inserito in Diritto&Diritti nel novembre 2004

Monopolio legale e abuso di posizione dominante

di Avv. Luisa Rotondo

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Sommario: 1. L'obbligo a contrarre 2. Contenuto dell'obbligo legale di contrarre. 3. Tutela dell'interesse dell'utente. 4. Le condizioni di monopolio. 5. I destinatari dell'obbligo di contrarre. 6. Ambito d’applicazione dell’ art. 2597 c.c.. 7. L'obbligo di contrarre tra la costruzione pubblicistica e privatistica. 8. I limiti dell’obbligo a contrarre. 9. I criteri per attuare la parità di trattamento. 10. Art. 2597 c.c. e monopolio di fatto. 11. Art. 2597 c.c. e abuso di posizione dominante. 12. Violazione dell'obbligo a contrarre. 13. Tutela inibitoria e cautelare. 14. Inadempimento dell’ utente.

1. L'obbligo a contrarre costituisce una categoria descrittiva adottata in dottrina per configurare quella fattispecie in base alla quale un soggetto è obbligato a porre in essere un vincolo contrattuale, che trova la sua fonte sia in un accordo d’origine pattizio sia in una fonte legale.

Gli interessi che formano la sfera giuridica di un soggetto sono disciplinati dell’autonomia privata, cioè dalla capacità d’autoregolarli e di stabilire come perseguire un determinato scopo. Fondamentale corollario del principio dell’autonomia privata è la libertà di contrattazione, o più genericamente, la libertà d’iniziativa e di determinazione del contenuto dei negozi, nei limiti che l'ordinamento riconosce (art. 1322 cod. civ.).

Eccezione a siffatta regola è l'obbligo legale a contrarre, vale a dire obbligazione imposta da una norma giuridica ad un soggetto e volta alla stipulazione di un contratto, le cui clausole essenziali garantiscono la serietà del vincolo e sono a priori determinate: in sintesi, con formula ellittica, un’obbligazione ad obbligarsi.

La dottrina italiana delinea l’obbligo legale a contrarre come una figura unitaria, (definita dalla dogmatica francese come contratto imposto) nella quale racchiude ipotesi eterogenee che possono dipendere da esigenze sostanziali di vario genere, valutate in sede legislativa. I due casi più noti contenuti nel codice civile sono l’obbligo di contrattare in caso di monopolio, previsto dall'art. 2597.c.c. e quello di accettare le richieste di trasporto, introdotto dall'articolo 1679 cod. civ, mentre altri si rinvengono nella disciplina speciale quali: l’assicurazione obbligatoria prevista per i natanti ed i veicoli a motore (L.24 dicembre 1969 n.990); a carico di chi vende beni dei quali è fissato il prezzo massimo (art.19, r.d. 22 aprile 1943 n.245), tariffe imposte ad altri concessionari di pubblici servizi diversi dal trasporto (art. 16 T. U. V-1813, n. 118); per i servizi telegrafici (art. 16 T. U.. 3-V-1903, n. 196 e art. 2 R. D. 3-X-1929, n. 1887); per i servizi telefonici; per i pubblici esercizi (alberghi, trattorie, caffè, rimesse, ecc.) previsti dagli art. 86 e segg. del T. U. 18-VI-1931, n. 773 e dalle Leggi di Pubblica Sicurezza; obblighi a carico dei datori di lavoro di stipulare contratti individuali con gli appartenenti alle categorie protette (L. 2 aprile 1968 n.482); quelli dell''imponibile di mano d'opera in agricoltura (L. 16/10/42 n.929).

Sono considerati dalla dottrina obblighi legale a contrarre altre ipotesi normative non in relazione dell’espressa previsione di legge, ma guardando alla sostanza del fenomeno. Si è affermato che, ove sussistano i presupposti per la costituzione di una servitù coattiva, il titolare del c.d. fondo servente, alla stessa stregua di colui che è vincolato contrattualmente ad un obbligo a contrarre, non abbia altra scelta che quella di mettersi d’accordo con l'avente diritto in ordine alla realizzazione della servitù ovvero subire la sua costituzione per mezzo della sentenza del giudice (art. 1032).

Lo stesso ordine d’argomentazioni si richiama per la comunione forzosa del muro sul confine, (art. 1032 Cod. Civ.) e per l'obbligo di ritrasferire al mandante i beni immobili, o mobili inscritti in pubblico registro, che l'art. 1706, capov., cod. civ., fissa a carico del mandatario senza rappresentanza. Sono menzionate anche le fattispecie che vanno sotto il nome di «diritti di prelazione», nelle quali la sequenza, pur essendo alquanto diversa, fornisce forti elementi d’assonanza con quella che caratterizza l'obbligo a contrarre. A titolo d’esempio, nel trasferimento di fondi concessi in affitto a coltivatori diretti o mezzadri, quale che sia la qualificazione più propria da assegnare all'obbligo che grava sul proprietario che intenda trasferire il proprio fondo a terzi, è certo che, a fronte di detto obbligo, vi è il diritto dell'affittuario di essere preferito nell'acquisto, a parità di condizioni, ed è assistito da una tutela reale o specifica nei riguardi del terzo acquirente del fondo (c.d. diritto di riscatto: art. 8 della l. 26 maggio 1965 n. 590 mod. dall’art. 7 l. 14 agosto 1971 n. 817)

Il fenomeno della cosiddetta coazione a contrarre, che ha radici nella tradizione romanistica, è stato studiato come vincolo che nasce senza alcuna cooperazione del debitore e, anche quando la legge prevede l’assunzione volontaria dell’obbligo, è da escludere che esso sia espressione dell’autonomia contrattuale.

Questo primo approccio teoretico è stato confutato perché si è obiettato che non sembra esatto eliminare la configurabilità del negozio solo per la genesi coattiva dell'obbligo legale, giacché non è vietato definire un obbligo, anche legale, a mezzo di un negozio, ben potendo anche un atto dovuto essere espressione dell'autonomia privata. L'obbligo tende a far contrarre, piuttosto che a far eseguire un’obbligazione, ed è volto a creare un certo rapporto attraverso una fonte negoziale, anche se imposto dalla legge.

 

2. Si è discusso molto sul problema attinente al contenuto dell'obbligo legale di contrarre, dando vita a contrapposti orientamenti dottrinali. Il primo sostiene che esso si concreta nell’obbligo dell’impresa di fornire la prestazione finale (bene o servizio) e nega che per il sorgere di esso sia necessaria la mediazione negoziale. Secondo quest’opinione, che si ricollega storicamente alla teoria dei rapporti contrattuali di fatto, il diritto del richiedente ha direttamente ad oggetto la prestazione del bene o del servizio.

Una variante di detta ricostruzione è la tesi che distingue l’obbligazione del monopolista legale che ha ad oggetto un dare o un fare da quella che consiste nel trasferire la titolarità di un diritto. In questo caso la mediazione negoziale è giustificata dall’immediata efficacia traslativa che l’ordinamento attribuisce al contratto.

Questa corrente teoretica è stata criticata per le sue conseguenze pratiche perché l'obbligo di fare acquistare un bene o un servizio, per essere eseguito, presuppone un accordo fra l'imprenditore ed il richiedente, con il quale si determina in maniera vincolante l'oggetto e le modalità dell'acquisto. Il primo non può espletare il proprio compito di fornire la prestazione finale, se non ci fosse la mediazione negoziale a stabilirne gli elementi costitutivi.

