LA RIFORMA DEGLI ENTI LOCALI: LE NOVITÀ SULL’AUTONOMIA E L’ORDINAMENTO.

Nota su talune disposizioni della Legge 3 agosto 1999, n. 265, e refluenze sull’ordinamento della Regione Siciliana.

 

Dr. Calogero Ferlisi                       Dr. Giuseppe La Greca

     (Avvocato)                                   (Segretario Comunale)

 

A quasi dieci anni di distanza dall’emanazione delle norme della Legge 8 giugno 1990, n. 142, l’ordinamento amministrativo delle autonomie locali è stato profondamente riveduto dal legislatore nazionale attraverso l’emanazione della Legge 3 agosto 1999, n. 265. Dopo gli interventi settoriali in materia di Enti locali (cfr. Leggi “Bassanini” e Decr. Lgs. n. 112/98), il Parlamento nazionale ha intrapreso una nuova e decisiva fase di rinnovamento per la P.A. ridefinendo l’assetto di alcuni istituti fondamentali, dallo status degli amministratori locali alla strutturazione di molteplici attribuzioni e competenze delle autonomie territoriali.

Per esigenze di tipo espositivo, limiteremo il nostro esame su alcuni aspetti della recente disciplina legislativa ritenuti di prioritaria importanza, con particolare riferimento agli istituti di immediata efficacia nell’ordinamento degli enti locali della Regione Siciliana che, in materia, riveste peraltro una competenza legislativa di tipo primario o esclusiva.

Va, comunque, puntualizzato che le norme in esame non hanno modificato soltanto la L. n. 142/90, sulle autonomie locali, ma hanno rivisitato altresì molteplici disposizioni del più ampio corpus normativo in materia di enti territoriali. Il legislatore, tuttavia, ha (finalmente!) preso consapevolezza della necessità di adottare un testo unico in materia di autonomie, al fine di eliminare la miriade di leggi frastagliate e distribuite in settori normativi disomogenei e variegati, e, a tal proposito, ha delegato il Governo ad emanare, entro il mese di agosto del 2000, un “testo unico nel quale sono riunite e coordinate le disposizioni legislative vigenti in materia di ordinamento dei comuni e delle province e delle loro forme associative”(art. 31).

In ragione della detta competenza legislativa esclusiva della Regione siciliana in materia di enti locali (art. 14 dello Statuto Regionale), la normativa contenuta nella Legge n. 265/99 (così come era già avvenuto in ordine all’efficacia della Legge n. 142/90) troverà efficacia nel territorio regionale solamente allorché il legislatore regionale, con apposita legge di recepimento, provvederà a farne espresso richiamo nel proprio ordinamento. La circostanza, poi, che l’art. 28, comma 7, testualmente dichiari che “le disposizioni contenute nella presente legge si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e Bolzano nei limiti e nel rispetto degli statuti e delle norme di attuazione” non consente certamente un’immediata cogenza, posto che la legge in questione non classifica i principi in essa contenuti quali “norme fondamentali di riforma economico-sociale”, ancorché una lettura complessiva del dato legislativo consentirebbe di ritenere tali talune disposizioni normative.

La necessità di una apposita legge per la Regione Siciliana trova fondamento nel fatto che le disposizioni adesso sostituite e/o modificate, contenute nelle Leggi nn. 816/85 e 142/90, già erano state oggetto di recepimento in Sicilia rispettivamente con Leggi regionali nn. 31/86 e 48/91. Ma il recepimento de quo ha natura “statica”, si limita cioè ad introdurre nel territorio regionale soltanto i disposti della legge statale espressamente richiamati: non si estende, invece (così come avviene nel recepimento di tipo “dinamico”), alle eventuali, successive modifiche che dovessero intervenire nella medesima legge statale richiamata. Nella fattispecie, quindi, le LL.RR. nn. 31/86 e 48/91 introducono in Sicilia solo ed esclusivamente le norme statali richiamate e non anche le successive norme modificatrici delle dette leggi.

