Violenza sessuale di gruppo: sconto di pena per chi partecipa solo alla fase esecutiva dello stupro (Cass. pen. n. 40565/2012)

Redazione 16/10/12
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Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Messina con sentenza del 31 gennaio 2011, ha confermato la sentenza del G.U.P. del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto in data 22 giugno 2006, emessa all’esito di giudizio abbreviato, con la quale Di.No.A., era stato condannato alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione, nonché all’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, con condanna al risarcimento dei danni alla parte civile costituita, per i reati di cui all’art. 609 octies c.p. (capo a), per avere indotto Pe.S.M. a subire ripetuti atti sessuali da parte del gruppo (composto dai coimputati D’***** e *****) abusando dello stato di infermità fisica e psichica della persona offesa, determinata dall’abuso di sostanze alcoliche, mentre la stessa si trovava sull’imbarcazione (omissis), fatto commesso in Lipari-Panarea il 3 agosto 2001 e di cui agli artt. 110 c.p., 586, 590 c. 2 c.p. (capo b), perché, in concorso con gli altri, attraverso l’esecuzione del reato di cui al capo a), cagionava alla predetta persona offesa lesioni personali gravissime ed in particolare una malattia psicofisica probabilmente insanabile qualificata come “sindrome di grave anoressia nervosa”, in Panarea il 3 agosto 2001 e Lucca, nel febbraio 2002.
2. L’imputato ha proposto due separati ricorsi per cassazione, redatti dai propri difensori, avverso la sentenza, chiedendone l’annullamento per i motivi di seguito elencati che possono essere così riassunti in sintesi unitaria:
1) violazione di legge per omessa esclusione della parte civile, che risultava essere stata risarcita integralmente dai coimputati, giudicati separatamente, attesa l’indivisibilità e solidarietà nelle obbligazione ex delicto (ex artt. 2055 c.c. e 197 c.p.);
2) violazione ed erronea applicazione di legge quanto all’integrazione probatoria disposta con ordinanza G.U.P. del 18 novembre 2003, in sede di giudizio abbreviato ex art. 441 cpv. c.p.p., con la quale era stata disposta l’escussione della persona offesa, la sottoposizione dell’imputato a ricognizione da parte del teste Fo. e la perizia atta ad acclarare il nesso di causalità tra le lesioni subite dalla persona offesa ed i fatti, essendo stata eccepita l’inutilizzabilità dei risultati di tali atti, in quanto il giudice avrebbe snaturato l’istituto del giudizio abbreviato ponendo in essere una vera e propria attività inquisitoria;
3) mancanza di motivazione quanto alla richiesta rinnovazione dibattimentale ex art. 603 c.p.p., in relazione all’escussione dei testi Di.Co., Ci., D’An., Es., Sa., Bo. e altri, e per la trascrizione della telefonata n. 48, intercettata sull’utenza telefonica in uso alla Qu.;
4) violazione di legge e vizio di motivazione, in riferimento alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, le quali aveva ragioni di “interesse morale” nell’individuare il terzo stupratore per attribuire conferma al proprio racconto, non potendo ammettere davanti ai propri genitori di essere stata così ubriaca da non ricordare chi fossero gli autori delle violenze;
5) violazione dell’art. 192 c. 1 c.p.p., per l’errore di valutazione circa il racconto del terzo aggressore, indicato come ragazzo con i capelli biondi e gli occhi chiari, in evidente contrasto con la fisicità dell’imputato, che è castano e con gli occhi marroni: la Corte avrebbe ritenuto irrilevante il fatto sulla base della circostanza notoria che sarebbe stato il sole a schiarire i capelli e che sia possibile utilizzare accorgimenti per cambiare il colore degli occhi;