Altra parte della dottrina, considerata intermedia, attesta che la richiesta del singolo si deve intendere come atto di esercizio di un diritto potestativo, il quale produce per il monopolista sia l'obbligo di erogare la prestazione e sia quello strumentale di contrattare. La soddisfazione dell'interesse dell'utente si attua mediante un meccanismo graduale di tutela, ossia attraverso una sequenza di fatti che ha come primo atto la richiesta dell'interessato e come termine la volizione consensuale o giudiziale dell'oggetto, in maniera analoga a ciò che avviene in materia di servitù coattive (art. 1032 c.c.), con la possibilità di attivare misure di esecuzione forzata e, ove fosse possibile, si può chiedere il totale ristoro dei danni.

L’enunciato esposto non riesce a svincolare il comportamento del monopolista dal paradigma dell'obbligo in quanto ammette che la determinazione finale dell’oggetto può avvenire in forma contrattuale o, in caso di disaccordo delle parti interessate, mediante una sentenza costitutivo-determinativa, giacché la sola manifestazione di volontà non è sufficiente ad attuare l’oggetto del diritto soggettivo, in applicazione della dicotonomia potere-soggezione.

 

3. Per una valutazione critica delle teorie menzionate, occorre esaminare le varie opinioni formulate in ordine alla tutela dell'interesse dell'utente alla prestazione in regime di monopolio legale anteriormente alla richiesta alla quale si riferisce l’art. 2597 c.c., che impone un dovere al monopolista di comportarsi in modo da non pregiudicare l'attuazione di quell'interesse. Secondo una prima tesi, la reale possibilità di ammissione al bene o al servizio prima della richiesta non prelude la nascita del vincolo obbligatorio a carico del debitore in senso pieno, con immediata attribuzione di un diritto soggettivo, anche se essa deve imputarsi a un soggetto indeterminato quale la collettività dei consumatori.                          

Secondo un'opinione diversa, l'indeterminatezza del soggetto indicato impedisce la nascita dell’obbligazione e l'utente è titolare, nella fase interinale, di un interesse legittimo di diritto privato, la cui violazione si manifesta all’atto della richiesta e determina una responsabilità extracontrattuale dell’imprenditore.

Ad essa è stato obiettato che non può sussistere obbligazione quando il soggetto attivo è indeterminato e non vi può essere responsabilità extracontrattuale in quanto la violazione del dovere preparatorio rientra nelle manifestazione del comportamento diligente, che il debitore deve avere in attuazione dell’art.1176 c.c. e, pertanto, costituendo oggetto dell’obbligo, il tipo di responsabilità è contrattuale.

Un'altra trattazione sostiene che nella fase anteriore difetta sia il requisito della determinabilità del soggetto portatore dell'interesse sia l’attualità di quest’ultimo, ma essa, per spiegare l’acquisto del diritto, ammette che il vincolo nasce come fattispecie a formazione successiva. Il compimento dei doveri preparatori, in particolare, costituisce la prima fase del procedimento in quanto, se da una parte essi sono strumentali all’ammissione al bene o al servizio, dall'altra non s’identificano con l’effetto finale, consistente nell'obbligazione di prestarle, che si presenta come atto conclusivo dell’iter costitutivo. L’obbligazione, considerata nella sua unità, è definita in itinere.

Esponenti di diverso orientamento teoretico hanno replicato che è infondato, sotto il profilo classificatorio, il riferimento al rapporto obbligatorio in itinere giacché se l'obbligazione richiede la determinatezza della sfera alla quale ricondurre l'interesse protetto, ossia l’individuazione del titolare del diritto di credito alla prestazione, finché costui rimane indeterminato non sussiste il relativo rapporto, per cui non si può parlare di obbligazione in itinere. La responsabilità fatta valere dall'utente discriminato dipende dall’inadempimento derivante dalla sua richiesta e non dalla violazione dei doveri preparatori, i quali non integrano una fattispecie a formazione successiva, ma impongono all’imprenditore di disporre dei mezzi sufficienti che gli consentiranno di soddisfare l'interesse dell’utente e si pongono sono autonomi rispetto all'obbligo legale di contrarre, non concorrendo alla sua nascita.

Non esiste alcun rapporto obbligatorio fra l’imprenditore e l'utente prima ed indipendentemente dalla domanda del bene o del servizio da parte di quest'ultimo, e quindi, si è sostenuto che l'art. 2597 c.c. configura un obbligo di contrarre in senso stretto, composto da una dichiarazione di volontà necessaria alla stipulazione del contratto. Tale dichiarazione ha carattere finale, cioè costituisce la prestazione principale imposta dalla legge all’impresa, confermato anche dall’elemento lessicale dell’articolo esaminato, il quale dispone che l'esercente un'impresa in condizione di monopolio legale ha l'obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell'impresa, osservando la parità di trattamento.

 

 

4. Agisce in condizioni di monopolio non solo l'impresa che goda di un'esclusiva nell'offerta di beni o servizi in sostanza insostituibili, ma anche quella che sia titolare di un'esclusiva nell'offerta di beni o servizi non facilmente sostituibili da parte dei consumatori. La dottrina è unanime nel ritenere che il termine di monopolio indichi una situazione caratterizzata dall'esistenza di un solo produttore di un particolare bene o servizio in un determinato mercato e il problema che si pone è quello di stabilire quando si sia in presenza di un individuato bene o servizio e quali siano i criteri da adottare per delimitare l'ambito di un mercato. Secondo una prima impostazione si dovrebbe ritenere che un imprenditore operi in condizione di monopolio quando a lui solo sia concesso svolgere un’attività prevista dal legislatore o dall’autorità amministrativa, ovvero quando sia vietata ad altri l'attività svolta dal beneficiario dell’esclusiva. Questa nozione, che trova riscontro nelle definizioni di monopolio fiscale elaborate dalla dottrina amministrativistica e tributaristica, è stata sottoposta a critica da diversi Teorici i quali sostengono che essa conduce a risultati assurdi e inaccettabili, in quanto si dovrebbe ritenere che alla base della condizione di monopolio di diritto, di cui all’art. 2597 cod. civ., vi è una situazione economica diversa da quella valutata dalla dottrina e giurisprudenza quando parlano di monopolio di fatto, mentre l’indagine teoretica ha dimostrato che la differenza tra i due tipi di monopolio attiene solo alla diversa tutela giuridica attribuita alla medesima posizione economica.

Altro insegnamento teorico asserisce che il termine monopolio deve essere interpretato in base alla ratio e alla funzione dell'obbligo di contrattare a carico del monopolista, che è quella di eliminare il rischio di non vedere soddisfatto il bisogno del fruitore, che potrebbe subire dalla soppressione della concorrenza sul mercato, nei confronti del quale egli indirizza la propria domanda. Il concetto di monopolio deve dunque essere inteso come assenza di concorrenza in senso giuridico, attribuendo al consumatore la certezza che la propria domanda sia accolta, data l’impossibilità di non poter contare su una pluralità d’offerte. Questa figura non ricorre ogniqualvolta l'esistenza di un solo produttore o commerciante sia il naturale risultato di un certo contesto economico, essendo invece necessario che tale situazione sia direttamente autorizzata e tutelata dall'ordinamento, poiché solo così il monopolista potrà agire contro chiunque voglia intraprendere la medesima attività che forma oggetto dell'esclusiva. Irrilevante sarà la natura della fonte (legge, regolamento, atto amministrativo) da cui gli deriva il riconoscimento specifico della sua posizione; il tipo di tutela (ordinaria, amministrativa) accordatagli; l'ambito territoriale della tutela, potendo questa coprire tutto il mercato nazionale, ovvero limitarsi ad uno o più mercati locali, o il mercato generale di determinati beni o servizi, quando sia frazionato (più o meno artificialmente) in più mercati entro i quali vi sia un solo operatore abilitato alla vendita.