 

1. Il consolidamento dell’autonomia degli enti locali.

 

La potestà statutaria di comuni e province viene strettamente alle disposizioni di legge che regolano l’attività degli enti territoriali, in conformità al principio di gerarchia delle fonti del diritto. Tutta le legislazione concernente le autonomie locali deve, infatti, contenere i principi “che costituiscono limite inderogabile” per la normativa statutaria e regolamentare dell’ente. Basti pensare, sul punto, a titolo esemplificativo, che la disposizione contenuta nel comma 2 bis dell’art. 4 della L. n. 142/90 (introdotto con la L. n. 265) richiama, a sua volta, l’art. 108 del Decr. Lgs. n. 77/95 (sull’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali), ove viene espressamente sancito che i regolamenti comunali di contabilità non possono derogare talune precise e dettagliate disposizioni del medesimo decreto.

Con la nuova disciplina contenuta nella Legge n. 265/99, la conformità alle disposizioni di legge della c.d. “normazione secondaria” (statuti e regolamenti degli enti locali) non inerisce più alle singole -e specifiche- prescrizioni normative bensì ai principi generali indicati nel dato normativo, di modo che la potestà statutaria e regolamentare, sciolta ormai dalla caratteristica specificità delle norme poiché legata soltanto alla generalità dei principi, appare connotata da maggiore indipendenza e, certamente, risulta essere più consolidata.

Sarebbe stato auspicabile che il legislatore avesse fatto riferimento non ai principi espressamente indicati dalla legge quanto a quelli “desumibili” dalla medesima: ciò avrebbe consentito una maggiore autonomia alla normazione secondaria anche in ossequio all’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale, la quale, suppur con riferimento ai principi costituenti norme fondamentali di riforma economico-sociale per le regioni a Statuto speciale, ha ritenuto prevalente l’individuazione “per astratto” dei principi de quibus piuttosto che una specifica individuazione letterale dei medesimi.

La legge introduce, inoltre, una modifica nelle modalità e nei tempi di entrata in vigore degli statuti comunali e provinciali. Mentre nella vecchia formulazione dell’art. 4 della Legge n. 142/90, fatto proprio dalla L.R. n. 48/91 (art. 1, lett. a), lo statuto entrava in vigore trascorsi trenta giorni dalla pubblicazione nel bollettino ufficiale della regione -pubblicazione che avveniva dopo il riscontro tutorio da parte del Co.Re.Co.-, in forza della nuova disciplina, la “legge fondamentale dell’ente locale” entra in vigore decorsi trenta giorni dalla sua affissione all’albo pretorio, ferma restando la disciplina relativa al controllo preventivo di legittimità dello stesso.

A seguito della “rivoluzione copernicana” nell’ambito della P.A. italiana, introdotta, a Costituzione invariata, dalla Legge n. 59/97 (c.d. “Bassanini 1”) e dal Decr. Lgs. n. 112/98, con le quali si è assistito ad un vero e proprio decentramento di funzioni dell’apparato centrale dello stato a favore delle autonomie regionali e locali, il legislatore ha formalmente introdotto il criterio della “sussidiarietà”, parametro divenuto fondamentale nell’attribuzione di nuove competenze agli enti locali: sicché, secondo tale indicazione di principio, sia lo stato centrale sia le regioni devono procedere al trasferimento di funzioni e competenze ogni qual volta ciò risulti necessario in relazione alle esigenze locali: il decentramento, pertanto, risulta essere legittimo soltanto nell’ipotesi in cui i bisogni locali richiedano un intervento, a livello locale, da parte degli organi di governo più vicini alla collettività amministrata.

Scompare del tutto la “delega” delle funzioni, prevista dalla Legge n. 142/90, che, però, continua a rimanere in vita nella Regione Siciliana, ove una gran quantità di atti e un elevato numero di procedure, posti in essere dagli enti locali territoriali minori, sono frutto proprio di “potestà” delegate da parte della Regione (per tutti, si ricorda la L.R. n. 1/79).

 

2. L’estensione delle disposizioni sul procedimento amministrativo ad organismi di diritto privato.

 

L’art. 4 della Legge n. 265/99 ha rivisitato due aspetti di rilevante importanti già contemplati nella previgente disciplina: il diritto del cittadino a far valere in giudizio le azioni ed i ricorsi spettanti al comune e l’estensione del concetto di atto amministrativo tradizionalmente conosciuto.