6) illogicità, contraddittorietà e mancanza della motivazione per travisamento, quanto allo stato di ubriachezza della persona offesa, fondate sulla testimonianza della coetanea e amica (Qu.), che ebbe a notarne semplicemente il comportamento esibizionista ed omesso esame delle deduzioni difensive e della consulenza tecnica di parte sui postumi della violenza, tenuto conto dello stato di ubriachezza della stessa, in relazione all’incompatibilità di tali riscontri con il racconto della ragazza; il racconto della ragazza (che aveva dichiarato di aver subito numerosi penetrazioni, anche anali, alle quali non era adusa) non aveva trovato riscontro negli esiti del referto medico della visita effettuata circa 40 ore dopo, atteso che non risultava che lo stato di ubriachezza fosse così piena da avere eventualmente provocato il rilasciamento dello sfintere vescicale con perdita di urina;
7) mancanza, contraddittorietà ed inosservanza delle regole di interpretazione della prova in relazione alla prova di alibi fornita dal Di.No.: la sentenza avrebbe ricostruito la sua responsabilità ex post, sulla base del riconoscimento del Di.No. quale ragazzo che la persona offesa aveva incontrato alla discoteca (omissis) il giorno dopo i fatti. Peraltro le dichiarazioni della ragazza, che fu ascoltata cinque volte, riferendo particolari spesso contraddittori, non risulta attendibile intrinsecamente, in quanto la stessa ha individuato il Di.No., solo in base ad una ricostruzione ex post, all’esito del colloquio avuto con lo stesso in discoteca il giorno dopo. La persona offesa, ascoltata all’udienza del 21 febbraio 2004 aveva confermato di non sapere se il ricorrente era uno degli stupratori, per cui aveva coltivato la conversazione con il Di.No. incontrato in discoteca proprio per saperlo. La sentenza impropriamente fa riferimento alla ricognizione di persona da parte del teste Fo. all’udienza del 20 aprile 2004, quando invece in tale occasione il teste avrebbe unicamente confermato che l’imputato era il ragazzo che la persona offesa aveva incontrato in discoteca. Inoltre la sentenza risulterebbe illogica per la ricostruzione dei fatti, avendo i giudici ricostruito le modalità della consumazione della violenza interpretando soggettivamente le dichiarazioni rese dalla teste Qu., che aveva dichiarato di essersi recata a cercare l’amica con un ragazzo alto (che i giudici di merito identificano con il Di.No., il quale sarebbe ridisceso per unirsi alla violenza sessuale di gruppo), senza tenere conto che le dichiarazioni dei testi a discarico avevano evidenziato una successione dei fatti che non collimava con tale ricostruzione, né con lo svolgimento delle violenze descritta dalla Pe.; i giudici avrebbero travisato la testimonianza della Qu. e la prova di alibi, ritenendo da un lato, i testi a discarico non attendibili per la difficoltà di attribuire una scansione temporale agli eventi, dall’altro, contraddittoriamente, ricostruendo gli stessi senza considerare che analoghi errori di collocazione temporale potrebbero avere inficiato le dichiarazioni dei testi di accusa;
8) mancata, contraddittoria motivazione e violazione di legge in riferimento al reato di cui all’art. 586 c.p. contestato al capo b), atteso che lo stesso, deve considerarsi procedibile a querela e comunque il nesso causale tra la patologia ed i fatti di cui è processo, non era stata confermata né dal perito, né dal consulente di parte; inoltre non risulta dimostrato l’elemento psicologico della colpa necessario per configurare il reato di cui si tratta;
9) violazione e falsa interpretazione ex art. 159 c.p. in relazione al reato di cui sub b), del quale è eccepita la prescrizione, in quanto il reato di lesioni colpose doveva considerarsi prescritto, senza considerare il rinvio del dibattimento per legittimo impedimento dell’imputato;
10) mancanza di motivazione sulla mancata concessione della circostanza attenuante di cui al quarto comma dell’art. 609 octies c.p. e sulla dosimetria della pena.
All’udienza i difensori hanno prodotto verbale di remissione e contestuale accettazione di querela, da parte della persona offesa, in data 18 aprile 2012.

