Viola il dovere di “colleganza”il legale che notifica sentenza esecutiva e precetto direttamente al soccombente, senza informare il difensore di controparte (Cass. n. 13797/2012)

Redazione 01/08/12
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Svolgimento del processo

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona, a conclusione del procedimento disciplinare avviato a seguito di esposto dell’avv. G.M. a carico dell’avvocato V.M., con provvedimento del 19.11-18.12.07, irrogò a quest’ultimo la sanzione disciplinare dell’avvertimento, “per aver violato il dovere di colleganza avendo in data 15 settembre 2003-19 settembre 2003 notificato alla società *********************************** – difesa dall’Avv. G.M. – la sentenza del Giudice di Pace depositata l’1 settembre 2003, a cui in data 10 settembre 2003 aveva fatto apporre la formula esecutiva, senza che il dispositivo della sentenza fosse stato ancora comunicalo alle parti e senza curarsi di accertare se il legale di controparte avesse ricevuto notizia del dispositivo stesso, nè rendendo la stessa edotta dell’intervenuto deposito di detta sentenza, nè chiedendo all’Avv. G. quali fossero le intenzioni della sua cliente in ordine al pagamento della sentenza onde evitare alla società *********************************** l’aggravio delle competenze di precetto: con ciò violando l’art. 38 L.P. in riferimento all’art. 49 ed all’art. 22 del Codice Deontologico Forense approvato dal C.N.F. nella seduta del 17.04.1997 e successive modifiche. Fatti Commessi in (omissis)”.

All’esito del tempestivo ricorso dell’incolpato, non resistito dall’intimato C.O.A. con decisione del 26.2.09, depositata il 18.5.09, il Consiglio Nazionale Forense accolse l’impugnazione ritenendo l’insussistenza di alcun obbligo deontologico nei sensi di cui alla riportata contestazione.

Ma a seguito del ricorso del C.O.A., cui aveva resistito il V..

questa Corte a Sezioni Unite, con sentenza n. 27214 pubblicata il 23.12.2009, in accoglimento del secondo motivo, cassò con rinvio la sentenza impugnata, affermando il seguente principio, “viola l’art. 22 del Codice deontologico Forense l’avvocato che sulla base di sentenza favorevole al proprio cliente, nonostante la modestia – in relazione alle condizioni economiche del debitore del credito accertato nella pronunzia giurisdizionale e pur in assenza di un rifiuto esplicito di dare spontanea esecuzione alla sentenza, notifichi al debitore atto di precetto (così aggravando la posizione debitoria di questo), senza previamente informare l’avvocato dell’avversario della propria intenzione di dare corso alla procedura esecutiva”.

Riassunto il processo dal C.O.A. di Verona con ricorso depositato il 7.5.2010, nella resistenza dell’avv. V., il Consiglio Nazionale Forense, con decisione dell’11.11.2010, depositata il 21.4.2011 confermava la responsabilità disciplinare ascritta all’incolpato e la conseguente sanzione dell’avvertimento.

Disattese le preliminari eccezioni deducenti la tardività della proposizione del ricorso, l’erroneità delle relative modalità di presentazione e la carenza al riguardo di legittimazione e costituzione del C.O.A. il suddetto giudice di rinvio, preso atto della pronunzia di questa Corte e ritenuta la natura vincolante non solo del principio in essa affermatola anche delle relative premesse logico-giuridiche e, dunque, degli “accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione”, osservava che non potevano essere diversamente rivalutati i fatti oggetto del procedimento disciplinare, in ordine ai quali risultava vincolante il giudizio espresso in sede di legittimità; sicchè non avrebbe potuto che “affermarsi la responsabilità disciplinare dell’avv. V. M. in ordine ai fatti oggetto dell’incolpazione…ed applicarsi al medesimo la sanzione dell’avvertimento, ritenuta congrua e rapportata alla gravità dei fatti contestati, come del resto ritenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona….”.

Avverso tale decisione l’avvocato V. ha proposto tempestivo ricorso a queste Sezioni Unite, deducendo sette motivi.

L’intimato C.O.A. non ha svolto in questa sede ulteriori attività.

Motivi della decisione

p.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione al R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 64, e art. 132 c.p.c.”, deducendo la nullità della sentenza per mancanza della sottoscrizione del giudice relatore, firma che, sebbene non espressamente prevista nella norma speciale citata, sarebbe necessaria, sia al fine di consentire la verificazione dell’osservanza della stessa, nella parte imponente che la redazione della sentenza sia affidata a detto componente del collegio, sia in virtù dell’applicazione analogica dell’art. 132 c.p.c., e art. 546 c.p.p., tanto più in considerazione dell’applicabilità al procedimento speciale in questione, più volte affermata nella giurisprudenza di legittimità, delle norme processuali, ove non in contrasto, del codice di rito civile.

