Violato il patto di esclusiva di un agente: spettano all’agente a titolo di risarcimento del danno soltanto gli importi per le provvigioni non corrisposte (Cass. n. 533/2013)

Redazione 10/01/13
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo

Con sentenza non definitiva n. 250 del 12.4.2005 la Corte di appello di Catania, in parziale accoglimento dell’appello proposto da G.B. , ha dichiarato il suo diritto a percepire le provvigioni dovute in relazione ai contratti di assicurazione stipulati dalla (omissis) s.p.a. nella zona di pertinenza dell’Agenzia di (omissis) con i dipendenti della ex Cassa (omissis) ed ha disposto la prosecuzione del giudizio per l’accertamento delle somme per tali titoli spettanti.
Con sentenza definitiva n. 835 del 5.11.2009, in esito ad una consulenza contabile, la stessa Corte ha quindi condannato la (omissis). s.p.a. al pagamento in favore del B. della somma di Euro 16.928,94 – comprensivi degli acconti già erogati durante il giudizio – oltre interessi e rivalutazione monetaria sulla sorte capitale progressivamente rivalutata dalla maturazione del diritto alla sentenza ed ulteriori interessi fino al saldo.
Nella sentenza non definitiva la Corte territoriale, esaminate le convenzioni sottoscritte dalla (omissis) s.p.a. e la lettera di incarico del 1.10.1971, ha accertato la sussistenza di un diritto di esclusiva in favore del B. limitatamente alla convenzione con la Cassa (omissis), stante la possibilità assegnata all’agente di praticare in relazione ai vari rami condizioni di maggior favore rispetto a quelle ordinariamente praticate dalla (omissis) s.p.a., con necessità per l’agente di svolgere una attività promozionale di convincimento personale, di esplicazione delle varie offerte e di indirizzo del destinatario verso una delle possibili e numerose combinazioni.
Quindi, ed in tali limiti, la Corte d’Appello ha accertato la violazione dell’obbligo del preponente di impedire l’invasione sistematica da parte di altri agenti della zona affidata al B. , ed una diretta responsabilità della società per la violazione del diritto di esclusiva dell’agente. Inoltre ha escluso che, sulla base della documentazione prodotta, fosse maturata la prescrizione decennale, connessa alla natura contrattuale dell’inadempimento da risarcire, escludendo invece la spettanza delle indennità di cui agli artt. 20,25, 27, 28 e 33 dell’accordo nazionale del 16.9.1991 sul rilievo che si trattava di provvigioni (art. 20) ed indennità (artt. 25, 27, 28 e 33) dovute in relazione allo scioglimento del rapporto sulla base di polizze effettivamente stipulate mentre invece le somme da liquidarsi erano state chieste dall’agente a titolo risarcitorio in considerazione dell’esecuzione non corretta del contratto.
Nel proseguire il giudizio per la quantificazione del danno, la Corte d’Appello ha disposto una consulenza contabile che ha richiesto alcune integrazioni, tanto che in corso di causa, ex art. 423 c.p.c. ha liquidato l’importo accertato di Euro 11.669,97.
Quindi, richiamato il contenuto della sentenza non definitiva anche con riguardo alla natura contrattuale del risarcimento, solo parametrato alle provvigioni non riscosse, ed alla conseguente durata decennale della prescrizione, ha sottolineato che per gli anni in cui il B. era stato titolare di rapporti di coagenzia (circostanza questa accertata con la sentenza della Cassazione n. 11044/2000, passata in giudicato relativa alle spettanze conseguenti alla risoluzione ad nutum del contratto) sussisteva un parziale difetto di legittimazione attiva del B.
Quanto alle somme dovute a titolo di danno da lucro cessante, calcolate dal CTU in Euro 17.819,93, il giudice d’appello ha detratto dalle provvigioni le spese di produzione connesse alla predisposizione di una organizzazione per la promozione e conclusione dei contratti, che ha, in via equitativa, commisurato al 5% dell’importo totale e, dunque, liquidato in Euro 890,99.
Infine ha dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento del danno per perdita di chance evidenziando che si trattava di domanda nuova, proposta per la prima volta in appello.
Per la cassazione parziale delle sentenze propone tempestivo ricorso il B. (che aveva presentato riserva di impugnazione della sentenza non definitiva), affidato a quattro motivi.
