inserito in Diritto&Diritti nel ottobre 2002

Regolamento ce n. 178/2002 sui principi e requisiti generali della legislazione alimentare e sull'istituzione dell'autorita' europea per la sicurezza alimentare:
alcuni spunti di riflessione 

di Mario Pangrazzi, Avvocato in Milano, Studio Associato Failla

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Una panoramica d'insieme sui Capi I e II del Regolamento

Il Regolamento CE n° 178/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2002 stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare. 
Messo da parte l'iniziale entusiasmo che sempre fa seguito alle novità positive di qualsiasi tipo, è ora possibile, trascorso qualche mese, esprimere qualche commento più meditato su alcuni profili di innovazione di maggiore portata.
Preliminarmente si richiama sommariamente il contenuto dei primi due capi del regolamento in discussione, per poi passare ad alcuni punti che in particolare hanno stimolato la riflessione.
Innanzitutto la scelta dello strumento normativo - il regolamento - da parte del legislatore comunitario, non appare casuale.
Dovendo gettare le basi e dare i principi generali della legislazione, l'Unione è ricorsa ad uno strumento di portata generale, capace di istituire obblighi e diritti immediatamente vincolanti per tutti i destinatari della disciplina, senza necessità di un ulteriore intervento normativo di recepimento da parte dei legislatori nazionali. 
Come è noto, il regolamento, per propria natura, è l'unico strumento normativo comunitario capace di tale portata e risultato (art. 249, 2° co. Trattato CE). Già in questa scelta è possibile leggere l'intento del legislatore comunitario, che è quello di dare una svolta precisa al sistema normativo in campo alimentare: non più, o non solo, interventi per direttive cui dovevano seguire legislazioni nazionali di recepimento, spesso soggetta a concetti e criteri generali interni dei singoli ordinamenti e, quindi, disomogenea, oltre che, spesso, attuata con grande ritardo e, pertanto, di portata innovativa meno immediata.
Evidente che in quest'ottica il primo sforzo di uniformità dovesse riguardare il concetto di alimento, del quale, prima dell'elaborazione dell'art. 2 Reg. CE n° 178/2002, non si conosceva una univoca definizione in sede comunitaria. E' da considerare alimento "…qualsiasi sostanza o prodotto trasformato, parzialmente trasformato o non trasformato, destinato ad essere ingerito, o di cui si prevede ragionevolmente che possa essere ingerito, da esseri umani", ivi comprese "…le bevande, le gomme da masticare e qualsiasi sostanza, compresa l'acqua, intenzionalmente incorporata negli alimenti nel corso della produzione, preparazione o trattamento". Torneremo meglio in prosieguo su un aspetto particolare di questa definizione. Qui preme evidenziare come essa sostanzialmente riprenda la definizione del Codex Alimentarius, con il suo carattere estremamente ampio, fino a comprendere ingredienti e additivi, ma anche quelle sostanze che non hanno solo utilizzi alimentari, in quanto, oltre ad essere potenzialmente inseriti nella catena alimentare ("…si prevede ragionevolmente che possa essere ingerito …", come recita l'art. 2, 1° co.), possono, altresì, essere utilizzati in altri settori industriali. Questo consente di trattare tali sostanze, sotto un profilo igienico-sanitario e di sicurezza, con la stessa attenzione richiesta per gli alimenti fino a che non risulti chiaro che saranno oggetto di un diverso impiego, non alimentare.
Secondo uno stile ormai consolidato della normativa comunitaria, seguono (art. 3) altre opportune definizioni, a partire da quella di "legislazione alimentare". Ecco che, opportunamente ed univocamente, sono definiti, fra gli altri, i concetti di "rischio" ed "analisi del rischio", nei suoi tre diversi momenti di valutazione, gestione e comunicazione, che, parimenti, ricevono univoca definizione. Del resto, come esplicitato al successivo art. 6, l'analisi del rischio è il cardine fondamentale su cui si dovrà basare la legislazione alimentare, secondo le nuove direttive date dal regolamento qui in discussione, con la conseguente priorità conferita allo strumento primario di analisi del rischio costituito dagli studi scientifici e dai loro risultati.
Anche per le definizioni che attengono al rischio il Regolamento attinge a piene mani al Codex Alimentarius, che nell'ultimo aggiornamento del 1999 (pag. 13 - Volume 1A) contiene le definizioni dei termini connessi con l'analisi del rischio in rapporto alla sicurezza alimentare, adeguate all'evoluzione della tecnica di tale analisi, di cui le definizioni riportate nel Regolamento sono praticamente una trascrizione.