Considerato in diritto

1. Deve essere innanzitutto respinto il primo motivo di ricorso, che in realtà costituisce una mera riproposizione dei quanto già era stato eccepito in grado di appello a proposito degli ipotizzati effetti estensivi della sottoscrizione dell’atto di transazione relativo alle pretese risarcitorie nei confronti dei coimputati Co. e D’Am., con il quale la parte civile si era impegnata a revocare l’avvenuta costituzione di parte civile. Va premesso che la verifica dei contenuti di tale accordo costituisce giudizio di merito e che i giudici di appello hanno condiviso la valutazione espressa già dal giudice di prime cure, relativa al fatto che il negozio transattivo risultasse chiaramente limitato alla responsabilità del solo coimputati e non potesse essere riferito al danno subito in conseguenza dell’intero fatto delittuoso come posto in essere, per cui dovesse considerarsi persistente un danno tuttora risarcibile in relazione agli effetti della condotta tenuta dal Di.No. (cfr. parte motiva Sez. 4, n. 40288 del 27/9/2007, dep. 31/10/2007, ***********).
2. Quanto al secondo motivo di ricorso, lo stesso è infondato. La vigente configurazione del giudizio abbreviato consente l’utilizzo da parte del giudice dei poteri di integrazione probatoria di ufficio ex art. 441 c.p.p.. È stato affermato che “La valutazione della “necessità” dell’integrazione probatoria nel rito abbreviato (sia d’ufficio che su richiesta dell’imputato) non è condizionata alla sua complessità od alla lunghezza dei tempi dell’accertamento probatorio, e non si identifica con l’assoluta impossibilità di decidere o con l’incertezza della prova, ma presuppone, da un lato, l’incompletezza di un’informazione probatoria in atti, e, dall’altro, una prognosi di positivo completamento del materiale a disposizione per il tramite dell’attività integrativa” (cfr. Sez. 6, n. 11558 del 23/1/2009, dep. 17/03/2009, *********) ed inoltre il potere di integrazione probatoria rientra nell’ambito di valutazione di merito del giudice, che può essere esercitato in qualunque momento, anche dopo la chiusura della discussione, non può essere censurato in sede di legittimità (si veda la parte motiva di Sez. 6, n. 30590 del 16/6/2010, dep. 2/8/2010, C., confermativa del principio espresso già da Sez. 5, n. 19388 del 9/5/2006, dep. 6/6/2006, Biondo, la quale ha ribadito la possibilità anche per la Corte di appello di rinnovare una prova quanto la si ritenga assolutamente necessaria anche in relazione ad un procedimento svoltosi in primo grado con il rito abbreviato, esercitando la menzionata facoltà di integrazione probatoria.)
3. Per quanto concerne il terzo motivo, con il quale viene censurata la mancata rinnovazione probatoria relativa alla nuova assunzione di testimoni ed alla trascrizione della telefonata indicata, è bene rammentare che la celebrazione del processo nelle forme del rito abbreviato, se non impedisce al giudice di appello l’esercizio di ufficio di poteri di integrazione probatoria, impedisce di poter ritenere che l’imputato abbia diritto a richiedere la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, con corrispondente obbligo per il giudice di motivare il diniego di tale richiesta (cfr. Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Sermone e altri).
Di conseguenza, il mancato esercizio da parte del giudice d’appello dei poteri officiosi di rinnovazione dell’istruttoria, sollecitato a norma dell’art. 603, c. 3, c.p.p., dall’imputato che abbia optato per il giudizio abbreviato c.d. “secco”, non costituisce un vizio deducibile mediante ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, c. 1, lett. d), c.p.p. (Sez. 6, n. 7485 del 16/10/2008, *******).
Va infatti premesso che, in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello di cui all’art. 603 c.p.p., fermo restando il caso in cui siano state scoperte o siano sopravvenute nuove prove dopo il giudizio di primo grado, il giudice provvede secondo le regole ordinarie (comma 2), mentre nel caso in cui si tratti di prove non assunte o di richiesta di riassunzione di prove già acquisite dispone la rinnovazione solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (comma 1). Oltre a questi casi, il giudice può disporre d’ufficio la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale quando le parti siano rimaste inerti o siano decadute – solo se la ritiene assolutamente necessaria (comma 3: norma corrispondente a quella contenuta nell’art. 507 c.p.p., comma 1, per il giudizio di primo grado).