Partendo dal presupposto esposto dalla dottrina precedente, (cioè che il concetto di monopolio deve essere inteso come assenza di concorrenza in senso giuridico) si dovranno dunque utilizzare, per stabilire la portata dell'art. 2597 cod. civ., i criteri enucleati dalla giurisprudenza e dalla dottrina per definire il mercato rilevante sul quale misurare la posizione dominante di un'impresa, l'esistenza o meno, quindi, di una situazione di concorrenza. Applicandoli, la condizione di monopolio ricorrerà quando in un determinato periodo, sul mercato nazionale o su altri mercati geograficamente limitati, non vi sia più di un imprenditore che ad un determinato livello economico offra o domandi beni o servizi suscettibili di soddisfare, anche in via succedanea, lo stesso bisogno o impellenze simili e complementari. Adottando la terminologia elaborata dalla giurisprudenza antitrust, si può affermare che un imprenditore opera in regime di monopolio quando, ad un dato livello economico, e in un dato tempo, le variazioni percentuali della domanda e/o offerta di beni o servizi da lui scambiati non provocano, sul territorio nazionale o nelle zone più limitate in cui egli operi, apprezzabili e rilevanti variazioni sulla domanda e/o offerta d’altri beni o servizi (criterio della cross elasticity). In tal modo i contorni della fattispecie in esame, comunemente ritenuti netti e sufficientemente individuati, sfumano sino ad assumere certi caratteri tipici delle c.d. clausole generali, e la fisionomia dell'art. 2597 c.c. muta profondamente: non più una norma rigida e precisa, ma una norma elastica, dai confini generici e comunque più rispondente all’esigenze economiche e giuridiche della società.

 

5. I destinatari dell'obbligo di contrarre sono anzitutto i consumatori, non importa se finali o intermedi, mentre dubbi possono insorgere sull'eventuale diritto di distribuzione delle imprese, che acquistino il prodotto per rivenderlo, non potendo impedire ad un'impresa, sia pure monopolistica, di scegliere, ed eventualmente di modificare, il sistema di distribuzione dei propri prodotti, quali: vendita diretta al consumatore, o ai commercianti al minuto, o ai grossisti; di utilizzare o meno di ausiliari autonomi ecc. Una prima soluzione teoretica ha ammesso che, se l'impresa monopolistica ha adottato un apparato che garantisce al parità di trattamento, può scegliere di distribuire direttamente i propri prodotti o di fornirli a tutti i grossisti e/o a tutti i dettaglianti che ne facessero richiesta, ed è anche possibile che essa effettui una concessione esclusiva di vendita (c.d. distribuzione selettiva). Tale soluzione è stata ritenuta inopportuna in relazione a quei casi in cui la distribuzione richiede una preparazione tecnica particolare, ammettendola solo quando vi sia una giustificazione commerciale oggettiva.

 

6. Disputa teoretica si è incentrata circa l’applicazione della norma in quanto in primo momento il vincolo dell’obbligo a contrarre nacque in riferimento al monopolio di enti e aziende pubbliche, e alcuni settori della dottrina ritennero che solo nei loro confronti la disciplina poteva avere efficacia.  

Gli studiosi della materia hanno evidenziato che soggetto attivo della fattispecie è ogni imprenditore (i cui elementi strutturali riguardanti la sua definizione, l’attività e la modalità di esercizio sono previsti e disciplinati dall’art.2082 c.c. e ss.), sia esso monopolista legale privato o ente pubblico, indipendentemente dal fatto che l’attività d’impresa sia assunta a funzione istituzionale dell’ente o sia esercitata in via accessoria e sussidiaria. Ciò in considerazione del fatto che non tutti i concessionari sono monopolisti in quanto la pubblica amministrazione può decidere di svolgere un servizio attraverso più concessionari in concorrenza tra loro, e l’art 2597 c.c. sarà applicabile solo al titolare del diritto esclusivo, tutelabile sia verso la P. A. sia direttamente verso i terzi.

La dottrina tradizionale esclude dalle tipiche condizioni di monopolio di diritto quella del titolare di un brevetto per invenzione poiché quando si parla di privativa industriale di monopolio, normalmente si ha riguardo ad un prodotto determinato e specifico che crea una situazione nella quale permane la possibilità di concorrenze.

Diversi Autori, criticando la tesi precedente, hanno osservato che tutto ciò avviene normalmente, ma non necessariamente, in quanto non si può escludere che la privativa copra non già determinate caratteristiche tecniche di un prodotto, ma una serie di qualità specifiche tali che allo stato attuale della scienza non sia possibile neppure la produzione di beni succedanei. In tale situazione la privativa assicura un’esclusiva nella produzione e/o nel commercio di un genus di prodotti e, quindi, una condizione di monopolio legale, poiché la facoltà di svolgere l'attività di produzione e commercio in regime di esclusiva discende dall’atto amministrativo di concessione del brevetto, che altra funzione non ha se non quella di individuare, nel caso concreto, il titolare di una tutela prevista in via generale dalla legge.

 

7. Un vivace dibattito dottrinale ha avuto come oggetto la natura dell’obbligo legale a contrarre ed è sfociato nella contrapposizione tra la costruzione pubblicistica e quella privatistica. La prima considera le norme come creatrici solo di doveri dell'imprenditore verso la pubblica amministrazione, aventi ad oggetto lo svolgimento dell'attività e il raggiungimento di determinati fini. Rispetto a tali doveri l’utente è titolare di un mero interesse di fatto, onde, in caso violazione degli stessi può soltanto attivarsi, presso la pubblica amministrazione, per sollecitare l'adozione di sanzioni pubblicistiche. L'utente godrà di una tutela giuridica a titolo di interesse legittimo qualora una determinata prestazione sia resa non in forma contrattuale, ma in quell’amministrativa, secondo il modulo della domanda dell'utente e dell'atto di ammissione da parte dell'ente fornitore della prestazione.

La seconda definisce i doveri di contrattare e l’osservanza della parità di trattamento come norme limitatrici dell'autonomia privata imprenditoriale e, quindi, le disposizioni relative agli obbligo a contrarre riguardano i rapporti tra imprenditore e utente produttive di pretese immediatamente azionabili dal consumatore nei confronti del produttore.

Vi sono argomenti di logica sistematica favorevoli alla tesi privatistica in quanto la collocazione e l’elemento teolologico dell’art. 2597 c.c. inducono a ritenere che la norma faccia riferimento a un diritto dell’utente ed a un obbligo del monopolista. Uguali dissertazioni sono sostenute per la fattispecie prevista dall’art 1679 c.c. che stabilisce l’obbligo di contrarre per le imprese di trasporto che esercitano pubblici servizi di linea. Secondo una parte della dottrina l’art. 1679 c.c. costituisce applicazione del principio generale contenuto nell’art. 2597 c.c. e che, quindi, vi sarebbe un rapporto di genere a specie tra le stesse. 