Questo continuo, positivo riferimento al Codex Alimentarius potrebbe legittimare una pratica interpretativa del Regolamento e della conseguente legislazione alimentare, che facesse riferimento alle categorie concettuali del Codex stesso, con riguardo a concetti ricorrenti in tale legislazione, come "individuazione del pericolo", "caratterizzazione del pericolo", "valutazione dell'esposizione al pericolo" e "caratterizzazione del rischio", concetti di primaria importanza in un sistema normativo basato sull'analisi del rischio e, quindi, giustamente richiamati al punto 11) art. 3 Reg., ma non esplicitati in un'apposita definizione. Per la loro definizione potrebbe essere, pertanto, necessario e legittimo ricorrere, appunto, al Codex Alimentarius, il quale finisce per essere, di fatto (anche se non dichiaratamente) recepito quale fondamento, ius commune, della normativa comunitaria, e conseguentemente nazionale, sull'alimentazione.
Il Capo II del Regolamento, intitolato "Legislazione Alimentare Generale", detta una serie di principi e requisiti applicabili a tutte le fasi, dalla produzione primaria alla somministrazione al consumatore (art. 4, par. 1), fatta eccezione per la produzione primaria per uso domestico privato e per la preparazione per il medesimo uso che restano fuori del campo di applicazione dell'intero Regolamento. A tali principi e requisiti dovranno conformarsi ed attenersi sia le legislazioni nazionali che quella comunitaria. Anzi, per quanto riguarda la legislazione esistente, è prescritto che sia adattata al più tardi entro il 1° gennaio 2007, ma fino ad allora la normativa vigente deve essere attuata tenendo conto di tali principi e requisiti, i quali hanno già, quindi, efficacia cogente.
Gli obiettivi generali della legislazione alimentare sono di evidente importanza sia sotto il profilo della tutela che sotto il profilo della struttura del mercato comune. Infatti, essa deve ispirarsi ad un livello elevato di tutela della vita e della salute umana, con riguardo anche alla tutela degli interessi dei consumatori (art. 5) ad una scelta alimentare consapevole ed informata e avulsa il più possibile da pratiche commerciali sleali ed ingannevoli (art. 8, 9 e 10). Tutto ciò senza perdere di vista, anzi, aggiungendo un elemento, che è uno dei principi costitutivi della Unione Europea, ossia la tutela della libertà di circolazione dei beni, in questo caso, dei prodotti alimentari e dei mangimi.
Codificazione positiva ha ottenuto in questo ambito anche il principio di precauzione (art. 7), che impone l'adozione di misure restrittive provvisorie di fronte alla possibilità di effetti dannosi alla salute, riscontrata a seguito di valutazione delle informazioni disponibili, ma in presenza di una perdurante incertezza scientifica. Anche sui problemi che possono derivare da questa norma torneremo in seguito.
La Sezione 4 del Capo II, intitolata "Requisiti generali della legislazione alimentare" entrerà in vigore dal 1° gennaio 2005. Questo breve lasso di tempo permetterà di prendere confidenza con i requisiti e gli obblighi in essa previsti, che coinvolgono direttamente gli operatori del settore alimentare, chiamati ad essere i responsabili primari della sicurezza alimentare, che dovranno garantire che i prodotti siano conformi e soddisfino le disposizioni legislative alimentari. Alle Autorità nazionali è conferito il compito di controllo e verifica del rispetto della normativa, nonché l'attività repressiva attraverso l'imposizione di sanzioni, che devono, però, essere effettive, proporzionate e dissuasive (art. 17, par. 2, 3° co.).
Grande risalto è dato alla rintracciabilità (art. 18), intesa, innanzitutto, come strumento di tutela della sicurezza dell'alimentazione, ma anche, cosa meno scontata ma altrettanto importante, come strumento di tutela degli operatori e del libero mercato, in quanto, come spiegato al considerando n° 28, un efficiente sistema di identificazione dei canali di fornitura a monte e di distribuzione a valle dei singoli prodotti alimentari, a partire dalla produzione primaria fino al commercio al dettaglio del prodotto finito, consente di intervenire in maniera selettiva in situazioni di crisi e allarmi alimentari, con ritiri e provvedimenti restrittivi mirati e precisi, onde evitare disagi più estesi ed ingiustificati.
Qui si tocca con mano come la disciplina della produzione e del commercio alimentare sia un continuo compromesso e contemperamento di situazioni giuridiche soggettive primarie diverse, egualmente degne di tutela, quali il diritto alla salute ed il diritto alla libertà di iniziativa economica e di circolazione delle merci in ambito comunitario. Un altro punto d'incontro e bilanciamento di questi diritti è costituito dall'informazione dei cittadini riguardante i rischi per la salute umana e dalla tutela del segreto professionale, di cui agli artt. 10 e 52 del Regolamento, sui quali meglio si tornerà in prosieguo.
