inserito in Diritto&Diritti nel maggio 2001

Oltre i diritti umani: la questione della mutilazione genitale femminile e il concetto di crimine culturale

di Viviana Alessandrini

 

Sostiene C. Lévi-Strauss, ne “Il pensiero selvaggio”[1], che il centro delle preoccupazioni di ogni antropologo non dovrebbe essere “nel sapere se il contatto con un becco di picchio guarisca o no il mal di denti,  ma se è possibile, da un certo punto di vista, far ‘andare d’accordo’ il becco del picchio e il dente dell’uomo […] per introdurre, attraverso questi accostamenti di cose e di esseri, un principio di ordine nell’universo”. E’ alle radici di questo ordine che l’antropologo deve cercare di rintracciare la base di certe forme di espressione simbolica, per comprendere le connessioni profonde che spingono gli individui, all’interno di un determinato sistema sociale, ad agire in una maniera prestabilita ed omogenea.

Nelle culture pre-letterate, il rito è indubbiamente l’affermazione più eclatante della socialità, legato a doppio filo al mito che, attraverso di esso, si manifesta e si tramanda. Il rituale iniziatico, in particolar modo, ha il compito fondamentale di trasformare un essere proveniente dal mondo marginale e potenzialmente pericoloso della natura, ossia il bambino,  in un individuo sociale, attraverso una complessa preparazione fatta di pratiche e insegnamenti che spesso riguardano ogni aspetto della vita, dalla religione alla sessualità. Entrare a far parte della società, attraverso il rito iniziatico che sottolinea il momento del passaggio dall’età infantile a quella adulta, significa condividerne ogni aspetto e questa condivisione è inscritta, in maniera perenne e indelebile, nella memoria e, soprattutto, sul corpo.

Perché l’identità individuale possa divenire sociale, la soggettività deve essere mutata in oggettività  e il corpo, individualmente differente, deve divenire corpo socialmente riconoscibile. Ogni segno inciso sul corpo indica, allora, a chi condivide lo stesso linguaggio simbolico, tutti quegli  elementi che possono essere importanti per l’identificazione sociale, una vera e propria “carta d’identità” su cui la società inscrive età, sesso, rango, ecc. di ogni singolo individuo e tramite i quali lo riconosce come suo appartenente.  Questo è il valore che assumono, sostanzialmente, quelle pratiche rituali che comportano una modificazione corporea che, frequentemente, diviene vera e propria mutilazione.

E’ facile dunque che, quando una qualunque di queste pratiche, per un motivo qualsiasi, abbandona il suo contesto sociale e, per così dire, viene importata in un altro, subisca una perdita di significato, una de-simbolizzazione cui fa seguito l’assunzione di un nuovo valore, anche simbolico, più rispondente alle necessità del sistema sociale che lo riceve. Un processo questo, che sembrano aver subito pratiche come il tatuaggio e il piercing (la perforazione di parti differenti del corpo), nel loro “trasferimento” dalle culture originarie alla nostra.

Cosa succede, invece, quando il trasferimento non riguarda soltanto la pratica, ma anche uno o più individui che originariamente la gestiscono? E’ probabile che, ritrovandosi in un nuovo contesto culturale potenzialmente ostile, o semplicemente incomprensibile, l’individuo legga nelle proprie usanze l’unico vero legame che, ancora ed indelebilmente, lo unisce alla cultura da cui deriva e sia spinto a praticarle anche quando queste si scontrano con la morale locale, o addirittura con la legge.

E’ il caso della grande ondata emozionale che ha scosso numerosi paesi, tra cui l’Italia, di fronte alla pratica della mutilazione genitale femminile che, in varie forme, viene eseguita in circa 20 paesi dell'Africa, parte dell'Asia e del Medio Oriente e, negli ultimi anni, in comunità di immigranti anche in Europa. La stima delle adolescenti, ma sempre più spesso bambine, che vengono sottoposte a mutilazione genitale è di 2 milioni circa e oltre 110 milioni di donne, che già hanno subito questa sorte, soffrono  gravi danni alla salute fisica e psico-sessuale per il resto della loro vita. Queste pratiche, inoltre, sono effettuate senza anestesia, da donne anziane prive della minima conoscenza anatomica o elementare norma igienica, per cui la mortalità, determinata da infezioni (tra cui l’AIDS) o emorragie, è altissima. 

L’infibulazione è forse una tra le più cruente forme di mutilazione genitale femminile e consiste nella recisione totale della clitoride, delle piccole e grandi labbra, e nella chiusura-cucitura della vulva, in cui viene lasciato soltanto un piccolo orifizio per espletare le funzioni fisiologiche. Tornando al postulato iniziale, la motivazione più frequentemente addotta alla necessità dell’infibulazione è essenzialmente  quella di  proteggere la verginità delle giovani donne, e dunque la mutilazione dovrebbe essere inserita in un lungo e complesso rituale iniziatico, che in alcune popolazioni precede il matrimonio. Nei paesi d’origine, però, la cerimonia sta gradualmente scomparendo ed inoltre l’età in cui l’“operazione” viene compiuta si sta pericolosamente abbassando, negando il valore simbolico di passaggio alla vita adulta che essa avrebbe potuto avere in origine. Se compiuta su bambine, infatti, l’operazione non conduce ad un reale cambiamento di status e le motivazioni mutano: nei paesi islamici, per esempio, la circoncisione femminile (ossia la resezione apicale della clitoride) è ritenuta un obbligo religioso imposto dalla sunna (tradizione) coranica; mentre, in altri contesti culturali, l’escissione (la vera e propria clitoridectomia) è frequentemente giustificata da ragioni igieniche o estetiche (gli organi sessuali femminili sono “sporchi” o brutti e quindi devono essere asportati).