Si è sottolineato che la ratio dell'art. 1679 c.c. è da ricercarsi nell'organizzazione di pubblico servizio di quell'attività, piuttosto che nell'eventuale mancanza di concorrenza, soluzione avvalorata dal dato storico e da quello testuale, ricavabile dall'art. 2951, comma 4° c. c, che disciplina la prescrizione dei diritti verso gli esercenti pubblici servizi di linea indicati dall’articolo in questione, dovendo dedurre che l’ambito di applicazione delle due norme è autonomo. Questa rielaborazione ha un'importanza fondamentale perché distingue lo spazio nel quale ha efficacia l'art. 2597 c.c. da quello dell'art 1679 c.c., precisando che la situazione monopolistica è un aspetto non essenziale, giacché l'esclusiva è un carattere normale ma non necessario della concessione, e che i trasporti di linea, in molti campi, subiscono una concorrenza effettiva da parte di trasporti privati non di linea.

 

8. L'obbligo di contrarre è giuridicamente incomprensibile, se non se ne precisano il contenuto e i limiti, e il venirne meno può causare il rischio di tradurla in un'obbligazione a contenuto indeterminato, che può riguardare sia di carattere qualitativo, relativo alla natura stessa dell’impresa, che quello quantitativo, riferito ai bisogni medi dei consumatori, inammissibile nel nostro ordinamento.

Si discute se nel contenuto dell'obbligo rientrano anche i doveri preparatori in ordine allo svolgimento dell'attività e dottrina prevalente ha adottato la soluzione positiva per la finalità che gli obblighi di contrarre impongono alle imprese che, per previsione costituzionale (art. 41, comma 3°; art. 43 della Cost.), devono essere indirizzate al perseguimento di fini sociali o di utilità generale.

L'esigenza fondamentale che la normativa in questione vuole raggiungere consiste nell'evitare che gli utenti siano discriminati nel momento in cui propongono la domanda di acquisto di un bene o di un servizio, fissando una serie di limiti, il primo dei quali è il trattamento paritario realizzato mediane la predisposizione di condizioni generali del contratto, vincolanti di fronte a tutti i consumatori. Ciò determina la necessità che si attivi un controllo di merito su di esse in quanto, se non ci fosse, l'impresa obbligata potrebbe liberamente predisporre qualsiasi tipo di condizioni, anche vessatorie, come nel caso di chi impone quantitativi minimi di compravendita tali da « tagliare fuori» dal mercato un'intera fascia di potenziali compratori, ovvero che fissa la durata del rapporto, o spese accessorie, tali da rendere particolarmente gravoso l'acquisto.

Nel nostro ordinamento non esiste una disposizione che stabilisce il controllo preventivo sulle condizioni generali di contratto, neanche per le imprese monopolistiche, ammettendolo solo per le aziende concessionarie di pubblici servizi e per quelle di assicurazione.

Si è invero sostenuto che, per coloro che sono titolari di monopoli legali, l'obbligo di contrarre comporterebbe in ogni caso quello di sottoporre ad approvazione preventiva della pubblica amministrazione le proprie condizioni generali di contratto.

La tesi non sembra di facile attuazione, perché, a parte le difficoltà di ordine giuridico-amministrativo (autorità competente, valore dell'approvazione ecc.) manca allo stato, sul piano dell'effettività, un interesse dell'impresa a richiedere tale controllo e, inoltre, la tutela del consumatore non è affidata soltanto al controllo amministrativo, ma l'obbligo di parità di trattamento è imposto da norme imperative, che danno vita ad un diritto soggettivo perfetto dell'utente. Il controllo amministrativo preventivo delle condizioni generali di contratto, inoltre, se evita eventuali sanzioni amministrative in capo all'impresa controllata, e se consente altresì l'inserzione automatica di clausole (ex art. 1339 c.c.), non esclude un ulteriore controllo giudiziario, volto ad accertare l'eventuale nullità di clausole, approvate o meno dalla pubblica amministrazione, che comportino una lesione del divieto di discriminazione.

Una ricostruzione in senso sostanziale del principio di parità di trattamento non comporta ovviamente che prezzo e altre condizioni contrattuali debbano essere inevitabilmente uguali per tutti coloro che negoziano con l'impresa. Esso dispone il divieto di prestazioni gratuite a favore di determinati soggetti, ma non esclude invece eventuali clausole di favore, purché queste abbiano una giustificazione economica oggettiva, si da poter essere previste in termini generali nelle condizioni di contratto, e da poter essere applicate a tutti coloro che si trovino nelle situazioni previamente stabilite.

Un problema più delicato si ha quando lo sconto sia collegato non al tipo di prestazione, ma all'appartenenza dell'utente a una certa categoria di soggetti, distinguendo gli sconti a favore degli aderenti a un'associazione di consumatori finali da quelli a favore di un'associazione di imprenditori. Nel primo caso, può solo richiedersi che le clausole speciali rispondano ad una strategia promozionale oggettivamente apprezzabile o ad esigenze di protezione di categorie sociali deboli, e non siano puramente arbitrarie; nella seconda ipotesi una giustificazione commerciale, da parte dell'imprenditore obbligato, non è sufficiente, perché le clausole speciali possono realizzare un’alterazione delle condizioni di concorrenza fra gli imprenditori (commercianti o produttori intermedi) che trattano con il monopolista, con creazioni di lesioni patrimoniali a carico del singolo operatore di mercato.

L’imprenditore, nel momento in cui decide di mettere in vendita i propri prodotti, dovrà rendere note al pubblico il contenuto del contratto e, alcuni Autori hanno statuito che con tale pubblicazione il monopolista (concessionario) si trovi in stato di offerta permanente. La dichiarazione dell’obbligato a contrarre si specifica in un’offerta al pubblico e la richiesta del consumatore in un’accettazione di tale proposta.

Quest’elaborazione dottrinale è stata sottoposta al vaglio di svariati Esperti i quali hanno posto una serie di obiezioni. In primis si è osservato che l'offerta al pubblico, essendo una libera manifestazione di volontà, può essere sempre modificata o revocata, non così è invece per la coazione giuridica a contrattare ed, inoltre, quando l’obbligato non può predisporre e rendere note tutte le condizioni alle quali si è tenuti a contrarre, viene meno uno dei presupposti fondamentali dell’offerta: la completezza. La seconda motivazione si argomenta nel fatto che, pur ammettendo che se a volte nella pratica la manifestazione di volontà del monopolista s’identifica nell’offerta al pubblico ovvero nella proposta di contratto da parte del soggetto attivo, essa può anche consistere nell’accettazione di una proposta di contratto proveniente dell’utente. A sostegno di detta tesi si utilizza l’elemento letterale degli artt. 2597 e 1679 c.c. che parlano di accettare la proposta considerata compatibile con i mezzi e le condizioni generali di contratto.