Un ultimo riferimento in questa visione d'assieme merita l'art. 21 del Regolamento, il quale nell'applicazione del capo secondo fa salve comunque le disposizioni sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi di cui alla Dir. 85/374/CEE del Consiglio del 25 luglio 1985. Come è noto, tale direttiva è stata attuata nel nostro ordinamento con il D.p.r. 24.05.1988 n° 224, che, quindi, continuerà a regolare la responsabilità aquiliana anche dei produttori di prodotti alimentari, purché, se del suolo o dell'allevamento, abbiano subito trasformazioni, ossia trattamenti che ne modifichino le caratteristiche, oppure l'aggiunta di sostanze, o il confezionamento o trattamento che renda difficile il controllo diretto da parte del consumatore (art. 1 D.p.r. n° 224/'88). E' ipotizzabile che saranno maggiormente precisate le esimenti della conformità a norme imperative o provvedimenti vincolanti, e dello stato delle conoscenze scientifiche, di cui all'art. 6 lett. d) ed e) D.p.r. n° 224/'88, alla luce, ad esempio, del principio di precauzione e dei par. 7, 8 e 9, art. 14 Reg. che dettano la presunzione di sicurezza dei prodotti conformi alla legislazione. Anche su tali argomenti si tornerà più approfonditamente.

In particolare, ancora sulla definizione di "alimento" 
Si è detto che la definizione di alimento contenuta nell'art. 2 del Regolamento riprende in larga misura quella dettata dal Codex Alimentarius, ove tale è considerata qualsiasi sostanza trasformata, anche parzialmente, o non trasformata destinata al consumo umano per essere ingerita, compresa l'acqua e le bevande, le gomme da masticare e le sostanze che sono aggiunte intenzionalmente nella produzione, preparazione o trattamento. Restano escluse, per espressa menzione del Codex, i cosmetici, il tabacco e le sostanze usate solo come medicinale o stupefacente (drugs). Il Regolamento esclude, altresì, dalla definizione di alimenti i mangimi, gli animali vivi se non preparati per il consumo umano, i vegetali prima della raccolta, i residui e contaminanti.
Questa definizione contenuta nel Regolamento consente una duplice riflessione. 
In primo luogo, ci si chiede se l'avere escluso i medicinali, senza ulteriore precisazione, non possa lasciare spazio a problemi interpretativi di fronte a sostanze, che sono il risultato dei recenti sviluppi della scienza dell'alimentazione, e sono presentate dalle industrie alimentari come aventi capacità di ridurre il rischio di malattie, oppure di cui vengono enfatizzati gli effetti positivi sulla salute, passibili, quindi, di essere qualificate come trattamenti preventivi: si faccia il caso, ad esempio, dei prodotti di erboristeria o degli integratori alimentari. 
Ricordiamo che la Dir.'65/65 CEE, e successive modifiche, attuata nel nostro Paese con il D.l.vo 29.05.1991 n° 178 e successive modifiche, definisce come medicinale, fra l'altro, ogni sostanza presentata come avente proprietà curative o profilattiche, nonché ogni sostanza da somministrare per ripristinare, correggere o modificare funzioni organiche. 
Naturalmente su questo aspetto gioca anche la presentazione fatta dal fabbricante e destinata al consumatore, permanendo, benché depenalizzato dall'art. 1 D.l.vo n° 507/'99, il divieto di cui all'art. 13 L. n° 283/'62, che punisce, però, solo l'ingannevole vanteria di proprietà medicamentose attribuite a sostanze alimentari in modo da indurre in errore gli acquirenti, divieto ribadito, ma più severamente punito, dal D.l.vo n° 109/'92, artt. 2, 2° co. e 18, 2° co.. In tema la nostra Corte Suprema di Cassazione ha dato il suo contributo (cfr Cass. pen. 12.04.1995 n° 3953) cercando di collocare il confine della definizione di medicinale, nella indicazione e descrizione non generica, bensì specifica di effetti terapeutici e profilattici precisi. La Corte precisa che "l'illustrazione di pretese ed empiriche qualità terapeutiche non contenute nella confezione, ma in separati fogli non acclusi alla stessa, deve avere le caratteristiche di una semplice divulgazione e non assumere i connotati di una enumerazione di varie malattie con l'indicazione del relativo prodotto …, giacché in detta ipotesi la descrizione degli effetti terapeutici e profilattici fa si che si sia in presenza di un farmaco."
Nell'escludere i medicinali dalla definizione di alimento, il Regolamento fa giustamente riferimento appunto alle direttive 65/65 CEE e 92/73 CEE, sui medicinali in genere e sui medicinali omeopatici in particolare.
Tuttavia, poiché la disciplina applicabile a talune sostanze, compresi i divieti di cui sopra, dipende dalla loro qualificazione, sarebbe auspicabile un intervento normativo chiarificatore, per evitare che sia lasciato all'attività, seppur qualificata, dell'interprete il compito di includere una sostanza fra gli alimenti o fra i medicinali.
In secondo luogo, è interessante notare come dalla definizione di alimento siano rimasti esplicitamente esclusi i residui e contaminanti (art. 2 lett. h) Reg.).
Nella proposta originaria della Commissione (si rammenti che il Regolamento è stato adottato con la procedura di cui all'art. 251 Trattato CE) tale esclusione non figurava e nella relazione accompagnatoria si legge che nella definizione di alimento "sono, inoltre compresi i residui derivanti dalla produzione e trasformazione dei prodotti alimentari, come i residui di farmaci veterinari o di pesticidi". 