Con riferimento al primo aspetto, la Legge n. 142/90 consentiva ad ogni cittadino di esperire, dinanzi alle giurisdizioni amministrative (T.A.R., Consiglio di Stato e, in Sicilia, C.G.A., etc.), le azioni ed i ricorsi propri del Comune, cioè quelle attività che l’ente territoriale avrebbe potuto incoare nell’interesse della collettività amministrata.

Tale possibilità, limitata dinanzi ai soli giudici amministrativi, oggi viene estesa anche alle azioni ed ai ricorsi riguardanti ogni altra tipologia di giudizio. La norma pare abbia una valenza più codistico-procedimentale che di disciplina strictu sensu dell’attività dell’ente locale, sicché appare improbabile un’interpretazione tesa ad escluderne l’applicabilità anche in Sicilia, soprattutto se si tiene conto che vengono specificamente regolamentati aspetti tipicamente processuali: si pensi, ad esempio, alla disposizione della legge in esame che prevede l’esclusione del pagamento delle spese di giudizio da parte del privato cittadino, attore o ricorrente, quando l’ente locale intervenga in giudizio, aderendo all’azione o al ricorso proposti Si ritiene, infatti, che lo Statuto speciale non possa impedire l’efficacia di una disposizione di tipo processuale, anche perché riguardante quel “diritto di agire” che rientra proprio nello status di cittadino.

Analoga disposizione è contenuta nel comma 3 dello stesso articolo, laddove si consente alle associazioni ambientaliste di proporre azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario spettanti al comune o alla provincia e derivanti da danno ambientale. In tal caso, le spese legali inerenti l’azione, nell’ipotesi di soccombenza, gravano interamente sulle casse dell’associazione promotrice; in caso di vittoria -a contrario- vengono integralmente versate alle casse del comune o della provincia interessati.

Un’attenzione particolare merita il comma 2 dell’articolo in esame che va a modificare, non la Legge n. 142/90, ma l’altresì famosa Legge n. 241 dello stesso anno, recante norme generali sul procedimento amministrativo. Con tale disposizione, infatti, è stato esteso il diritto di accesso di cui all’art. 22, stessa legge, a tutti gli atti posti in essere dai concessionari di pubblici servizi ancorché soggetti di natura privatistica (S.p.A., S.r.l., etc.). Dall’entrata in vigore della Legge n. 265/99, dunque, il cittadino che dimostri di avere un interesse giuridicamente rilevante, potrà prendere visione ed estrarre copia anche degli atti di associazioni private.

L’estensione del diritto di accesso agli atti di soggetti privati, concessionari di pubblici servizi, ha esteso l’ambito di intervento della Legge n. 241/90, dapprima limitato alle sole pubbliche amministrazioni. Si è con ciò rivoluzionata la tradizionale definizione di atto amministrativo inteso come manifestazione formale di volontà posta in essere da una amministrazione nell’esercizio di una pubblica funzione. Con la nuova disciplina, quindi, atto amministrativo è considerato anche quello concernente la manifestazione di volontà di un soggetto esercente -in qualità di concessionario- un pubblico servizio, anche se diverso dalla pubblica amministrazione tradizionalmente intesa. E’ opportuno ricordare, inoltre, che la giurisdizione su tali atti non si appartiene più al giudice ordinario ma al giudice amministrativo, giuste le nuove competenze riconosciute a tale Autorità giurisdizionale dal Decr. Lgs. n. 80/98.

In relazione a ciò che ci occupa, si pone il problema se le indicate disposizione estensive del concetto di atto amministrativo possano avere applicazione in Sicilia. La risposta assume il carattere della certezza legislativa (la quale in Italia appare un mero paradosso!), probabilmente per una svista del legislatore. Ed infatti, la Legge 30 aprile 1991, n. 10, che recepisce la citata legge 7 agosto 1990, n. 241 (recante disposizioni in materia di procedimento amministrativo e di accesso agli atti della pubblica amministrazione) contiene quello che abbiamo già definito quale recepimento “dinamico”: di guisa che ogni modificazione che il legislatore nazionale apporta alla Legge n. 241/90 trova immediata vigenza in Sicilia anche in assenza di specifica attività legislativa recettizia da parte del legislatore regionale. (Per incidens, va detto che la detta Legge regionale n. 10/91, solo nel presente periodo, a distanza di quasi dieci anni, inizia ad essere (finalmente!) pienamente utilizzata dai cittadini contro l’inerzia e la mancanza di trasparenza nell’attività di talune branche dell’amministrazione nonché parzialmente seguita dalla stessa P.A. nell’emanazione dei propri atti.)