Resiste con controricorso la A. s.p.a. (già (omissis) s.p.a.). La A. s.p.a. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Il ricorrente, dopo aver premesso che le censure formulate nel ricorso attengono sia alla sentenza non definitiva (la n. 250 del 2005) relativa all’an debeatur, sia quella definitiva che ha liquidato il quantum (la n. 835 del 2009), ha poi così precisato i motivi di ricorso:
1.- con riguardo alla sentenza che ha definito il giudizio in punto di responsabilità contrattuale della società per violazione dell’art. 6 A.N.IA. del 1981 che impone alla preponente, non solo di non invadere il territorio su cui l’agente ha l’esclusiva, ma anche di impedire comportamenti di usurpazione tenuti da altri agenti.
Sostiene il B. che la sentenza non definitiva avrebbe, con violazione dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., escluso che due delle tre convenzioni stipulate dall’agente con l’allora (omissis) s.p.a.(oggi A.s…) vale a dire con il (omissis) e con il Ministero (omissis), non richiedessero un ruolo potenziale ed attuale delle agente nel “conquistare ” il consenso degli assicurati, e non comportassero quindi, ove godano del diritto di esclusiva, il diritto di veder attribuito nel portafoglio dell’agente le polizze che riguardavano assicurati facenti capo al territorio di competenza.
In particolare ad avviso del B. il giudizio della Corte d’appello sarebbe stato fuorviato, per quanto riguarda il (omissis), dalla considerazione “di una convenzione secondaria riguardante polizze sanitarie del solo personale dirigenziale”, mentre, con riguardo al Ministero (omissis), erroneamente avrebbe ritenuto che il carattere nazionale della convenzione non comportasse la distribuzione delle polizze alle agenzie territoriali ai sensi del citato art. 6 ANA stante anche l’inderogabilità in peius della norma collettiva da parte del mandato individuale.
La censura, per come è formulata, è inammissibile.
È principio più volte affermato da questa Corte quello secondo cui “È inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione”. (cfr. tra le tante Cass. Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010).
La Corte d’appello ha tratteggiato in via generale la portata del diritto di esclusiva sottolineando che, pur non costituendo un elemento essenziale del contratto, questo è comunque espressione della volontà di rafforzamento dei rapporti di collaborazione tra agente e preponente, si caratterizza per il suo collegamento con il concetto territoriale di zona ed è funzionale a prevenire una illegittima concorrenza.
Sulla base di tali condivisibili premesse quindi, ha esaminato la lettera di incarico conferito al B. e rapportandola, in concreto, alle diverse convenzioni stipulate dalla compagnia assicuratrice, a livello nazionale ed in sede centrale, ha evidenziato che la predeterminazione delle prestazioni fornite, delle somme dovute e degli eventi assicurati, comportavano l’insussistenza del diritto di esclusiva, previsto dall’art. 6 lett. c) della lettera di incarico, in ragione delle speciali caratteristiche di tali contratti che richiedono una gestione unitaria in sede nazionale.
Tale motivazione congrua logica ed aderente alle emergenze documentali non è efficacemente censurata in questa sede atteso che ciò che si chiede è una rivisitazione dei fatti, già valutati dalla sentenza di appello, secondo una ricostruzione diversa in senso favorevole al ricorrente.
Va ribadito che non è consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. n. 3197/2012, Cass. n. 9043/2011, Cass. n. 313/2011, Cass. n. 37/2011, Cass. n. 20731/2007, Cass. n. 18214/2006, Cass. n. 3436/2006, Cass. n. 8718/2005).
2.- violazione e falsa applicazione 1223 in ordine al danno risarcibile.
Sostiene il B. che sebbene la Corte abbia accertato (n.d.r. almeno in parte) la violazione del diritto di esclusiva, inquadrandola come inadempimento contrattuale, ha però limitato il danno alla mancata percezione delle provvigioni senza valutarne l’incidenza sulle spettanze di fine rapporto e senza tener conto della perdita di chance connessa alla possibilità di aprire su un medesimo cliente nuove opportunità di polizze per rami diversi.
La censura non coglie nel segno posto che il giudice d’appello ha escluso l’incidenza delle polizze non concluse, per effetto della violazione del diritto di esclusiva, sulle indennità dovute allo scioglimento del contratto (ai sensi degli artt. 25, 27, 28 e 33 dell’accordo nazionale del 1981) sul rilievo che queste ulteriori indennità si basano sugli affari effettivamente promossi dall’agente con incremento della clientela. La corte d’appello risponde, correttamente, alla domanda formulata dall’agente relativa proprio al “ricalcolo delle indennità da corrispondersi all’agente cessato sul cumulo delle indennità già accertate nel corso del giudizio n. 8260/1993? (cfr. pag. 5 della sentenza n. 250/2005). E sotto tale profilo ne accerta la non debenza.