Non è dato sapere la ragione di questa inversione di tendenza, anche se, per quanto riguarda i contaminanti è facile intuire che si tratti solo di una specificazione, in quanto, in accordo con la definizione data di essi dal Codex Alimentarius, si tratta di sostanze non intenzionalmente aggiunte agli alimenti, definizione chiaramente incompatibile con quella di sostanza intenzionalmente incorporata negli alimenti, di cui al 2° co. art. 2 del Regolamento.
Per quanto riguarda i residui, è immaginabile che essi siano qui considerati nella duplice ipotesi di residui di pesticidi e di residui di farmaci veterinari, visto anche l'inciso della relazione citato sopra.
Qui si sottolinea che l'esplicita esclusione rappresenta una scelta quanto mai opportuna, in quanto permette di prevenire il rischio di indebite estensioni della qualifica di legislazione alimentare alla disciplina dei pesticidi e dei farmaci veterinari, con conseguente sovrapposizione di discipline diverse. 
E', comunque, certo che rientra nella legislazione alimentare la disciplina dei minimi di residuo ammessi negli alimenti.
Si sottolinea, inoltre, che mancando nel Regolamento una definizione di detti residui, anche in questo caso occorrerà fare riferimento alla definizione di essi data dal Codex Alimentarius.
Principio di precauzione e concetto di incertezza scientifica
Come detto, all'art. 7 il Regolamento codifica il principio di precauzione, incluso dall'art. 6, par. 3 fra gli strumenti di gestione del rischio per il conseguimento degli obiettivi generali di tutela di cui all'art. 5. I principi enunciati agli articoli da 5 a 10 sono immediatamente cogenti in quanto la legislazione vigente, sia nazionale che comunitaria, deve essere attuata ed applicata tenendo conto di tali principi, compreso, appunto, il principio di precauzione.
Ma cosa implica il principio di precauzione? E' importante definire gli elementi e le condizioni di applicabilità di tale principio in quanto esso rappresenta un'espansione dei poteri di "polizia" delle Autorità amministrative preposte al controllo sanitario, in funzione limitativa di prerogative e libertà connesse con l'attività imprenditoriale. In virtù del principio di precauzione, in caso di individuata possibilità di effetti dannosi per la salute, ma di permanente incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate misure provvisorie di intervento di prevenzione e controllo (gestione del rischio), onde garantire un livello adeguato di tutela della salute, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche che permettano di precisare meglio la valutazione del rischio. Ai sensi del par. 2 art. 7 Regolamento, le misure adottate in applicazione del principio di precauzione debbono essere proporzionate e limitate alle sole restrizioni al commercio strettamente necessarie allo scopo di tutela. Inoltre, dette misure debbono essere riesaminate entro un periodo di tempo ragionevole, tenuto conto della natura del rischio e delle informazioni scientifiche necessarie. E' facile immaginare che su questi concetti non vi sarà identità di vedute tra le Autorità sanitarie e gli operatori, a seconda delle diverse circostanza.
In ogni caso, nell'individuazione dei soggetti destinatari delle facoltà connesse al principio enunciato, si nota subito come, benché in linea generale esso sia pensato per i responsabili politici e le Autorità amministrative, in realtà, nel settore di nostra pertinenza, esso si presta ad essere applicato da tutti i soggetti coinvolti nel sistema della normativa alimentare: i legislatori nazionali e comunitario, nei rispettivi ambiti di intervento, dovranno prevedere meccanismi che facilitino o, anzi, inducano l'applicazione del principio stesso; ma, d'altra parte, le Autorità sanitarie nazionali, parimenti, appaiono tenute, nell'esercizio dei loro poteri di controllo e vigilanza, ad attenersi alla precauzione di cui all'art. 7, e ad esercitare le loro potestà amministrative nel rispetto dei limiti di proporzionalità, stretta necessità e temporaneità di cui al par. 2 art. 7.; ma, infine, anche gli operatori del settore alimentare non potranno esimersi dal tenere conto del principio di precauzione, qualora, in sede di autocontrollo di fronte ad una possibilità di danno alla salute derivante dall'immissione sul mercato di un determinato prodotto alimentare, ma tuttavia senza sufficienti informazioni scientifiche atte ad escludere o confermare tale possibilità, essi dovranno adottare le misure più idonee e compatibili con la loro responsabilità, sancita dagli artt. 17 e 19 Regolamento. Si noti come, nei confronti degli operatori i limiti di proporzionalità, stretta necessità e temporaneità possano acquisire una valenza contraria, nel senso di valere come requisiti minimi richiesti per l'efficacia preventiva ed esimente delle misure adottate.
Alla luce del principio di precauzione potrebbero, altresì, essere interpretati ed applicati gli obblighi imposti al responsabile dell'industria alimentare in base all'art. 3, 4° co. D.l.vo n° 155/'97 sull'igiene dei prodotti alimentari, ipotizzando un'interpretazione più rigorosa e prudenziale dell'inciso "…constati che i prodotti possano presentare un rischio immediato per la salute…", come una possibilità di effetti dannosi che necessita di approfondimento permanendo una situazione di incertezza scientifica.