Tale normativa, che ha sostanzialmente recepito le disposizioni della L. n. 241/90, seppur con modificazioni in ordine a taluni aspetti (forse non graditi dal legislatore siciliano!), contiene, infatti, all’art. 37, quella disposizione di chiusura secondo cui, “per quanto non previsto dalla presente legge, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni della legge 7 agosto, 1990, n. 241, e successive modifiche ed integrazioni, ed i relativi provvedimenti di attuazione”; e, quindi, anche il nostro art. 4, comma 2, della L. n. 265/99, in esame.

 

3. Il nuovo ruolo dei Consigli comunali e provinciali e le novità riguardante le Giunte.

 

Ai Consigli viene, innanzitutto, riconosciuta una maggiore autonomia funzionale ed organizzativa. La legge (art. 11) indica, poi, nello statuto dell’ente, la sede ove vengono individuati i principi cui deve informarsi l’attività del consiglio comunale o provinciale, comprese le cause di decadenza per mancata partecipazione alle sedute.

La disciplina di dettaglio per il funzionamento dell’organo collegiale è rinviata al regolamento recante norme integrative. Questo, approvato a maggioranza assoluta, prevede, oltre a tutte le modalità inerenti la fase preliminare di presentazione delle proposte e dello svolgimento delle discussioni, anche la previsione del quorum di validità delle sedute ravvisato nell’obbligatorietà della presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati all’ente, salvo apposite maggioranze qualificate.

L’autonomia organizzativa è rafforzata dalla previsione di apposite risorse finanziarie necessarie per il funzionamento degli stessi consessi.

La presenza della figura del presidente del consiglio è stata estesa, previa espressa previsione statutaria, anche ai comuni con meno di quindici mila abitanti. In ogni caso, le funzioni di vice presidente, in assenza di diversa prescrizione dello statuto, sono esercitate dal consigliere anziano. Le citate innovazioni legislative presentano una radicale innovazione rispetto alla previgente disciplina statale ma anche rispetto alle disposizioni regionali siciliane che, in materia, risalgono alla famosa legge del 1963 (L.R. n. 16, comunemente conosciuta quale O.R.EE.LL).

L’ordinamento della Regione Siciliana, sul punto, pur facendo proprie le disposizioni della Legge n. 142/90, reca tuttavia alcune norme recanti una specifica regolamentazione del funzionamento dell’organo collegiale: numero di consiglieri necessario per la validità delle sedute, per la validità delle deliberazioni, disciplina dell’ufficio di presidenza del consiglio comunale e provinciale, cause di decadenza dalla carica per mancata partecipazione alle sedute, numero massimo degli assessori.

Numero legale per le sedute.

a) Ai fini di individuare il numero legale per la validità delle sedute, si computano i membri presenti al momento della votazione (anche se dichiarino di astenersi dalla stessa), non vengono calcolati, invece, i membri del collegio che si siano allontanati dall’aula prima della votazione.

b) Le sedute di prima e seconda convocazione risultano valide quando sia presente in aula la maggioranza assoluta dei consiglieri in carica.

c) Nella seduta di prosecuzione -che si tiene quando le prime due convocazioni sono risultate deserte- è sufficiente, per la validità delle deliberazioni, l’intervento dei due quinti dei consiglieri in carica.

Numero legale per la validità delle deliberazioni.

d) Le deliberazioni sono adottate quando conseguano il voto favorevole della maggioranza assoluta dei presenti (fra i presenti sono calcolati anche i membri che si astengono volontariamente dal votare, mentre non si calcolano quelli che si allontanino prima della votazione, compresi gli astenuti per incompatibilità).

e) Nel caso di parità di voti favorevoli e di voti contrari, la proposta di deliberazione è ritenuta respinta.

Ufficio di presidenza del consiglio comunale e provinciale.

f) La figura del presidente del consiglio comunale è stata istituita in Sicilia con L.R. n. 7/92, concernente il nuovo sistema elettorale e l’elezione diretta del sindaco (legge che ha il pregio -o il demerito?- di aver anticipato di qualche mese la riforma nazionale realizzata poi con Legge n. 81/93). La carica di presidente del consiglio, nella formulazione originaria, fu prevista per tutti i comuni, senza limiti dettati dal numero di abitanti, con l’espressa prescrizione di assoluta incompatibilità con la carica di sindaco.