Tale asserzione è stata oggetto di critica in quanto si è replicato che il debitore non è tenuto ad accettarla quando è contraria alle prescrizioni di legge, e in questa situazione il monopolista (concessionario) dovrà, per soddisfare gli obblighi impostigli dagli art. 1679 e 2597 c.c., avanzare una propria controproposta. Se cosi non fosse, infatti, si giungerebbe al risultato di imporre al consumatore l’onere di formulare la propria proposta contenente condizioni che coincidano con quelle che il monopolista o il concessionario sono tenuti a contrattare, cioè con aspetti che riguardano spesso l'organizzazione dell'impresa dell'obbligato, che sono difficilmente conosciute e conoscibili dall’utente.

Altro limite, per determinare il contenuto dell’obbligo a contrarre, è stabilito dai mezzi ordinari che l'impresa possiede per soddisfare la richiesta dell’utente, che si definiscono con riferimento al momento in cui si dovrà dar corso alla domanda, in funzione della capacità produttiva e delle forme di organizzazione aziendale prescritte dalla legge, ovvero dal provvedimento che attribuisce la concessione o il monopolio legale In mancanza di tali prescrizioni si dovrà guardare allo sviluppo della capacità produttiva, legata all'andamento normale del mercato, e, d'altro lato, all’organizzazione della produzione e della vendita richiesti dalla natura dell'attività svolta dal monopolista.

La domanda del consumatore andrà, in definitiva, accolta sino a che la sua soddisfazione concreta non sia incompatibile con la struttura e la capacità produttiva dell'impresa e non comporti un mutamento delle normali forme di organizzazione dell’impresa stessa.

II concetto di mezzi ordinari della ditta si fonda su un presupposto che è stato definito statico, che considera ordinari e normali gli strumenti che, di fatto, esistono in un certo momento.

Questa definizione svuota di ogni significato la portata dell'obbligo di contrattare in quanto lascia al creditore la possibilità dì precostituirsi arbitrariamente i limiti oggettivi del proprio obbligo. In questo modo si possono causare strozzature, blocchi e distorsioni del mercato a danno dei consumatori realizzando quei risultati che gli articoli in questione vogliono evitare e rimuovere.

Per non provocare questi effetti indesiderati parte della dottrina aderisce a una concezione dinamica dei mezzi ordinari dell'impresa, consistente in una valutazione di congruenza tra quel che l'impresa era, quel che essa è e quel che avrebbe dovuto e potuto essere: ne considera, insomma, lo sviluppo.

Il rifiuto di contrattare del monopolista sarà, cioè, illecito se l'inadeguatezza della struttura (produttiva e/o organizzativa) dell'impresa, per far fronte alla richiesta, dipenda dal fatto che il monopolista stesso non ha provveduto all'adeguamento della capacità produttiva dell'impresa legata alle mutate dimensioni della domanda globale, che sarebbe stato possibile.

Tutto ciò in applicazione dei principi generali in tema di obbligazioni e, più precisamente, dei doveri generali di correttezza e buona fede oggettiva previsti dagli artt. 1175, 1375 cod. civ.. La buona fede oggettiva, infatti, secondo l'opinione prevalente, esige che il debitore compia tempestivamente tutti gli atti necessari per la realizzazione del risultato dovuto e vale, quindi, a determinare il contenuto del rapporto obbligatorio in modo che vi sia corrispondenza tra il comportamento dovuto e le finalità che il rapporto obbligatorio vuole soddisfare. Coordinando questo principio con il concetto dinamico dei mezzi ordinari si fissano i limiti delle singole prestazioni in funzione degli interessi generali, non più legati al singolo utente che abbia già avanzato una richiesta, ma riferiti ai futuri e potenziali consumatori. Da esso è naturale che si guardi non tanto al criterio dei mezzi ordinari per stabilire il contenuto di singoli futuri rapporti obbligatori, ma per adeguarli alle esigenze prevedibili, evitando non solo una discriminazione attuale ma anche potenziale.

 

9. I criteri per attuare la parità di trattamento sono contenuti nell’art. 1679 c.c. ma, per unitario campo di applicazione, valgono anche per l’art. 2597 c.c. e si specificano nel preordinare, con uguaglianza di condizioni, clausole speciali inserite nei contratti.

Parte della dottrina ha ritenuto che l’art.1679 c.c. sia espressione di un principio generale valido per ogni tipo di impresa che svolga un’attività di utilità generale, e per qualsiasi tipo di richiesta.

Esponenti di contrapposta corrente dottrinaria hanno mostrato che l’esistenza di un simile obbligo, a carico di qualsiasi imprenditore che eserciti il tipo di attività menzionata, lascia all’interprete o al giudice il compito di procedere all’identificazione dei destinatari dell’obbligo di contrarre, che è riservato alla legge, e in assenza della quale, non si può dare attuazione al disposto dell’articolo. Non è possibile un’interpretazione analogica della norma che è eccezionale in quanto, contrariamente all’art. 41 3° comma della Cost., imporrebbe un limite all’iniziativa privata al di fuori di un’espressa previsione di legge.

L’art. 1679 c.c., quindi, non costituisce un principio generale e le singole disposizioni possono essere adattate quando esigenze oggettive lo richiedono.

Partendo da un’analisi di esse, in relazione al tempo di adempimento delle varie richieste e, al conflitto fra più richieste incompatibili, il comma 2° istituisce che i trasporti devono eseguirsi secondo l'ordine delle richieste, e in caso di più richieste simultanee deve essere preferita quella di percorso maggiore Si ritiene, però, che tale regola, mentre esprime una disposizione generale con riguardo all'ordine cronologico, non possa estendersi analogicamente agli altri casi di obbligo di contrarre, perché è legata alle peculiarità delle prestazioni di trasporto. Il conflitto, negli altri casi, si risolve soddisfacendo in modo proporzionale eventuali richieste simultanee ed incompatibili, mentre è stata ammessa l'applicazione analogica l'art. 1679, comma 2°, nelle ipotesi cui le domande in conflitto riguardino prestazioni indivisibili.

La norma dell'art. 1679, comma 3°, c.c. (« se le condizioni generali ammettono speciali concessioni, il vettore è obbligato ad applicarle a parità di condizioni a chiunque ne faccia richiesta »), prevedendo una posizione paritaria dei diversi utenti, vale anche per le condizioni generali praticate da altri imprenditori obbligati a contrattare.

Il problema dell’applicazione analogica della regola sancita nell'art. 1679, ult. comma, c.c., si è posta in maniera diversa in quanto esso non si limita a stabilire la sostituzione automatica delle clausole difformi, ma è formulata in modo da individuare l'invalidità di qualsiasi singola modifica del trattamento previsto nelle condizioni generali di contratto, non importa se favorevole o contraria all'interesse del vettore. La sua severità, che non ammette neanche limitazioni favorevoli all'utente, si spiega in regione ad certuni caratteri dell'attività (quali essere un servizio pubblico essenziale, o avere sovvenzioni pubbliche), che riducono al minimo l'autonomia dell'impresa di trasporto. Da ciò si deduce che non è possibile l’estensione analogica della disposizione a causa dei tratti peculiari del servizio svolto.

Una soluzione più elastica può adottarsi al di fuori del campo dei trasporti pubblici, poiché il rapporto fra deroghe favorevoli al consumatore e la parità di trattamento può determinarsi guardando alla ragione giustificatrice della restrizione. Se la regola di favore è legata al carattere della richiesta oggettivamente apprezzabile, seppure non espressamente prevista nelle condizioni di contratto, la deroga può costituire precedente, e quindi modificare le condizioni di parità di trattamento a favore degli utenti successivi, i quali possono anche invocare nei loro confronti l'inserzione automatica, mentre, se essa è legata a motivi arbitrari, dovrà ritenersi nulla.