Tuttavia, andranno chiariti ulteriormente i presupposti che fanno scattare il principio di precauzione: la possibilità di effetti dannosi per la salute e l'incertezza sul piano scientifico.
In primo luogo, si può argomentare che la possibilità di effetti dannosi non è ancora rischio, poiché questo si definisce in termini di probabilità, ossia grado elevato di possibilità, di un effetto dannoso conseguente ad un pericolo, la cui constatazione, o il cui accertamento, dipende dalle informazioni scientifiche disponibili: più numerose, fondate ed univoche sono tali informazioni, più si è in una situazione di probabilità di effetto dannoso e, quindi, in una situazione di rischio accertato, per la quale, più che all'applicazione dell'art. 7, si fa luogo, piuttosto, all'applicazione degli obblighi di cui all'art. 19 Regolamento, oppure alle misure di cui al par. 8 art. 14 Regolamento.
Ma in realtà il fattore chiave di attivazione del principio di precauzione è l'incertezza scientifica circa elementi ed informazioni utili per la valutazione e la gestione del rischio. Certamente questo concetto non può essere definito a contrario, in termini di assenza di certezza scientifica, in quanto, come è opinione comune e condivisa, nell'ambito che qui ci interessa la detta certezza scientifica non è un obiettivo, né un parametro dotato del carattere della realtà o raggiungibilità.
Abbandonato, quindi, il criterio a contrario, appare ipotizzabile un ragionamento in termini di insufficienza ed inadeguatezza delle informazioni scientifiche, in rapporto alla necessità, in primo luogo, di individuare e valutare un pericolo onde accertare la sussistenza o meno di un rischio (valutazione del rischio), in secondo luogo, di compiere scelte ed assumere decisioni di prevenzione e controllo, una volta accertata la sussistenza di un rischio (gestione del rischio).
In altre parole, la situazione di incertezza sul piano scientifico potrebbe essere definita come disponibilità di informazioni scientifiche insufficienti e/o inadeguate a supportare l'individuazione e la valutazione di un pericolo e le conseguenti scelte e decisioni che attengono alla gestione di un rischio.

L'informazione dei cittadini. Chi e quando: esigenza di un bilanciamento
All'art. 10 Regolamento è stabilito il principio dell'informazione dei cittadini sulla natura dei rischi per la salute. Lo scopo di tale principio è quello di conseguire e rafforzare la fiducia dei consumatori nella capacità della legislazione alimentare, e dei sistemi di applicazione della stessa, di fornire un livello di tutela elevato e comunque adeguato (cfr considerando n° 22).
In virtù di tale norma, di fronte a ragionevoli motivi di sospetto che un alimento o un mangime comporti un rischio per la salute umana o animale, l'autorità pubblica informa i cittadini su tale rischio e sulle misure adottate o da adottare, identificando il più possibile l'alimento o mangime o il tipo.
Non vi è dubbio che, oltre allo scopo di cui al citato considerando, l'informazione dei cittadini è strumentale alla tutela del diritto alla salute degli stessi, diritto fondamentale e prevalente sugli interessi economici connessi con la commercializzazione dei prodotti alimentari. 
Tuttavia, l'enunciazione di questo sacrosanto e doveroso principio pone subito due ordini di problemi, connessi con la necessità di contemperare tale principio con la tutela, parimenti importante, di una corretta e libera attività commerciale: chi è legittimato a rendere pubbliche informazioni relative ai rischi alimentari?; a che livello di certezza (o incertezza) circa la sussistenza del rischio si farà luogo a tali pubblicazioni, suscettibili di influenzare le scelte dei consumatori in rapporto ad un determinato prodotto alimentare o, addirittura, in rapporto ad un determinato marchio commerciale di prodotti alimentari?
Quanto al primo problema, lo stesso art. 10 indica le autorità pubbliche quali soggetti tenuti a fornire tali informazioni ai cittadini, senza, tuttavia, definirle ulteriormente, ma si ritiene che, sulla scorta di quanto già statuito con D.l.vo n° 115/'95, in attuazione della direttiva 92/59/CEE sulla sicurezza generale dei prodotti, nel nostro Paese sia ragionevole individuare l'Autorità sanitaria, per ovvie ragioni di competenza. Ma, come è noto, la definizione di Autorità sanitaria nel nostro Paese non indica un solo organo. Già l'art. 3 D.p.r. n° 327/'80 individuava come autorità sanitarie competenti, oltre al Ministero della Sanità, i competenti organi delle regioni e Provincie Autonome di Trento e Bolzano, nonché le (allora) Unità sanitarie locali, ora divenute Aziende Sanitarie Locali.
E', quindi, auspicabile che nel nostro Paese, in attuazione dei principi di cui al Regolamento, vi sia un intervento legislativo di adattamento che individui l'autorità pubblica appropriata a dare ai cittadini informazione corretta, sufficiente, appropriata e proporzionata dei rischi alimentari, e che dia una garanzia di obiettività ed autorevolezza, tenuto conto, altresì, dei limiti di cui all'art. 52, par. 1, 2° co. del Regolamento, riguardante le regole di riservatezza.