E’ da rilevare, però, che, in sede nazionale, la legislazione ha fatto un passo in avanti rispetto alle norme regionali, avendo consentito ai consigli, in presenza di determinati presupposti, una maggiore autonomia funzionale, un’autonomia finanziaria e gestionale nonché il potere di decidere, attraverso lo strumento regolamentare, in ordine ad importanti aspetti concernenti il concreto funzionamento dell’organo. Tali ambiti normativo-regolamentari non sono, tuttavia, applicati in Sicilia in ragione delle vigenti disposizioni, sopra calendate, disciplinanti specificamente il funzionamento dei consigli siciliani.

Cause di decadenza dalla carica per mancata partecipazione alle sedute.

g) Anche per tale istituto è vigente una specifica normazione regionale che stabilisce, tassativamente, i casi nei quali possa essere attivata la procedura finalizzata alla pronuncia di decadenza, non potendosi attribuire la relativa disciplina alla competenza di statuti e regolamenti che non riproducano la normativa regionale (art. 173 L.R. n. 16/63).

Numero massimo degli assessori comunali e provinciali.

h) L’art. 11, comma 7, della L. n. 265/99 ha stabilito, altresì, il criterio per individuare il numero massimo degli assessori che ogni statuto deve prevedere, consentendo un’oscillazione del dato numerico sino ad un terzo (arrotondato aritmeticamente) del numero dei consiglieri comunali o provinciali e computando in questo calcolo anche il sindaco o il presidente della provincia. Nelle more dell’adozione delle prescritte norme statutarie, il comma successivo detta un regime transitorio. Nell’ordinamento siciliano, la disciplina prevista dall’art. 1, lett. e), della L.R. n. 48/91, come modificato dall’art. 24 della L.R. n. 7/92, consente agli enti di individuare, in sede statutaria, un numero massimo di assessori che varii al variare degli abitanti (per lo specifico dettato normativo e per la relativa casistica, si rimanda alla stessa legge).

 

4. Il bilancio di mandato.

 

Con la novella introdotta dall’art. 11, comma 10, della Legge n. 265/99, che ha aggiunto il comma 2 bis all’art. 34 della Legge n. 142/90, un’attenzione particolare il legislatore ha rivolto anche agli aspetti di programmazione posti in essere dall’ente locale.

In seno alla maggiore rilevanza data agli statuti, non solo negli aspetti ordinamentali ed organizzatori in senso stretto, si è voluto individuare l’obbligo del Presidente della provincia e del Sindaco, eletti direttamente dal corpo elettorale, di presentare al consiglio comunale, entro il termine previsto dallo statuto, “le linee programmatiche relative alle azioni ed ai progetti da realizzare nel corso del mandato”, con verifica periodica da parte dell’assemblea civica.

La disposizione ha, pertanto, creato una sorta di collegamento tra il programma elettorale e la programmazione -in Italia, a valenza quinquennale- predisposta dall’amministrazione. Diversi commentatori hanno ravvisato la necessità che lo statuto preveda anche forme di pubblicizzazione di tali linee programmatiche, al fine di consentire, nel corso della relativa formazione (e definizione) e nel perfezionamento delle medesime in epoca successiva alle avvenute elezioni, un’adeguata partecipazione da parte dei cittadini.

Appare opportuno segnalare, però, che la citata disposizione non ha superato l’incongruenza derivante dalla presenza nell’ordinamento di un bilancio pluriennale degli enti locali, con carattere autorizzatorio, rispetto ad esercizi finanziari che possono andare oltre la durata del mandato dell’organo politico, sicché, secondo l’attuale ordinamento finanziario e contabile, in taluni casi, il sindaco neo eletto si troverebbe a porre linee programmatiche che coprano una parte molto ridotta del suo mandato, quando le risorse siano state già imputate dalla precedente legislatura ad interventi diversi da quelli in atto programmati.