La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto con orientamento costante che l’iniziativa diretta al completamento del quadro probatorio -in particolare per quanto attiene all’assoluta necessità (da ritenere evenienza eccezionale: v. Cass., sez. 2, 1 dicembre 2005 n. 3458, Di Gloria) – sia fondata su una valutazione attribuita in via esclusiva al giudice di merito e da ritenere insindacabile nel giudizio di legittimità ove sia logicamente e adeguatamente motivata la valutazione sulla possibilità di decidere allo stato degli atti (in questo senso v. Cass., sez. 4, 19 febbraio 2004 n. 18660, *********; sez. 2, 4 novembre 2003 n. 45739, ********; sez. 6, 2 dicembre 2002 n. 68, *******).
Questi principi, esaminati in riferimento al giudizio di appello nel rito abbreviato, debbono essere adattati alle peculiarità del rito speciale. La giurisprudenza ha ritenuto sin dalla sentenza delle sezioni unite 13 dicembre 1995 n. 930, ******, che, pur dovendosi escludere ogni potere di iniziativa delle parti, avendo esse rinunziato al diritto alla prova, che il giudice può disporre d’ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della sua decisione. Principio che deve essere ritenuto di valenza attuale anche dopo la riforma del giudizio abbreviato intervenuta nel 1999, che ha consentito la richiesta condizionata del rito speciale subordinata all’ammissione delle prove richieste, confermando che in ogni caso la richiesta di rito abbreviato comporta rinunzia all’assunzione di prove diverse da quelle alle quali è stata subordinata la richiesta. Mentre la scelta del giudizio abbreviato comporta l’accettazione di ogni elemento di valutazione (salvo, ovviamente, quelli affetti da inutilizzabilità patologica) per cui deve ritenersi insindacabile la valutazione del giudice d’appello che abbia motivatamente ritenuto che il mezzo di prova richiesto non fosse assolutamente necessario ai fini della decisione.
4. Per quanto attiene ai motivi di ricorso nn. 4, 5, 6 e 7, gli stessi non sono fondati e ripropongono alcuni degli argomenti già contenuti nelle censure di appello.
Come è noto, quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo (Così, tra le altre, Sez. 2, n. 5606 dell’8/2/2007, ******** e altro; Sez. 1, n. 8868 dell’8/8/2000, *********; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, *********). Tale integrazione tra le due motivazioni si fa verifica allorché i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico- giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (Cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, ***********). Compito del giudice di legittimità nel sindacato sul vizi della motivazione non è, infatti, quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dal giudici di merito, ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando completa e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
Pertanto, “la denunzia di minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione (ma che non siano inequivocabilmente muniti di un chiaro carattere di decisività), non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto” (Cfr. Sez. 2, n. 18163 del 6/5/2008, *******) e neppure la eventuale presenza di deduzioni logiche ulteriori che siano superflue ed estranee rispetto ai temi di prova del processo, la cui messa in discussione da parte del ricorrente non possa scalfire le emergenze probatorie relative al nucleo del fatto e delle responsabilità.
5. La sentenza impugnata ha fornito ampia e congrua motivazione, in linea con le valutazioni già espresse dal giudice di primo grado, circa la attendibilità della persona offesa, le cui dichiarazioni, sia extraprocessuali, che nel corso delle indagini, che nel processo (rese all’udienza innanzi al GUP il 23 aprile 2008), sono state vagliate con estremo dettaglio ed attentamente esaminate nella parte motiva della sentenza di primo grado, la quale forma un unico compendio motivazionale con quella impugnata (si vedano, tra le altre, Sez. 2, n. 5606 dell’8/2/2007, ******** e altro; Sez. 1, n. 8868 dell’8/8/2000, *********; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, *********). Tale integrazione tra le due motivazioni si è verificata in quanto i giudici di secondo grado hanno esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed al passaggi logico-giuridici della decisione, anche perché i motivi di appello non hanno riguardato elementi nuovi, ma si sono limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (Cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, ***********).