Al di là, dunque, della ritualità e della tradizione, si può leggere nelle pratiche dell’infibulazione e della clitoridectomia la volontà di controllare la sessualità femminile da parte di una “egemonia” (culturale, tradizionale, religiosa, economica, ecc.) maschile: nel primo caso, si impone alla donna una castità “costrittiva”, che si esplicita nella chiusura della vulva, riaperta dal marito solo dopo il matrimonio; nel secondo caso, si nega alla donna il godimento della propria sessualità attraverso l’ablazione della clitoride, riducendone così la presunta smodatezza[2]. E’ chiaro dunque che, un uomo nato in un paese dove la mutilazione sessuale è pratica comune, non sarà disposto a sposare una donna che non sia infibulata, escissa o perlomeno circoncisa, perché donna “non pura”,  e questo anche al di fuori del proprio paese d’origine.

L’evidenza di tale scelta trova una chiara esposizione nello studio, condotto tra il 1991 ed il 1993 dalla dott.ssa Sirad Salad Hassan, su un campione di 304 donne somale residenti in Toscana.[3] Il dato più interessante che emerge da questa ricerca può ritrovarsi nella tabella 9 (p. 63) dalla quale risulta che, su 103 donne interpellate, 13 hanno scelto la sunna, 20 la clitoridectomia e ben 70 hanno scelto l’infibulazione come forma di mutilazione da imporre alle proprie figlie. Nessuna di esse ha dunque scelto di non far mutilare la propria figlia e questo perché, come risulta dalla tabella n.12 (p.66), una giovane donna non mutilata non sarebbe una buona mussulmana (20 su 103), o diventerebbe una donna facile (73 su 103), o ancora non verrebbe da un buona famiglia (10 su 103); conseguentemente nessun uomo sarebbe disposto a sposarla.

Un altro dato eclatante emerge dalla tabella n. 20: nonostante in Italia la pratica della mutilazione genitale sia vietata per legge e punibile con la reclusione dai tre ai sette anni, 30 di queste donne si sono dichiarate disposte a farlo di nascosto, mentre 73 di esse manderebbe la figlia al paese d’origine (p. 74).

Questa forte convinzione dipende sicuramente dal consenso sociale che l’operazione raccoglie nei paesi d’origine, ma nei paesi dove questa pratica non è autoctona, essa è interpretata come un crimine, una forma di tortura, una violenza inflitta a individui non consenzienti, privi di un giudizio formato e che ne porteranno le conseguenze per il resto della loro vita.

Un conflitto apparentemente insanabile, dunque, quando si cerca di convivere nello stesso spazio e quando si scontrano punti di vista così inconciliabili. Perché, in effetti, si tratta di punti di vista: non credo, come antropologa e come donna, che una madre sia capace di imporre una sofferenza così grande alla propria figlia per puro piacere o per pura vendetta, avendola a suo tempo subita. Credo piuttosto nella buona fede, nel convincimento che sia per il bene delle proprie figlie, perché possano trovare un buon marito ed essere rispettate dalla propria comunità. E’ per questo che eliminare queste pratiche all’origine risulta così difficile: la norma è la mutilazione, un corpo integro non è un corpo socialmente sano.

Il problema delle mutilazioni genitali femminili deve essere considerato, sì, come un problema sanitario, ma non solo: bisogna anche rendersi conto che le convinzioni culturali, interiorizzate fin dall’infanzia, non sono così facili da eliminare, tanto meno semplicemente sostenendo che “fanno male”: una donna che ha subito una mutilazione genitale sa che fa male, lo sa sulla sua pelle, ma sa anche che quello è ciò che la sua cultura, la sua comunità, la sua famiglia le richiede e richiederà alle donne future.

L’unica “arma” a nostra disposizione, per poter almeno tentare di limitare il susseguirsi di tali pratiche, sembra essere ancora quella del confronto, del dialogo e della crescita comune. La strategia utile, anche nei paesi ospitanti, è sicuramente l’informazione, ossia informare e formare coloro i quali hanno quotidianamente a che fare con potenziali “soggetti a rischio”, ossia gli operatori assistenziali (medici, volontari ecc.), le forze di polizia, gli insegnanti, ecc.. Sarà fondamentale creare delle competenze in grado di fronteggiare una madre fortemente persuasa delle sue convinzioni, senza ricorrere alla minaccia legislativa che, come abbiamo visto nello studio della Hassan, non avrebbe un grande riscontro se non forse quello di accrescere l’ostilità reciproca, e conseguentemente inasprire la difesa della propria essenza ed identità sociale. Così come sarà importante cercare un confronto anche con i futuri mariti (e padri) di queste bambine, poiché nessuna madre rinuncerà ad assicurare un futuro alla propria figlia, finché non esisteranno uomini che rifiuteranno la mutilazione genitale.

Questo è sicuramente un progetto a lungo termine, che potrà attuarsi soltanto attraverso un processo di informazione che non criminalizzi il soggetto, ma lo porti a sentirsi il più possibile accolto, protetto e coinvolto nel nuovo contesto sociale, anche senza essere stato privato di un bene così prezioso e importante come la propria sessualità.

 

[1] Milano, Il Saggiatore, 1979, p.22

[2] Per approfondimenti riguardo alle motivazioni si rimanda al testo a cura di Scilla McLean, “Circoncisione femminile, escissione e infibulazione: realtà e proposte di cambiamento”, Roma, Bulzoni Editore, 1982 (pp.42-48)

[3] “La donna mutilata”, Firenze, Loggia De’ Lanzi, 1996