Si badi bene che i consigli comunali e provinciali, di fronte alla previsione astratte delle norme di legge, non sono tenuti al rispetto dei programmi dell’amministrazione attiva sicché la relativa “vincolatività” può anche venir meno rispetto agli atti che l’ente è tenuto a formare (piano esecutivo di gestione, bilancio annuale e pluriennale, programma triennale delle opere pubbliche, etc).

In Sicilia, una apposita previsione legislativa (L.R. n. 7/92) sancisce che il consiglio comunale prenda atto dell’operato dell’esecutivo attraverso la discussione della relazione sullo stato di attuazione del programma che, semestralmente, il sindaco ed il presidente della provincia sono tenuti a comunicare al Consiglio. Il programma, cui la legge fa riferimento, è quello reso noto nel corso della competizione elettorale: lo stesso, per le medesime considerazioni di cui sopra, sembra non assumere alcuna vincolatività giuridica rispetto all’operato dell’amministrazione, non solo perché il consiglio è solo tenuto esclusivamente ad esprimere le proprie valutazioni su quanto oggetto di trattazione ma anche perché il mancato rispetto della norma non è tutelato da alcuna sanzione.

 

5. La gestione del personale e le disposizioni in materia di contratti.

 

Una nuova disposizione ha ulteriormente modificato l’art. 51 della Legge n. 142/90 costituente il cardine della riforma che ha interessato gli enti locali territoriali negli ultimi due anni.

Dopo l’intervento contenuto nell’art. 6, comma 2, della Legge n. 127/97 (c.d. “Bassanini bis”) e le modifiche apportate dall’art. 2 della Legge n. 191/98 (c.d. “Bassanini ter”), il legislatore è intervenuto aggiungendo un insolito comma “01” (!!!), che precede il comma 1, dello stesso art. 51.Tale disposizione ha prodotto l’auspicata abrogazione dell’art. 2 del D.P.R. n. 347/83, consentendo pertanto alle amministrazioni di dimensionare, sia sul piano qualitativo che su quello quantitativo, le proprie dotazioni organiche modellandole sulle attività da svolgere, nel rispetto dei soli limiti posti dal bilancio, unitamente al venir meno dell’obbligatorietà (tipica delle “defunte” piante organiche) di una struttura rigida legata solo ai dati demografici dell’ente e non al complesso di funzioni e competenze specifiche, legate anche ad esigenze locali diverse da quelle puramente dimensionali. La riorganizzazione, attraverso la previsione di nuovi posti direttivi o dirigenziali, è oggi legata alle capacità di bilancio ed al rispetto della contrattazione collettiva nazionale.

La soppressione dell’art. 2 del D.P.R. 347/83 è stata resa necessaria dal bisogno di rendere le disposizioni anteriori alla stipula del primo contratto collettivo di lavoro per il personale degli enti locali maggiormente aderenti alle innovazioni riguardanti sia la materia del personale sia quella inerente i rapporti tra gli organi politici e l’apparato burocratico (separazione tra politica e gestione).

Non appare superfluo sottolineare che la maggiore autonomia di cui dispongono ora gli enti territoriali minori nel determinare il loro assetto strutturale non può essere scevro di alcune indicazioni che gli enti stessi debbono tenere in debita considerazione.

Ogni variazione degli organigrammi, infatti, deve essere legata agli obiettivi indicati negli strumenti di programmazione principali (relazione previsionale e programmatica e piano esecutivo di gestione), sicché ogni comportamento tendente a nuove istituzioni di posti apicali, oltre a quelli stabiliti in relazione alle reali necessità, ancorché legittimo sul piano formale, può far incorrere in decisioni caratterizzate da antieconomicità ed irragionevolezza, con conseguente responsabilità da parte di chi pone in essere siffatte azioni.

Risulta necessario, dunque, incentivare gli organi gestionali in un’ottica di maggiore qualificazione del personale direttivo, con o senza funzioni dirigenziali, ma tenendo sempre presenti i limiti derivanti dalla spesa pubblica.

La predetta integrazione all’art. 51 della Legge n. 142/90, disposta dalla norma in esame, riteniamo che possa trovare efficacia anche nell’ordinamento degli enti locali della Regione Siciliana.