 

10. La valutazione pratica d’insufficienza della protezione data al consumatore dall'art. 2597 c. c. ha spinto gli interpreti a porsi l'interrogativo se è possibile estendere l’efficacia delle norma codicistica al monopolio di fatto.

Molti dubbi possono aversi per il caso in cui il monopolio sia meramente contrattuale, ma determini un circuito esclusivo, giuridicamente protetto, nella distribuzione di certi beni o servizi (si pensi ad un accordo fra un consorzio di produttori e quello di grossisti) e questa situazione induce a considerare un ulteriore profilo del problema, che è quello relativo alla configurabilità di un monopolio legale collettivo. Utili spunti, in questa direzione, sono offerti dall'art. 86 del Trattato Cee, il quale statuisce che la posizione dominante possa appartenere ad una o più imprese. Norma che, secondo l'interpretazione prevalente, non richiede che le imprese collettivamente dominanti siano solo giuridicamente indipendenti ma economicamente integrate in uno stesso gruppo industriale, ritenendosi invece sufficiente che fra le imprese, anche economicamente indipendenti, sussista un accordo di cartello che le spinga a comportarsi, nei confronti dei consumatori, come un unico monopolista.

E’ stato sostenuto che tale tesi  può essere trasferita al diritto interno, al fine di individuare situazioni di monopolio collettivo, quando il consumatore si trovi di fronte a un comportamento uniforme di più aziende che, complessivamente considerate, monopolizzano il mercato.

Per impostare esattamente il problema bisogna distinguere il periodo anteriore all'entrata in vigore della legge antitrust da quello successivo giacché nel primo periodo la maggior parte della dottrina  e la quasi unanime giurisprudenza erano orientate per la soluzione negativa, osservando che l'art. 2597 c.c. impone un limite all'autonomia privata, il quale ha  natura eccezionale ed è insuscettibile di applicazione analogica al monopolio di fatto, dal quale si differenzia proprio per la diversa protezione data dall’ordinamento.

Nel monopolio legale il complesso di tutela rappresenta il necessario correttivo della situazione di privilegio connessa all'autorizzazione dell'esclusiva del suo titolare, mentre il monopolio di fatto non svolge attività soggetta a programmi indirizzati a fini sociali, sicché un dovere di comportamento del monopolista rivolto a fare conseguire le sue prestazioni ad ogni richiedente appare ingiustificato.

Una diversa concezione ammette che, se l’elemento teolologico al quale s’ispira l'art. 2597 c. c. è tutelare i consumatori dai pericoli derivanti dalla mancanza di concorrenza, esso si rinviene anche nel monopolio di fatto. L'applicazione analogica è frutto di una normale interpretazione evolutiva del citato articolo, il quale ha presente la più complessa e moderna tipologia delle situazioni non concorrenziali, risultante dalla legislazione comunitaria e dallo stesso progresso delle conoscenze economiche in materia. Il rifiuto, di fornire il bene o il servizio, dell'imprenditore monopolista di fatto, o in posizione dominante, al singolo è contrario in modo palese al precetto costituzionale (art. 41, comma secondo, Cost.), il quale vieta che la libertà di contrattare sia esercitata in contrasto con l'utilità sociale od in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana: tale rifiuto è appunto lesivo di questi valori, di cui il soggetto discriminato è titolare.

Con l'entrata in vigore della legge antitrust le ragioni preclusive esposte sono venute meno, perché, se si guarda in modo attento al disposto dell'art. 3, lett. 6), di tale legge (n. 287 del 1990), non vi è necessità di ricorrere all'interpretazione analogica. Si osserva esattamente che fra i comportamenti interdetti dalla norma all'impresa in posizione dominante rientra il rifiuto di contrarre. Essa, dovendo svolgere la sua attività in misura adeguata alla domanda prevedibile, incorre nel divieto di abuso di posizione dominante allorché effettua prestazioni insufficienti rispetto alla domanda presente sul mercato o non soddisfa le richieste pervenute.

 

11. Con l'introduzione della nuova legge antitrust si è posto il  problema di delineare un suo coordinamento sistematico con le norme codicistiche dell'obbligo a contrarre del monopolista  e di quell’esercente  un servizio pubblico riguardante la configurazione dell'abuso di posizione dominante.

Si possono prospettare al riguardo diverse soluzioni interpretative che partono dalla considerazione degli scopi delle singole normative poste a confronto. Secondo una prima ricostruzione, le norme codicistiche hanno il fine di garantire l'accesso al bene o al servizio prodotto da imprese monopoliste legali o esercenti pubblici servizi, mentre l'obiettivo precipuo dei divieti sull'abuso di posizione dominante va inquadrato nel distinto settore della disciplina antimonopolistica, configurato quale impianto di controlli sugli assetti strutturali e sui comportamenti degli operatori del mercato che, allo scopo di garantire una  competizione, incide sulle dinamiche del mercato, aventi finalità di ripristino di un regime concorrenziale.

Questa tesi lascia perplessi per alcuni aspetti: in primo luogo, ritenere che il divieto dell'abuso di posizione dominante abbia la funzione di ricostruire una forma di mercato concorrenziale sfocia in una confusione concettuale fra la nozione di «abuso di posizione dominante» e quella di «posizione dominante»; di seguito, i risultati a cui perviene non appaiono soddisfacenti rispetto alle esigenze di funzionalità del sistema giacché in ordine ad una stessa fattispecie si sovrapporrebbero gli interventi ora dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ora dell'eventuale autorità amministrativa preposta alla vigilanza del settore ora dell'autorità giurisdizionale amministrativa o di quell’ordinaria. Quest'ultima può applicare la norma codicistica e/o la legislazione antimonopolistica, posto che uno stesso comportamento può incidere sia sul diritto del singolo all'accesso rispetto ad un determinato bene o servizio che sugli assetti strutturali del mercato.

Alla stregua di una diversa costruzione si è affermato che la nuova normativa antitrust ha disciplinato l'intera materia, coprendo anche le fattispecie riconducibili alle norme codicistiche, e dunque si è realizzata un’abrogazione tacita di queste ultime.

Quest’interpretazione dell’apparato normativo  è stata criticata in quanto risulta in contrasto con la lettera dell'art. 8, 2° comma, della legge n. 287 del 1990, il quale introduce un’esenzione a favore delle «imprese che, per disposizione di legge, esercitano la gestione di servizi di interesse economico generale ovvero operano in regime di monopolio sul mercato», ma con riferimento alle sole «disposizioni di cui ai precedenti articoli», e cioè ai soli precetti materiali (artt. 1-7) della legge stessa. La tesi dell'abrogazione tacita dell'art. 2597 c.c. condurrebbe ad una sensibile riduzione di tutela avverso i comportamenti posti in essere dalle imprese esenti dalla normativa antimonopolistica, il che non sembra rientrare affatto nelle intenzioni del legislatore antitrust.

Una terza configurazione dei rapporti tra l'art. 2597 c.c. e la legge n. 287 del 1990 muove dall’analisi degli interessi protetti rispettivamente dai due nuclei normativi in quanto l'una proteggere l'interesse del singolo consumatore ad accedere ad un determinato bene della vita, l'altra quello generale al mantenimento di determinati assetti concorrenziali del mercato.