E', inoltre, necessario che si chiarisca la differenza tra informazione ai cittadini, per le finalità di cui al Regolamento, ed attività di comunicazione di dati scientifici e di studio, suscettibili di essere ancora confermati o smentiti da ulteriori verifiche ed analisi. Ciò allo scopo di evitare situazioni, pur già verificatesi, di ingiustificato discredito recato a prodotti alimentari o marchi commerciali dalla diffusione di dati scientifici non definitivi, da parte di laboratori di analisi, enti accademici o istituti di ricerca pubblici, o a disposizione di autorità pubbliche, ma certamente non titolari di funzioni e poteri di tutela e controllo (per non parlare di imprese concorrenti o soggetti a queste legati).
Quanto alla questione relativa al grado di ragionevolezza dei motivi di sospetto che giustificano l'informazione ai cittadini, si pone il dubbio se l'espressione "…vi siano ragionevoli motivi per sospettare che un alimento … possa comportare un rischio per la salute umana…", di cui all'art. 10, possa corrispondere all'inciso "… venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute, ma permanga una situazione di incertezza sul piano scientifico…" di cui all'art. 7 e che, come sopra spiegato, è presupposto per l'attivazione del principio di precauzione. Se così fosse, l'informazione dei cittadini potrebbe rientrare fra le misure provvisorie di gestione del rischio adottabili in attivazione del suddetto principio, e, comunque, finalizzate a garantire un livello elevato di tutela della salute. Conseguenza di questa ipotesi interpretativa sarebbe che anche l'informazione dei cittadini, come le altre misure adottate in via di precauzione, venga assoggettata ai limiti di cui all'art. 7, par. 2, ossia proporzionalità, stretta necessità e temporaneità per periodica revisione alla luce delle nuove informazioni scientifiche disponibili.
Questa interpretazione è suggerita anche dalla lettura dell'art. 52 del Regolamento, che detta regole di riservatezza per il sistema di allarme rapido. La norma, dopo aver riaffermato che di regola i cittadini sono informati ai sensi dell'art. 10 Regolamento con riguardo al rischio per la salute provocato da alimenti e mangimi, prevede, poi, che in taluni casi non siano rivelate informazioni raccolte in situazioni di sospetto di rischio, "eccezion fatta per le informazioni che devono essere rese pubbliche, quando le circostanze lo richiedano, per tutelare la salute umana". A chi scrive pare che tali circostanze non siano diverse da quelle che consigliano l'attivazione del principio di precauzione.

I requisiti di sicurezza: un nuovo sistema di rapporti tra legislazione comunitaria e legislazione nazionale in materia alimentare
All'art. 14 il Regolamento, dopo aver statuito il principio per cui non possono essere immessi sul mercato gli alimenti a rischio, definisce tali gli alimenti dannosi per la salute o inadatti al consumo umano, avuto riguardo alle normali condizioni d'uso ed alle informazioni a disposizione del consumatore. La norma ha, poi, cura di precisare che, per determinare se un alimento è dannoso, si ha riguardo agli effetti, anche cumulativi, non solo immediati e a breve e lungo termine, ma anche ai possibili effetti sui discendenti, oltre che alla particolare sensibilità di talune categorie di consumatori. E' considerato, invece, inadatto l'alimento che può dirsi inaccettabile per il consumo umano, in quanto contaminato da materiale estraneo, oppure alterato da putrefazione, deterioramento o decomposizione.
La norma introduce, poi, una innovazione interessante sotto il profilo dei rapporti tra normativa comunitaria e legislazione nazionale nel campo dell'alimentazione.
Il legislatore comunitario del Regolamento ha disposto al par. 7 dell'art. 14 un primato della normativa comunitaria nella definizione di un alimento come sicuro. Recita, infatti, tale paragrafo che "gli alimenti conformi a specifiche disposizioni comunitarie riguardanti la sicurezza alimentare sono considerati sicuri in relazione ad aspetti disciplinati dalle medesime". Solo "in assenza di specifiche disposizioni comunitarie, un alimento è considerato sicuro se è conforme alle specifiche disposizioni della legislazione alimentare nazionale dello Stato membro sul cui territorio è immesso sul mercato", (successivo par. 9) purché le disposizioni nazionali siano rispettose del Trattato, in particolare degli artt. 28 e 30, che vietano le disposizioni nazionali restrittive della libera circolazione delle merci, che siano mezzi di arbitraria discriminazione e non siano giustificate da motivi di ordine pubblico, tutela della salute e sicurezza delle persone, del patrimonio artistico e storico e della proprietà industriale e commerciale.
Come si può notare, è qui delineato un sistema gerarchico della normativa di conformità alla cui stregua un alimento è considerato sicuro: prevale, ove sussista, la normativa comunitaria.