In materia di attività negoziale, la Legge n. 265/99, va affermato che scompare la vecchia “deliberazione a contrattare”, sostituita dalla determinazione a contrattare. L’innovazione, non solo terminologica, assume una certa pregnanza poiché riferita alla netta separazione, sopra ricordata, tra funzioni di indirizzo, programmazione e controllo (propri dell’organo politico) e funzioni di gestione (di competenza degli uffici).

Il trasferimento dell’attivazione della procedura contrattuale dalla Giunta Municipale (e, in alcuni casi, dal Consiglio) al “responsabile del procedimento di spesa” impegna gli amministratori a porre in essere una programmazione seria ed articolata più di quanto non facessero in precedenza.

Il responsabile del procedimento di spesa, figura diversa dal tradizionale responsabile del procedimento di cui alla L. n. 241/90, può attivare le procedure contrattuali se e nei limiti consentiti dagli strumenti di programmazione, prima fra tutti, la relazione previsionale e programmatica e, quindi, il piano esecutivo di gestione.

Con l’innovazione legislativa introdotta, gli organi collegiali non risultano più titolari di alcun potere in ordine alle modalità di scelta del contraente o sulle clausole essenziali del contratto. L’approvazione di atti quali capitolati, schemi di concessione, lettere d’invito, bandi è adesso opera del dirigente.

Il significato attuale della disposizione (art. 56 della L. n. 142/90), modificata dall’art. 14 della Legge n. 265/99, a nostro avviso, era già operativo anche nella Regione Siciliana, in virtù dell’art. 45 del Decr. Lgs. n. 80/98, con il quale, era stato chiaramente ed inequivocabilmente affermato che l’adozione di tutti gli atti di natura gestionale, che le disposizioni legislative precedenti assegnavano alla competenza degli organi politici, dovessero intendersi transitati nella sfera di attribuzioni propria dell’apparato burocratico. Di guisa che, avendo l’intero procedimento negoziale carattere meramente gestionale ed attuativo di quanto, in maniera più o meno specifica, previsto negli atti di programmazione, già sin dal 1998 (data di emanazione del detto decreto), il procedimento in questione avrebbe dovuto collocarsi tra le competenze dell’organo gestionale.

I regolamenti comunali, dunque, andrebbero oggi rivisti alla luce delle superiori considerazioni.

Un’ultima notazione, con riferimento alla mutata competenza, è quella che concerne la conseguenziale funzione del P.E.G. (piano esecutivo di gestione). Molti enti, infatti, hanno utilizzato la parte descrittiva dello strumento di programmazione gestionale quale “maxi deliberazione a contrattare”. Un tale uso non è consentito proprio per le trasferite competenze al dirigente ed anche in considerazione di quanto si diceva sopra, circa l’immediata applicabilità in parte qua del Decr. Lgs. n. 80/98.

 

6. I pareri sulle proposte di deliberazione e l’assunzione degli impegni di spesa da parte degli organi politici.

 

Sulla disciplina dei pareri da apporsi sulle proposte di deliberazione, va evidenziato come l’art. 13, comma 3, della Legge n. 265/99, sostituendo il primo comma dell’art. 53 della legge 142/90, ha snellito ulteriormente (tenuto conto della Legge n. 127/97 abolitiva del parere di legittimità del segretario comunale e provinciale) il procedimento di formulazione delle proposte di deliberazione agli organi collegiali.

La novella legislativa ha previsto che:

a) il parere di regolarità tecnica sulle proposte di deliberazione da sottoporsi alla giunta o al consiglio va apposto sempre, ad eccezione dei casi in cui la proposta non costituisca mero atto di indirizzo;

b) il parere di regolarità contabile va invece apposto dal responsabile del servizio di ragioneria qualora la proposta di deliberazione comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata.

Per ciò che attiene il parere di regolarità contabile, va detto che la formulazione della norma ha accolto il principio secondo cui l’apposizione del parere di regolarità contabile non è obbligatoria per tutte le proposte di deliberazione ma solo per quelle che abbiano un diretto collegamento con il bilancio, ossia per tutti quei provvedimenti che prevedano direttamente od indirettamente una diminuzione d’entrata o un impegno di spesa.