È ben possibile, per giurisprudenza costante, che il giudice tragga il proprio convincimento circa la responsabilità dell’imputato anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192, c. 3 e 4 c.p.p. che richiedono la presenza di riscontri esterni (cfr., per tutte, Sez. 1, n. 29372 del 27/7/2010, *********).
6. Venendo al reato ascritto di cui al capo a), questa Corte si è già espressa in relazione agli elementi costitutivi dei reati di violenza sessuale, che si caratterizzano innanzitutto dall’abuso delle condizioni di inferiorità psichica della persona offesa (a tale proposito si richiama la sentenza Sez. 3, n. 44978 del 22/10/2010, dep. 22/12/2010, C.) e tali linee interpretative non possono che essere qui confermate.
È stato anche precisato che l’induzione a compiere o subire atti sessuali si realizza quando, con un’opera di persuasione sottile e subdola, l’agente spinge, istiga o convince la persona che si trova in stato di inferiorità ad aderire ad atti sessuali che diversamente-non avrebbe compiuto (sez. 3, n. 20766 del 3/6/2010, T. e altro). Quanto all’abuso, è stato ribadito che lo stesso consiste nel doloso sfruttamento da parte dell’autore del reato, delle condizioni di menomazione della vittima, che viene strumentalizzata con l’obiettivo di accedere alla sua sfera intima a fini di soddisfacimento degli impulsi sessuali (cfr., tra le altre, sez. 4, n. 40795 del 3/10/2008, ******, che ha affermato in tema di violenza sessuale al danni di soggetti che si trovano in stato di inferiorità fisica o psichica, l’induzione sufficiente alla sussistenza del reato non si identifica solamente nell’attività di persuasione esercitata sulla persona offesa per convincerla a prestare il proprio consenso all’atto sessuale, bensì consiste in ogni forma di sopraffazione posta in essere, senza ricorrere ad atti costrittivi ed intimidatori nel confronti della vittima, la quale, non risultando in grado di opporsi a causa della sua condizione di inferiorità, soggiace al volere dell’autore della condotta, divenendo strumento di soddisfazione delle voglie sessuali di quest’ultimo; sez. 3, n. 2646 del 27/1/2004, *****).
Quindi, indurre ad un atto sessuale mediante abuso delle condizioni di inferiorità psichica altro non è che approfittare e strumentalizzare tali condizioni per accedere alla sfera intima della sessualità della persona, che a causa della sua vulnerabilità, connessa all’infermità psichica, viene ad essere utilizzata quale mezzo per soddisfare le voglie sessuali dell’autore o degli autori di tali comportamenti, per cui gli stessi “fruiscono” del corpo della persona la quale, per effetto di tali comportamenti, da soggetto di una relazione sessuale, viene ridotta al rango di “oggetto” dell’atto sessuale e di più atti sessuali.
Naturalmente è compito del giudice di merito verificare, con un’indagine adeguata e dandone conto nella motivazione, la situazione di inferiorità psichica della vittima, le modalità con le quali l’agente ha posto in essere comportamenti di induzione all’atto sessuale, abusando delle predette condizioni e la consapevolezza di abusare della vittima per fini sessuali.
7. Nel caso di specie, i giudici di primo e secondo grado hanno bene evidenziato che la situazione di inferiorità psichica era stata cagionata da precedenti comportamenti, posti in essere da altri coimputati, i quali nel corso della festa estiva organizzata nell’imbarcazione (omissis), avevano dapprima offerto da bere sostanze alcooliche alla Pe. e poi l’avevano a forza aperto la bocca versandole altre bevande alcooliche, fino a farla ubriacare, inducendola inizialmente ad assumere un atteggiamento più sciolto (quasi disinibito, secondo quanto riferito dalla amica Qu.) durante i balli che scandivano la festa, e poi rendendola ubriaca a tal punto che la stessa non solo barcollava (tanto che furono in due a sorreggerla per farle scendere le scale verso la cabina) ma aveva finito con il trovarsi in una condizione di stordimento e di assoluta incapacità di ogni reazione poiché, come la sentenza impugnata riferisce (pag. 48) la stessa durante la violenza, non riusciva neppure a pensare con lucidità.