Già in precedenti atti normativi comunitari è stata disposta una gerarchia di priorità della fonte di regolamentazione. Si ricorda, ad esempio, l'art. 4 Direttiva 92/59/CEE relativa alla sicurezza generale dei prodotti, in base al quale, solo se non esistono disposizioni comunitarie sulla sicurezza, un prodotto si considera sicuro se è conforme a normative nazionali specifiche; viceversa, ove le disposizioni comunitarie esistono, di esse si fa immediata e prioritaria applicazione.
Si ricorda, altresì, nel settore alimentare la Direttiva 97/4/CE che, modificando l'art. 5 della Direttiva 79/112/CE sull'etichettatura dei prodotti alimentari, dispone che la denominazione di vendita di un prodotto alimentare è quella prevista dalle disposizioni della Comunità europea ad esso applicabili, ed in mancanza di queste, sarà considerata la denominazione di vendita prevista dalle disposizioni normative dello Stato membro in cui il prodotto alimentare è venduto al consumatore finale.
Come si vede, dunque, la tecnica usata non è nuova, ma il suo impiego nel settore alimentare, generalizzato con il citato art. 14 del Regolamento generale che detta principi e criteri per l'intera legislazione alimentare, sposta notevolmente i parametri in base ai quali si è finora legiferato in questo settore.
Si rammenta che la produzione normativa in campo alimentare ormai da anni è caratterizzata da interventi comunitari, calati in consolidati contesti normativi nazionali, che necessitavano di ravvicinamento, onde appianare gli ostacoli allo sviluppo equilibrato ed armonico del mercato comune, interventi che, comunque, per avere efficacia dovevano attendere l'attuazione da parte dei legislatori nazionali (si pensi, ad esempio, all'art. 5 lett. g) della nostra L. n° 283/'62 con i relativi decreti ministeriali in materia di additivi, ora attuato col D.M. n° 209/'96, che recepisce le 5 direttive CE in materia di additivi). In talune eccezioni riservate ad ambiti ristretti le autorità comunitarie sono intervenute con regolamento (ad esempio, si rammenta il Reg. n° 2092/'91 in materia di produzioni biologica agricola ed agroalimentare), disciplinando la materia direttamente ed unitariamente e lasciando agli Stati membri la mera attuazione di dettagli applicativi.
Ora, con il sistema tracciato dai parr. 7 e 9 dell'art. 14 citato, è prefigurato un regime diverso, che, è prevedibile, vedrà impiegato lo strumento normativo del regolamento in prevalenza su quello della direttiva, di gran lunga maggiormente utilizzata fino ad ora. 
Ma ci si chiede da più parti come opererà questo sistema in caso di impiego, non escluso, dello strumento delle direttive, invece che del regolamento, nelle more della loro attuazione. Si ritiene qui che il problema possa essere risolto alla luce dei principi consolidati che governano l'efficacia del diritto comunitario in rapporto al diritto nazionale.
Innanzitutto, si noti come, benché il legislatore comunitario abbia fatto largo impiego delle direttive in materia di sicurezza alimentare, queste sono state sempre compilate con tale dettaglio da far ritenere in taluni casi che, al di là della veste formale, si trattasse di veri e propri regolamenti.
Non sarà difficile, quindi, attribuire un'efficacia diretta ed immediata alle direttive che contengano dettagliate disposizioni di conformità valide per attribuire sicurezza ad un alimento.
Come è noto, infatti, da tempo la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia CE ha attribuito tale efficacia alle direttive contenenti obblighi sufficientemente chiari e precisi da non richiedere, nella sostanza, un particolare intervento statale di attuazione, benché richiesto su un piano formale, ai sensi dell'art. 249, 3° co. Trattato CE (si veda ex plurimis Corte di Giustizia sentenza 19.01.1982 causa 8/81 Becker/Finanzamt Munster-Innenstadt; sentenza 22.09.1983 causa 271/82 Auer/Ministere Public et Ordre des Veterinaires de France).
Secondo questa ricostruzione, un'Autorità sanitaria nazionale non dovrebbe poter considerare insicuro un prodotto alimentare non conforme alla normativa nazionale, ma conforme ad una direttiva comunitaria, solo perché questa non è stata formalmente recepita in quel Paese (Corte di Giustizia sentenza 05.04.1979 causa 148/78, caso Ratti): ne sarebbe di ostacolo il sistema gerarchico stabilito ai parr. 7 e 9 art. 14 Regolamento, oltre il consolidato principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno. In quest'ottica, anche un Giudice ed un'Autorità amministrativa (come lo sono le Autorità sanitarie) sono tenuti a disapplicare una norma nazionale in contrasto con una direttiva (Corte di Giustizia sentenza 22.06.1989 causa 103/88 F.lli Costanzi/Comune di Milano; sentenza 23.11.1989 causa 150/88 Eau de Cologne/Provide; Pretura di Milano 14.11.1991 causa Villa Orietta/Centro Promozionale Editoriale), con possibili profili di responsabilità dello Stato membro per i danni patiti dai privati per il mancato recepimento di una direttiva (Corte di Giustizia sentenza 19.11.1991 causa 6-9/90 Francovich e Bonifaci/Repubblica Italiana). 
