordine alla statuizione dell'inesistenza di un obbligo contrattuale
della lavoratrice, dipendente dall'Alitalia come assistente di volo addetta
agli aeromobili a largo raggio, a fornire a terzi informazioni circa la
propria affiliazione politica - ha confermato la sentenza del merito
dichiarativa dell'illegittimità della sanzione disciplinare ad essa
applicata, osservando che l'affermazione della medesima, in sede di richiesta
del visto d'ingresso negli U.S.A., d'essere iscritta al partito comunista, non
l'obbligava a fornire ulteriori informazioni, orali o scritte, al consolato
americano, informazioni in mancanza delle quali il visto Le era stato negato
con l'impossibilità d'essere adibita a voli con destinazione U.S.A.).
(Cass.
Sez. Lav., sent. n. 2535 del 11-03-1987).
Nel rapporto di lavoro subordinato, il datore
di lavoro mette a disposizione i mezzi perchè il prestatore d’opera possa
proficuamente svolgere le proprie mansioni. Questi attrezzi di lavoro vanno
dalla scalpello alla work station. Così il dipendente può avere a proprio
disposizione un computer con una E mail personale. Personale fino a quanto? Un
tecnico di informatica potrebbe serenamente risponderci che messaggi inviati
da postazioni lavorative collegate ad un server, rimangono registrati in
quest’ultimo, a prescindere dall’utilizzo di fantasiose password. Quindi,
il datore di lavoro, potrebbe, tecnicamente, entrare e leggere la posta
elettronica del dipendente. La domanda che a questo punto può angosciare
l’imprevidente dipendente è se sia lecita l’ingerenza del datore di
lavoro. Gli esempi d’Oltreoceano non sono confortanti. Per i giudici
statunitensi, il datore di lavoro ha tutto il diritto di frugare nella
corrispondenza del dipendente, in ossequio dell’interesse aziendale di
controllare i messaggi inviati dal posto di lavoro. Per l’esempio nazionale
occorre svolgere alcune riflessioni.
Infatti, al dipendente è affidato in uso uno
strumento aziendale, finalizzato allo svolgimento delle mansioni sue proprie,
nell’interesse del datore di lavoro e non a fini personali.
Di contro la segretezza della corrispondenza
del dipendente sembra essere un diritto primario, garantito e prevalente.
Ammettere la legittimità del controllo sulla
corrispondenza privata (ancorchè elettronica) del dipendente equivarrebbe a
legittimare il datore di lavoro ad entrare nella vita privata del proprio
impiegato e nella sua libertà di manifestare il proprio pensiero.
Non bisogna dimenticare che via E-mail possono
essere inviati (o ricevuti) messaggi che rivelino le opinioni politiche,
sindacali, religiose del dipendente.
Questo potrebbe, in ultima battuta, essere
discriminato, all’interno del luogo di lavoro, per le proprie confessioni
religiose, opinioni politiche od appartenenza ad una organizzazione sindacale,
come sopra ricordato.
Tale comportamento è di tutta evidenza
illegittimo, in aperta violazione con la lettera e lo spirito della legge
300/70, meglio conosciuta come Statuto dei Lavoratori.
Si è sopra esaminato come l’art. 1 dello
Statuto sancisce espressamente che i lavoratori hanno diritto di manifestare
il proprio pensiero.
L’art. 8 della stessa disposizione vieta al
datore di lavoro qualsiasi indagine sulle opinioni politiche, religiose o
sindacali del lavoratore.
In capo al datore di lavoro “ficcanaso”
potrebbe ascriversi la violazione dell’art. 616 c.p., che punisce con la
reclusione fino ad un anno o con la multa sino a un milione, chiunque prenda
cognizione del contenuto di una corrispondenza a lui non diretta.
Occorre ricordare che, a mente della novella 547/93, per corrispondenza deve intendersi anche quella informatica o telematica. Problema concreto potrebbe però essere
rappresentato dal fatto che, in pratica, il dipendente non sarà in condizione
dell’eventuale violazione della sua sfera di privacy.
I principi sin qui enunciati non debbono
ovviamente essere assolutizzati.
Se il dipendente ha diritto al rispetto della
propria libertà e dignità, non può certo defraudare il datore di lavoro
nello svolgimento della collaborazione.
Così il lavoratore avrà diritto alla privacy
della propria posta elettronica gestita sul suo posto di lavoro, ma questo,
ovviamente, non lo legittima a “chattare” per otto ore al giorno, anzichè
prestare l’attività lavorativa per cui è retribuito.
Un conto, infatti, è il contenuto della posta,
altro è la frequenza degli accessi via internet.
Tra i primi doveri del dipendente occorre
ricordare il rispetto del normale svolgimento dell’attività aziendale e
l’adempimento dell’obbligo di prestare il proprio apporto lavorativo.
Ci si richiama al normale svolgimento
dell’attività produttiva di cui alla lettura della Cassazione sopra
ricordata.
Una sentenza ha affermato che costituisce
condotta antisindacale il comportamento del datore di lavoro volto ad impedire
l’utilizzo della posta elettronica quale modo della comunicazione tra
rappresentanze sindacali e lavoratori, non limitato al solo diritto di
affissione (Pretura Milano 2 luglio 1997).
Scremati i casi estremi, sarà compito del
Giudice, caso per caso, svolgere una comparazioni di interessi fra la tutela
dei diritti del lavoratore e quelli del datore di lavoro.
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