Solo in appello, nel corso del giudizio e successivamente alla sentenza non definitiva, il B. ha avanzato una domanda di risarcimento per perdita di chance prospettando la richiesta risarcitoria sotto tale diverso profilo. Peraltro il giudice d’appello nella sentenza non definitiva aveva già adeguatamente e logicamente spiegato le ragioni che lo avevano indotto ad escludere che fosse dovuto alcunché a titolo di ricalcolo delle indennità connesse allo scioglimento del rapporto.
Ed infatti aveva evidenziato che il calcolo delle stesse si inseriva “in un corretto e fisiologico svolgimento del rapporto sugli affari effettivamente promossi dall’agente con relativo incremento della clientela”.
Tale affermazione, implicitamente fatta propria dal giudice della sentenza definitiva non è stata qui specificatamente censurata neppure in relazione all’ulteriore dichiarazione di inammissibilità della domanda risarcitoria per perdita di chance.
Peraltro, ed in ogni caso, compete al giudice del merito, avvalendosi al riguardo dei suoi poteri di libero apprezzamento delle prove, determinare, sulla base dei criteri dettati dagli artt. 1223 e segg. cod. civ., la effettiva consistenza del lucro cessante al netto dei costi non sopportati dal danneggiato e che sarebbero stati necessari a produrlo (cfr. Cass. 30.7.2004 n. 14667).
3.- la sentenza definitiva n. 835 del 31.12.2009 è stata poi specificatamente censurata per una violazione e falsa applicazione art. 112 c.p.c. sul rilievo che il giudice avrebbe, immotivatamente, solo su una parte della domanda.
Sostiene il ricorrente che la Corte d’Appello avrebbe, in contrasto con quanto affermato dalla sentenza non definitiva n. 250/2005 che aveva escluso che fosse maturata la prescrizione decennale del danno, illegittimamente limitato l’indagine del consulente contabile all’ultimo decennio (1983-1993) invece che prendere in considerazione l’intero periodo (sin dal 1971).
Inoltre con il quarto motivo, viene denunciata la violazione dell’art. 437 comma 2 c.p.c. sia sotto il profilo dell’error in procedendo sia in relazione ad una lacunosità della motivazione, i cui risultati sono stati fatti propri dal giudice d’appello, sebbene i dati esaminati dal Consulente fossero incompleti e condizionati dalla limitazione temporale imposta.
Le censure, tra loro strettamente connesse poiché riguardano sotto vari profili la correttezza dell’accertamento peritale, possono essere esaminate congiuntamente e vanno dichiarate infondate.
Va premesso in primo luogo che la sentenza definitiva (cfr. pag 5), ben lungi dal discostarsi da quanto già accertato dalla stessa Corte, si limita a ricordare, rispondendo ad una eccezione della società appellata, che la prescrizione è decennale, così come già esplicitamente affermato nella sentenza non definitiva (cfr. pag. 16).
Il ricorso, poi, non contiene elementi di valutazione che consentano di ritenere che effettivamente il giudice d’appello abbia limitato l’indagine contabile nei termini indicati nella censura o che il consulente non abbia tenuto conto di tutta la documentazione disponibile.
Si osserva infatti che nel ricorso non viene riportato neppure il quesito assegnato dalla Corte all’ausiliare nominato.
Resta così impossibile ogni verifica.
Ove il ricorrente ometta di riportare i fatti oggetto di contestazione, o di cui denuncia l’errata valutazione (nella specie il quesito ed i passi della ctu contestati di cui non è neppure indicata la collocazione nel fascicolo), è violato il principio di autosufficienza del ricorso (desumibile dall’art. 366 c.p.c.) alla stregua del quale è necessario che nel ricorso siano indicati con precisione tutti quegli elementi di fatto che consentano di controllare l’esistenza del denunciato vizio senza che il giudice di legittimità debba far ricorso all’esame degli atti.
Nella specie il ricorrente ha omesso di riportare sia il quesito posto dal giudice di appello che il contenuto della relazione di consulenza tecnica d’ufficio effettuata in sede di gravame (e delle sue integrazioni) fatti questi necessari per poter riscontrare, sulla base dei conteggi dal predetto CTU effettuati, la fondatezza delle censure formulate che invece, per come proposte sono entrambe inammissibili (cfr. in termini Cass. n. 10002/2009).
In conclusione il ricorso deve essere respinto.
Le spese del presente giudizio, da regolarsi secondo il criterio della soccombenza sono liquidate in Euro 3000,00 per compensi professionali, avuto riguardo al D.M. n. 140/2012, al valore della controversia ed alle attività svolte, ed in Euro 50 per esborsi. Oltre accessori di legge.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in Euro 50 per esborsi ed Euro 3000,00 per compensi professionali, oltre IVA e CPA.

Redazione