Avendo, quindi, il novellato art. 53, comma 1, della Legge n. 142/90 fatto riferimento all’assunzione di impegni di spesa mediante “deliberazione”, torna vivo il problema se gli organi politici possano assumere o meno impegni di spesa contenuti in provvedimenti di loro competenza. A modesto avviso di chi scrive, non avendo il Decr. Lgs. n. 77/95 previsto la competenza esclusiva dei responsabili dei servizi in ordine all’assunzione di impegni, almeno per la giunta comunale questa non è mai venuta meno soprattutto con riferimento agli atti che necessariamente esplichino effetti sul bilancio. La nuova disposizione dirime una forte diatriba fra studiosi e commentatori, oltre che fra gli operatori della pubblica amministrazione locale. Di conseguenza, ogni atto emanato dall’organo politico, comportante un impegno di spesa o una diminuzione d’entrata, senza l’assunzione del relativo impegno ovvero la presa d’atto della minore entrata (ed eventuale copertura della stessa), diviene causa di aggravamento del procedimento amministrativo, poiché richiede, oltre il provvedimento della giunta, anche il successivo intervento del responsabile del servizio: quest’ultimo, in quanto atto che aggrava il procedimento, è da ritenersi illegittimo ai sensi della Legge n. 241/90.

In riferimento all’ordinamento regionale siciliano, occorre premettere che, per espressa previsione legislativa, “l’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali è riservato alla legge dello Stato”, sicché ogni disposizione statale in materia di contabilità e programmazione economico-finanziaria risulta avere efficacia immediata, ancorché in assenza di puntuale recezione, per effetto di tale rinvio dinamico alla normativa statale.

L’art. 53, comma 1, della Legge n. 142/90, richiamato dalla L.R. n. 48/91, rimane in vigore -ancora oggi- nell’originaria formulazione, compresi i commi che sanciscono l’obbligatorietà del parere di legittimità del segretario, non avendo trovato -la norma che sopprime tale parere obbligatorio, contenuta nella Legge n. 127/97- idoneo recepimento.

Considerato che l’applicabilità nella Regione Siciliana delle disposizioni in materia di ordinamento finanziario e contabile, come detto, dovrebbe essere automatica, l’inciso concernente il solo parere di regolarità contabile vi troverebbe efficacia. E così, in effetti, è. L’uso del condizionale è d’obbligo perché in bizantinismi il legislatore regionale è insuperabile maestro.

Basti ricordare che, con l’art. 2 della L.R. n. 23/98, il parlamento regionale ha fatto propria -fra le altre- la disposizione di cui all’art. 6, comma 11, della Legge n. 127/97, a sua volta modificatrice dell’art. 55, comma 5, della Legge n. 142/90. Quest’ultimo, testualmente, stabiliva che “gli impegni di spesa non possono essere assunti senza attestazione della relativa copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio finanziario. Senza tale attestazione l’atto è nullo di diritto”. Tale disposizione, propria dell’ordinamento finanziario e contabile, per quanto detto sopra, avrebbe dovuto trovare immediata applicazione in Sicilia. Tuttavia, il legislatore “bizantino” ha operato, anche se non vi era alcun bisogno, un formale recepimento dell’art. 6, comma 11, cit., avvenuto con L.R. n. 23/98, secondo cui “i provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio finanziario e sono esecutivi con l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria”.

Poiché, a norma dell’art. 189 della L.R. n. 16/63, ogni atto deliberativo che comporti delle spese deve indicare i mezzi finanziari con cui farvi fronte, l’attestazione di copertura finanziaria (pur essendo de jure abrogata) continua ad essere comunque necessaria (e, pertanto, non perde alcuna utilità), considerato che l’indicazione dei detti mezzi finanziari non può essere resa se non con tale strumento.

 

7. Considerazioni finali in ordine ai permessi degli amministratori locali.

 

L’art. 24 della Legge n. 265/99, in tema di permessi dei lavoratori dipendenti eletti negli organi collegiali degli enti locali, appare di immediata vigenza, considerato che la disciplina afferisce direttamente al rapporto di lavoro che, a seguito del Decr. Lgs. n. 80/98, risulta sempre di natura privatistica. Un accoglimento di tale interpretazione da parte degli operatori degli enti locali dovrebbe far scattare immediatamente la predisposizione di idonee previsioni di bilancio per il rimborso degli oneri sostenuti dai datori di lavoro “pubblici”, per i quali, fino ad ora, tale ristoro non era ammesso.