Superfluo dire che il principio varrà anche, e soprattutto, al contrario: non potrà essere considerato sicuro un alimento conforme a normativa nazionale, ma non conforme a normativa comunitaria sulla sicurezza.
Unica deroga al sistema ammessa dal Regolamento, è codificata al par. 8 del medesimo art. 14, in virtù del quale la conformità di un alimento alle specifiche disposizioni ad esso applicabili (siano esse comunitarie o nazionali, non importa) non impedisce l'adozione di misure restrittive, compreso il ritiro dal mercato, ove vi siano motivi di sospettare che, malgrado la conformità, l'alimento è a rischio. Siamo di fronte ad una tipica clausola di salvaguardia, applicabile in caso di difformità tra stato di sicurezza legale e stato di sicurezza reale di un alimento, con rilevanza prevalente attribuita a quest'ultimo, a prescindere dalla normativa di conformità applicabile.
E' ragionevole ritenere che anche qui potrebbe essere il principio di precauzione a fare da bussola, a fornire il criterio di adozione dei provvedimenti appropriati, e tale principio sarà applicato non in fase di produzione normativa, bensì in quella successiva di applicazione, o meglio, disapplicazione, delle disposizioni vigenti in materia di sicurezza alimentare.

Conclusione: gli obblighi delle imprese
In conclusione, preme evidenziare il prevedibile livello di impatto che questa normativa generale avrà sugli operatori che, come abbiamo sopra già detto, sono titolari diretti ed immediati di alcuni degli obblighi più importanti, ai fini della sicurezza alimentare, contenuti nel Regolamento in discussione. Preciso subito che tali obblighi saranno operativi dal 1° gennaio 2005, in quanto da tale data si applicheranno le norme che li contengono (soprattutto gli artt. 16, 17, 18, 19 e 20 Reg.).
Detti obblighi, che attengono all'autocontrollo, alla rintracciabilità, all'informazione dei consumatori e dell'Autorità sanitaria, alla lealtà e trasparenza del mercato, sono generali, applicabili a tutti gli operatori situati nel mercato comune, a prescindere dalle loro dimensioni. Tuttavia, come per altre normative (ad esempio, la normativa HACCP sull'igiene dei prodotti alimentari), non è da escludere che siano adottate disposizioni particolari per le piccole realtà produttive.
Su un piano comunitario, l'uniformità degli obblighi per gli operatori, instaurata con il Regolamento, consentirà un 'indubbio vantaggio sul piano della lealtà commerciale e della concorrenza. 
In questo momento le imprese europee del settore alimentare, malgrado gli sforzi di ravvicinamento delle legislazioni nazionali, sono ancora soggette, per taluni aspetti, a normative diverse in tema di tutela della salute e sicurezza dei consumatori. 
Questo genera indebiti vantaggi per coloro che sono soggetti a discipline meno restrittive. Inoltre, vi sono Stati che solo ora si affacciano all'Unione Europea per divenirne membri, i cui ordinamenti dovranno col tempo conformarsi all'acquis communautaire ed alla normativa derivata: ovvio che le imprese stabilite in detti Stati beneficerebbero di un vantaggio concorrenziale ingiusto ove le loro normative fossero meno avanzate nella tutela della sicurezza dei prodotti alimentari.
Sul piano nazionale, è probabile che, in verità, le imprese italiane, che siano rispettose della normativa nazionale di recepimento di quella comunitaria, non subiranno particolare impatto dall'entrata in vigore delle citate norme, in quanto gran parte degli obblighi in esse contenuti sono già patrimonio del nostro ordinamento giuridico, anche se, probabilmente, andranno meglio precisati alla luce del Regolamento stesso. Ad esempio, dovranno essere meglio definiti e posti in essere i corretti comportamenti volti a realizzare la effettiva rintracciabilità, lungo l'arco dell'intera filiera alimentare, dalla produzione primaria al commercio al dettaglio fino al consumatore finale. 
E', comunque, assolutamente prematuro in questa fase dare indicazioni più precise sulla profondità dell'impatto che l'innovazione legislativa portata dal Regolamento produrrà sui comportamenti operativi delle imprese, per le quali converrà attendere gli sviluppi legislativi ed applicativi che via via seguiranno sulla base del Regolamento medesimo.


Oltre ai testi normativi ed alla giurisprudenza citata, sono stati consultati i seguenti materiali:
- Codex Alimentarius, Edizione 1999;
- Parere del Comitato economico e sociale sul tema "Il ricorso al principio di precauzione" del 12.07.2000 in G.U.C.E. del 19.09.2000 n° C268;
- Relazione illustrativa di accompagnamento alla proposta di Regolamento della Commissione del 08.11.2000, in G.U.C.E. del 27.03.2001 n° C96 pag. 247;
- U. Daetta "Elementi di diritto dell'Unione Europea", Milano, Giuffré, 1999;
- Lionello ed Egidio Rizzati "Tutela igienico sanitaria degli alimenti e bevande e dei consumatori", 26^ Ed. Il Sole 24ORE.