Tale stato aveva reso facile le condotte ingannatorie dei due coimputati, i quali, alla richiesta della stessa di andare via dalla barca perché non stava bene, con la scusa di accompagnarla in cucina sotto-coperta per darle da bere dell’acqua e poi di farla riposare in una cabina, l’avevano ivi sottoposta, abusando delle sue condizioni di minorata capacità fisica e psichica, a ripetuti rapporti sessuali, ai quali si erano aggiunti altri ragazzi, alcuni nel solo riprovevole ruolo di “guardoni” e l’imputato, quale attivo “profittatore” della facile ed inerme preda.
Risulta pertanto che i giudici di merito hanno correttamente riconosciuto la sussistenza dell’elemento oggettivo ed anche soggettivo del reato di violenza sessuale di gruppo come contestato, prendendo a base lo stato di incapacità della persona offesa derivante dall’assunzione di alcool (in fattispecie simile, cfr. Sez. 3, n. 1183 del 23/11/2011, dep. 16/1/2012, E.).
A tale proposito, quanto alla sussistenza dello stato di ubriachezza della Pe., la contestazione della difesa risulta del tutto infondata. La stessa è stata basata sulla testimonianza della Qu. sopra riferita, peraltro relativa ad una fase precedente di quella nella quale fu posta in essere la violenza, pertanto in conferente, e su una contorta argomentazione circa la veridicità degli atti di sodomizzazione, che avrebbero potuto essere facilitati dallo stato di rilassatezza del muscoli e tessuti dovuti all’assunzione di sostanze alcooliche (spiegandosi in tal modo il contenuto del referto), situazioni che, secondo il consulente tecnico di parte, avrebbero dovuto comportare la perdita di urina, che non risultava essersi verificata. La sentenza impugnata ha fornito puntuale risposta alla specifica tematica, anche in relazione ai postumi fisici immediati della violenza, con motivazione congrua ed immune da smagliature logiche, né questa Corte può essere chiamata ad una rivalutazione in punto di fatto.
8. Per quanto attiene alla censura di maggiore rilevanza nel presente processo, relativa all’attendibilità della ragazza quanto alla sua individuazione del Di.No. quale terzo autore degli abusi, fondata sulle divergenze tra le caratteristiche fisiognomiche del Di.No. e su asserite discrasie tra i racconti della Pe. (quello reso al PM e quello durante la testimonianza in sede di giudizio abbreviato), deve essere evidenziato che le stesse trovano una logica spiegazione, come anche ritenuto dai giudici di merito e comunque non rilevano, posto che il tema fondamentale nel processo è rappresentato dall’esame dell’ attendibilità della persona offesa nell’individuazione dell’imputato quale autore della violenza, non già perché la stessa ne avesse memorizzato i tratti fisiognomici durante i fatti di violenza, ma perché la stessa, incontrato il gruppo del ragazzi della festa la sera successiva nella discoteca del Nirvana, aveva avuto un colloquio nel quale lo stesso Di.No. gli aveva fatto capire con certezza di avere avuto un rapporto sessuale con lei durante la festa.
Infatti, è bene sottolineare che la ricostruzione degli eventi del pomeriggio dei fatti e della violenza sessuale di gruppo non avrebbe mai potuto essere ricostruita nel processo con certosina esattezza, posto che sia i vari testi, anche quelli della difesa, si trovavano ad una festa su una barca, con un centinaio di persone, dove si ballava, si beveva, per cui la determinazione degli orari, degli spostamenti non può essere ricostruita che per approssimazione, come hanno del resto fatto i giudici di merito nelle loro sentenze.