Quest’insegnamento non è stato considerato di forte spessore poiché si è rilevato che non può trascurarsi il fatto che la normativa antitrust interna, e prima ancora  quella comunitaria, non si cura soltanto degli aspetti efficientistici inerenti ai comportamenti degli operatori sul mercato, ma ha riguardo anche ai profili equitativi a precipua tutela della libertà di scelta del consumatore.

Dallo studio del disposto di cui all'art. 8, 2° comma, della legge 10-10-1990, n. 287 è possibile ricavare una serie di considerazioni di ordine strutturale: il legislatore ha sottratto dall'ambito dei poteri di intervento dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato quelle imprese che agiscono in settori sottoposti a speciale vigilanza affidata ad apposite autorità amministrative, nei cui confronti l'Autorità antitrust detiene solo poteri di impulso e di consultazione, ma non anche di direttiva (arg. ex comb. disp. artt. 8, 21, 22. 24,1. n. 287 del 1990); ferma restando l'azionabilità in capo agli interessati dei mezzi di reazione di natura amministrativa e/o giurisdizionale previsti dall'ordinamento contro l'esplicazione illegittima della funzione amministrativa, rimane in capo al singolo, per effetto del comb. disp. degli artt. 2597 e 1679 c.c., l'azionabilità della tutela innanzi al giudice ordinario; essendo gli interessi tutelati sostanzialmente fungibili, ma risultando, per volontà legislativa, diverse le autorità preposte all'attuazione di ciascuna normativa, lo spazio di applicabilità dell'art 2597 c.c. si riduce all’ambito nel quale non opera la normativa antitrust, onde si legittima un’interpretazione restrittiva del concetto di monopolio legale ex art. 2597 c.c., in modo coordinato con il disposto di cui all'art. 8, 2° co., della legge n. 287 del 1990.

In questa prospettiva le imprese, che godono di una posizione di monopolio per disposizione di legge, risultano esenti dai precetti antitrust, garantendo la disponibilità dei beni o dei servizi in base al disp. degli artt. 2597 e 1679 c.c., mentre  l'Autorità Garante della Concorrenza può esercitare nei loro confronti soltanto poteri conoscitivi e consultivi ex artt. 21 ss.della  legge n. 287 del 1990.

A quest’analisi metodologica è stato contestato  che essa intende l'art. 8 della legge n. 287 del 1990 in modo discordante con il criterio di spiegazione filocomunitaria dell'art. 1, 4° co., della legge medesima. È stato detto che il nostro legislatore, nell'introdurre tale disposizione di esenzione dalla disciplina antitrust, si è richiamato all'omologa norma di cui all'art. 90 Tratt. CEE  e, anche l'interpretazione della disposizione interna (art. 8, 2" co.), deve rispecchiare l'orientamento restrittivo consolidatesi nell'ordinamento comunitario, secondo il quale l'operatività della deroga ai precetti antitrust ricorrerebbe soltanto in presenza di un nesso funzionale tra il comportamento anticoncorrenziale e le finalità istituzionali dell'ente.

E’ stato ribadito che tale argomento, sebbene di rilievo, non sembra insuperabile in quanto la lettera dell'art. 8 indica una diversificazione di disciplina della legge interna rispetto alla norma comunitaria. L’art. 90 Tratt. CEE, ha una formulazione in positivo, nel senso che le imprese destinatarie della deroga «sono sottoposte alle norme del presente Trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata». Essa configura una deroga alla disciplina quale «eccezione» in ragione di esigenze funzionali per l'attuazione degli obiettivi a tali imprese affidati, mentre l'art. 8, 2° co., legge n. 287/90, statuisce, con una formulazione negativa, un limitato ambito di efficacia della norma e non costituisce  una deroga al complesso normativo. L’aspetto sistematico, poi, in cui si inserisce l'art. 8, 2" co., della legge n. 287/90 è palesemente diverso in quanto la limitazione dell'applicazione della normativa antitrust non è statuita, infatti, per consentire a date imprese di conseguire le finalità loro assegnate, ma rientra in un disegno diverso, in cui l'autorità preposta alla tutela della concorrenza risulta priva di poteri di intervento immediato in settori in cui vige una disciplina pubblicistica speciale, in cui sono investite della relativa vigilanza altre autorità amministrative.

Un profilo sicuro che distingue la normativa codicistica da quella dell’antitrust è sancita nell’art. 3 della l. 287/90, in base alla quale il divieto di discriminazione non si applica ai consumatori poiché la norma richiede che il soggetto leso subisca svantaggi nella concorrenza. Essi sono protetti solo quando si verifichi la violazione delle imposizioni diretta o indiretta dei prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose.                       

Particolare ipotesi di abuso di posizione dominante è il rifiuto di contrarre e, anche se non è presente nell’elenco dell’art 86 del trattato CEE e nell’art. 3 l. 287/90, costituisce la forma più pericolosa di abuso.

Si è dichiarato che il rifiuto di contrarre, pur non essendo tout court pratica abusiva, lo diventa quando si risolve in uno strumento atto a eliminare la concorrenza ovvero a pregiudicare il diritto di contrarre di chi debba entrare in rapporti commerciali con l’impresa dominante.

Parte della dottrina ha ritenuto che il rifiuto di contrarre non sempre è ricondotto nell’alveo dell’abuso, ma può essere considerato come presupposto costitutivo di altre situazioni giuridiche come il boicottaggio.

Il rifiuto può costituire pratica attuativa di azioni di danneggiamento e di isolamento economicamente valutabile nei confronti di enti, imprenditori o Stati produttori di determinate merci, realizzando il c.d. boicottaggio economico.

La dottrina ha ammesso che in una sola ipotesi può essere riconosciuto lecito il boicottaggio e il rifiuto di contrarre, cioè quando siano diretti a respingere atti di concorrenza sleale o altre violazioni della normativa antitrust, richiamando gli estremi della scriminante della legittima difesa, ove ricorrono i presupposti stabiliti dall’art. 52 c.p.

 

12. In caso di violazione dell'obbligo a contrarre ci si domanda quali i siano rimedi disponibili in capo all'utente e,  soprattutto, se sia applicabile il precetto contenuto nell'art. 2932 c.c.

 Il giudizio della giurisprudenza al riguardo non è unanime e, accanto a pronunce che ammettono il ricorso all’art.2932 c.c., decretando sul contenuto e sui limiti dell’obbligo contrarre e, in particolare,  identificando la prestazione dovuta in base ad esso, si collocano pronunce che negano la possibilità di una determinazione giudiziale dell’obbligo del monopolista legale. In particolare con riguardo alla materia delle assunzioni obbligatorie dei lavoratori invalidi (L. 2 aprile 1968 n.482), la giurisprudenza è divisa giudicando, in un primo momento, lo stesso incompatibile  con il rispetto dell’autonomia della parte del datore di lavoro.

 Un recente indirizzo ha, però, confermato la tesi positiva rilevando che sussiste un obbligo legale a contrarre in capo al datore di lavoro semprechè esistano nell’azienda posizioni compatibili con il grado e il tipo di menomazioni da cui è affetto il soggetto protetto, sul presupposto che il  solo risarcimento del danno frustrerebbe diritto all’assunzione del lavoratore invalido.