Per quanto attiene poi al racconto della Pe., è evidente che il suo stato di ebbrezza ha inficiato le sue stesse capacità di memorizzare con esattezza tutti i fatti e la successione degli atti sessuali ai quali è stata sottoposta, dei quali è stata l’unica testimone, naturalmente, e soprattutto a memorizzare le fisionomie degli altri ragazzi (diversi da quel F. ed il cugino di questi G., autori dell’induzione all’ebbrezza con le modalità appena menzionate) presenti nella cabina ove la stessa era stata violentata, in particolare, del terzo ragazzo, alto e con i capelli rasati biondi, che aveva approfittato del suo stato congiungendosi carnalmente con lei, anche con un rapporto anale, dopo i primi due.
I giudici di merito hanno chiarito, con motivazione ampia e di sicura tenuta logica, quello che conta, ossia che fu il Di.No. a palesarsi come terzo componente degli esecutori materiali del reato durante il colloquio con la persona offesa nell’incontro nella discoteca Nirvana, in pratica confessando alla vittima quanto anch’egli aveva fatto. Il contenuto della conversazione è inequivocabile, secondo il racconto della persona offesa, la cui veridicità ha trovato conferma non solo nelle dichiarazioni del teste Fo. (il carabiniere che avrebbe fornito un appoggio psicologico alla diciottenne consigliandole di sporgere denuncia) e nella testimonianza de relato dell’amica Qu., ma soprattutto nella narrazione che la Pe. aveva fatto di tale incontro ad un amico nella telefonata intercettata, dal quale emerge che la ragazza, proprio perché ricordava poco di quanto accaduto aveva utilizzato l’approccio dell’imputato (volto in sintesi ad ottenere un rapporto sessuale consenziente con la stessa) per avere informazioni sulle persone presenti agli abusi sessuali consumati in quella cabina nel pomeriggio del giorno precedente. Questo dato incontrovertibile, svuota di valenza le doglianze che fanno perno sulla descrizione fisiognomica, relativa al colore degli occhi (elemento riferito invero dalla Qu.) ed al colore dei capelli, che hanno condotto i giudici di merito a defatiganti, quanto inutili, ipotesi. La persona offesa quando presenta la denuncia aveva descritto il terzo che gli si era palesato come compartecipe dello stupro di gruppo nella discoteca, quale lo aveva visto in quel momento (alto, con i capelli “rasati quasi a zero, biondi naturale”) ed ha poi riconosciuto il Di.No. nel corso dell’esame testimoniale, reso il 24 settembre 2004, come il ragazzo con il quale aveva parlato in discoteca. Ma è lo stesso imputato ad avere confermato il colloquio con la Pe. (seppure dando allo stesso un diverso contenuto), per cui le eventuali considerazioni fatte sul citati dati descrittivi non rappresentano altro che una forma di critica alla capacità descrittiva della persona offesa del colore dei capelli del Di.No., priva di alcuna rilevanza.
9. Per quanto attiene all’ottavo motivo di ricorso, relativo al reato di cui sub b), osserva il Collegio che i giudici di merito hanno invece dato conto del collegamento intercorso tra il grave reato subito e la modifica esistenziale manifestata dalla persona offesa, caratterizzatasi da un quadro psicopatologico di grave anoressia nervosa (pp. 60 e ss della sentenza), motivando anche in relazione alla sussistenza del nesso psicologico del reato aggravato dall’evento, che richiede che l’evento conseguenza non voluta del primo reato sia quanto meno prevedibile in capo al soggetto attivo, facendo richiamo alla particolare brutalità dell’approfittamento posto in essere nei confronti della diciottenne ed allo stesso comportamento anche susseguente al reato tenuto dall’imputato.
Peraltro deve essere osservato che il reato di cui all’art. 586 c.p. non era affatto prescritto alla data di pronuncia della sentenza di appello – con ciò dovendosi respingere il nono motivo di ricorso, atteso che al termine lungo di sette anni e mezzo (scaduto il 3 aprile 2010) dovevano essere aggiunti i periodi di sospensione nel giudizio di secondo grado per legittimo impedimento del difensore (dal 10 giugno 2008 all’11 novembre 2008; dal 6 aprile 2009 al 6 luglio 2009; dal 6 luglio 2009 al 10 febbraio 2010; dal 10 febbraio 2010 al 12 luglio 2010; ciascuno periodo per un computo di giorni sessanta e per un totale di 240 giorni) e per richiesta di rinvio il periodo dall’11 novembre 2010 al 31 gennaio 2011 (per un computo di 79 giorni) per complessivi giorni 319; per cui correttamente l giudici di appello non lo ritennero prescritto. Di contro questo Collegio osserva che il reato in questione si è estinto per prescrizione in data 17 febbraio 2011, e quindi comunque anteriormente alla rimessione di querela effettuata dalla persona offesa in data 18 aprile 2012. Risulta perciò superfluo l’esame della questione circa la procedibilità a querela o meno del reato di cui all’art. 586 c.p., proposta tra i motivi di ricorso ed evidenziata dal difensori in sede di discussione.
10. Deve invece essere accolto l’ultimo motivo di ricorso, con il quale è stata lamentata la carenza di motivazione in relazione alla mancata concessione all’imputato dell’attenuante di cui all’ultimo comma dell’art. 609 octies c.p., prevista per il caso in cui l’opera del partecipe “abbia avuto minima importanza nella preparazione o nella esecuzione del reato”. Infatti in relazione al reato di violenza sessuale di gruppo non può essere applicata la circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis c.p., essendo questa specifica solo per la fattispecie monosoggettiva (cfr. Sez. 3, n. 42111 del 12/10/2007, dep. 15/11/2007, ******), mentre è stabilita l’attenuante suddetta, peraltro analoga nei contenuti alla previsione di cui all’art. 114, comma 1 c.p..
In effetti, i giudici sia di primo che di secondo grado hanno ampiamente dato conto del disvalore del reato commesso in danno della Pe. nel corpus della parte motiva della sentenza impugnata, anche in relazione alle conseguenze psico-fisiche dalla medesima subite, ma non hanno per nulla esaminato le due diverse fasi della violenza di gruppo come ricostruite all’esito del processo: risulta infatti acclarato che l’imputato nessuna parte ebbe nella fase, di consistente durata temporale, della preparazione del reato (ossia all’induzione e costrizione all’assunzione di bevande alcooliche della Pe., posta in essere durante la festa), mentre partecipò attivamente (ma dopo le violenze sessuali poste in essere da F. e dal cugino) alla sola seconda parte della fase esecutiva dello stupro. Per cui la motivazione della sentenza circa la possibilità di valutare tali elementi, al fine di eventualmente riconoscere al Di.No. una diminuzione di pena in relazione alla concreta partecipazione al fatto, risulta insufficiente.
Va del pari accolta la censura di mancanza di motivazione quanto alla richiesta di ulteriore mitigazione della pena. Nonostante i giudici abbiano evidenziato il diverso ruolo dell’imputato, che di certo non concorse a fare ubriacare la ragazza con la prospettiva di poterne approfittare sessualmente, seppure, avutane l’occasione, strumentalizzò il suo stato di infermità e ne abusò sessualmente, hanno omesso di valutare le citate circostanze per valutare l’adeguatezza della dosimetria della sanzione comminata.
Di conseguenza la sentenza impugnata deve essere annullata in parte, limitatamente al capo della condanna relativo al capo b), in quanto il reato è estinto per prescrizione, con eliminazione della pena corrispondente e per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio in riferimento al reato contestato al capo a), con rinvio alla Corte di appello di Reggio Calabria, che provvederà anche in relazione all’eliminazione della pena accessoria comminata dell’interdizione dai pubblici uffici, verificando anche il disposto di cui all’art. 609 nonies, comma 1 c.p..

 

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo b) perché estinto per prescrizione, eliminando la relativa pena ed annulla la sentenza impugnata, limitatamente al trattamento sanzionatorio per il reato di cui al capo a), con rinvio alla Corte di appello di Reggio Calabria per la rideterminazione della pena. Rigetta nel resto.

Così deciso in Roma, il 19 aprile 2012

Redazione