Una parte della dottrina, ritenendo che oggetto dell'obbligo consiste nel fornire beni o servizi, propone, quale forma di tutela più congrua, la sentenza esecutiva degli obblighi di fare ex art. 2931 c.c., saltando dunque il momento della determinazione giudiziale dell'oggetto del contratto ex art. 2932 c.c.

Tale tesi, a parte le difficoltà di ricondurre l'oggetto del contratto alla nozione di fare, finisce per svalutare il ruolo che il contratto presenta anche nelle fattispecie di obbligo a contrarre di fonte legale, in quanto la necessità della cooperazione dell'obbligato per la costituzione del rapporto negoziale deve ritenersi posta in funzione di controllo della sussistenza dei presupposti per l'attuazione di tale rapporto. E’ necessario stabilire requisiti costituivi delle contrapposte prestazioni, in modo da indicare chiaramente il contenuto dell’obbligo e del diritto. Il sistema offre all'obbligato la garanzia che il regolamento d'interessi possa dirsi introdotto solo dopo il suo consenso o, in mancanza di questo, solo con provvedimento giurisdizionale, a conclusione di un processo fondato sul principio del contraddittorio. Questa funzione di controllo, se si ammette per gli obblighi a contrarre in generale, appare ancora più significativa per quelli assunti da imprese monopoliste legali o che svolgono servizi pubblici, posto che, il principio di parità di trattamento esige anche che le prestazioni fornite ai singoli utenti non finiscano per compromettere l'efficienza dell'impresa. Quest’ultima deve essere condotta, alla stregua di un principio di economicità della gestione, in modo da garantire agli utenti, anche potenziali, la disponibilità del servizio, e dall’altro, dare certezza di esecuzione corrispondente alle domande, di prodotti e servizi, dei cittadini.

 

13. L'utente potrà godere anche di una tutela inibitoria che, in taluni casi, può costituire l'unico strumento di azione in caso di disparità di trattamento, la cui attuazione dipende dalla possibilità o meno di configurare nel nostro ordinamento della cosiddetta tutela inibitoria atipica.

L’elaborazione complessiva ha condotto a una soluzione favorevole, adottando  risposte differenti. Esse, partendo dal  principio di rango costituzionale (art. 24) dell’effettività della tutela giurisdizionale degli interessi protetti, si specificano ora concentrando l'attenzione sulle ipotesi tipiche di inibitoria per tentarne interpretazioni evolutive, ora ricercando l'individuazione di una base legale di ordine generale, ovvero riconducendola agli strumenti di reintegrazione in forma specifica del danno ex art. 2058 c.c.

La legittimazione all'azione inibitoria è dell'utente, il quale può far valere una situazione di interesse personale, attuale e differenziata rispetto alla collettività generale, senza che sia titolare di un diritto di credito alla prestazione contrattuale.

Parte della dottrina ha ritenuto che l'inibitoria, quale obbligazione negativa, non sia suscettibile nel nostro ordinamento di esecuzione forzata piena, ma solo di eseguibilità parziale e, pertanto, ha sostenuto l’inutilità  o addirittura dell'inammissibilità  del rimedio.

La tendenza dottrinale ad essa contrapposta ha sottolineato che è indispensabile che tener distinti il piano della cognizione da quello dell'esecuzione, in quanto sono importanti le conseguenze pratiche della condanna inibitoria, quale strumento di pressione psicologica per un adempimento e, soprattutto, quale momento cui riferire l'accertamento e la quantificazione della responsabilità per danni.

L'utente discriminato possiede uno strumento con il quale garantirsi l'effettività della tutela, nonostante le more del processo, poiché  è opinione pressoché indiscussa che, in ipotesi di obbligo legale a contrarre, possa attivarsi la tutela cautelare d'urgenza per la presenza di un diritto soggettivo.

 Isolata è rimasta la tesi che nega la possibilità di ottenere provvedimenti predetti che anticipino statuizioni contenute in sentenze costitutive, essendo stato superato l’ostacolo teorico relativo al convincimento secondo cui la tutela d'urgenza non potrebbe attuarsi con riferimento ai diritti di obbligazione.

La giurisprudenza nega l'urgenza qualora il soggetto obbligato abbia fatto ricorso agli strumenti di autotutela negoziale ex art. 1460, c.c., oppure qualora sussista un divieto legale a stipulare, giacché come figura di tutela cautelare, il provvedimento ex art. 700 c. p. c., per essere concesso, deve essere fondato sui presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora.

Rispetto al presupposto del periculum in mora entrano in gioco le questioni interpretative in ordine al concetto di «pregiudizio imminente e irreparabile» e l’ordinamento giurisdizionale prevalente ha sostenuto che non è integrato il presupposto dell'irreparabilità del pregiudizio qualora il ricorrente possa ottenere la prestazione con il pagamento di un importo che non rappresenti un sacrificio eccessivo per l'utente stesso, oppure qualora quest'ultimo possa reperire agevolmente beni fungibili, o ancora, in ipotesi di carattere meramente pecuniario del pregiudizio paventato a causa di condizioni contrattuali più onerose, allorché non venga provato che sia posto a repentaglio l'equilibrio economico dell'impresa ricorrente.

 

14. Diverso è l’inadempimento dell’utente poiché l’erogazione del sevizio o del bene presuppone l’esistenza  del contratto che ne abbia stabilito i presupposti e le modalità di pagamento della prestazione ricevuta. La problematica, relativa al compimento dell’obbligo del consumatore, è strettamente correlata a quella concernente all’applicabilità della disciplina codicistica, relativa ai contratti, all’accordo esaminato. Dottrina e giurisprudenza sono concorde nel ritenere attuabile le norme che riguardano la conclusione, l’interpretazione, soprattutto se riferite al comportamento delle parti successive alla stipulazione del contratto, e quelle attinenti l’esecuzione, le obbligazioni delle parti ed i rimedi sinallagmatici.

Qualche dubbio esiste per l’art.1460 c.c. e i Giudici della Suprema Corte hanno sancito che il monopolista possa avvalersi dell’eccezione di inadempimento quando l’utente si renda inadempiente all’obbligo contrattuale di pagare il prezzo.

Unanime soluzione positiva è stata adottata per il rimedio della risoluzione del contratto ( art.1453 c.c.) e della clausola risolutiva espressa.

Discussione teorica è sorta per l’art.1461 c.c. (a norma del quale, ciascun contraente può sospendere l’esecuzione della prestazione dovuta, se le condizioni patrimoniali dell’altro sono divenute tali da porre in pericolo il conseguimento della controprestazione) e una prima ricostruzione asserisce che il principio di economicità di gestione dell’impresa fa sì che il monopolista debba sospendere l’erogazione del servizio a favore dell’utente divenuto insolvente. Orientamento giurisprudenziale opposto ha ritenuto che la libertà di valutazione dell’idoneità delle condizioni patrimoniali dell’utente non sussisterebbe in capo al monopolista che ha l’obbligo a contrarre ma, successivamente, il dictum della Cassazione ha aderito alla precedente affermazione dottrinaria.

La Corte ha sostenuto che  il principio di parità di trattamento opera solo nel momento genetico del sorgere del rapporto e non nell’esecuzione del contratto, ed impedire l’esperibità del rimedio di autodifesa al monopolista significa sottovalutare il ruolo che il principio di economicità riveste all’interno dell’ art 2597 c.c.

 

 

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