Il motivo non merita accoglimento, alla luce del principio già enunciato da queste Sezioni Unite, secondo cui “ai sensi di quanto disposto, in via generale, dal R.D. 22 gennaio 1934, n. 3, art. 44, sull’ordinamento della professione di avvocato e con riferimento alle deliberazioni in materia disciplinare, dagli artt. 51 e 64 dello stesso decreto, norme aventi carattere speciale rispetto alla disposizione dell’art. 132 c.p.c., u.c., le deliberazioni del Consiglio nazionale forense sono sempre sottoscritte dal solo presidente e segretario, non anche del relatore, senza che ciò determini alcun contrasto con gli artt. 24 e 101 Cost.” (sent. n. 11750 del 24.6.2004).

Da tale indirizzo il collegio non ravvisa motivi per doversi discostare, considerato che il proposto procedimento di applicazione analogica delle norme codicistiche, peraltro contrastante con il principio generale di tassatività delle nullità, presupporrebbe una lacuna normativa, nella specie insussistente, tenuto conto della presenza nella legge speciale delle citate norme ad hoc, che il legislatore ha ritenuto sufficienti a garantire sia mediante la sottoscrizione da parte del presidente, la conformità della decisione alla volontà del collegio, sia, mediante quella del segretario, la provenienza della stessa dall’organo decidente.

p. 2. Con il secondo motivo si deduce “violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, in relazione all’art. 392 e 394 c.p.c., e R.D. n. 37 del 1934, artt. 59 e 60, e art. 101 c.p.c.”, ribadendo l’eccezione di “inammissibilità e improcedibilità” del ricorso riassuntivo, in quanto notificato, in data 27.4.10, e successivamente depositato presso la sede del C.N.F., c non anche presentato presso gli uffici dell’Ordine locale.

Si censurano le ragioni reiettive di tale eccezione esposte nella decisione impugnata, secondo cui la norma speciale non avrebbe potuto applicarsi al giudizio di rinvio, regolato invece dall’art. 392 c.p.c., obiettando che tale motivazione sarebbe frutto di “mancato coordinamento delle norme in questione”, non tenendo conto, in particolare, che secondo l’art. 394 c.p.c., in sede di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti al giudice cui la causa è stata rinviata e che nella specie, “non potendosi azionare Tatto di citazione”, sarebbe stato “giocoforza operare con il ricorso in riassunzione” e seguire le norme speciali sopra citate prevedenti, a pena di inammissibilità e improcedibilità, modalità diverse da quelle in concreto seguito dal riassumente C.O.A., prevedenti una “serie di passaggi attraverso i quali le parti…

hanno la possibilità di esprimere ogni loro idonea difesa” prendendo visione degli atti, proporre deduzioni ed esibire documenti, fase al termine della quale soltanto gli atti avrebbero dovuto essere trasmessi al C.N.F., la cui omissione si sarebbe tradotta nella lesione del diritto di difesa delle parti.

Anche tale motivo va disatteso, per ragioni inverse rispetto a quelle esposte in precedenza, ed alla luce di una precedente pronunzia di queste Sezioni Unite, che il collegio condivide ed alla quale intende dare continuità, secondo cui “la riassunzione del giudizio disciplinare davanti al Consiglio nazionale forense a seguito di sentenza di cassazione con rinvio deve essere compiuta secondo il disposto dell’art. 392 c.p.c….” (sent. n. 17938 del 1.7.2008).

Tanto in considerazione dell’assenza, nell’ambito della legge speciale forense (in particolare nel R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56, u.c.), di una specifica disposizione regolante le modalità di proposizione del giudizio di riassunzione, e della conseguente necessità, in virtù del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, a termini del quale, nei procedimenti disciplinari in questione vanno osservate le norme particolari che per ogni singolo istituto sono dettate dalla legge professionale e, in mancanza, quelle del codice di procedura civile (v. tra le altre, 558/98).

Nel caso di specie, dunque, le norme processuali di riferimento, in assenza di speciali disposizioni, erano quelle di cui agli artt. 392 c.p.c. e 125 delle disposizioni di attuazione dello stesso codice, secondo le quali la (re)instaurazione del contraddittorio in sede di giudizio di rinvio va compiuta nelle forme della vocatio in ius (tale dovendosi considerare anche un ricorso direttamente notificato all’incolpato e poi depositato presso il C.N.F., ove la notifica sia, come nella specie, tempestivamente intervenuta entro il termine previsto per la riassunzione), mentre non avrebbero dovuto applicarsi le altre particolari disposizioni, prevedenti il deposito dell’atto presso la segreteria del C.O.A., in quanto specifiche dell’originario giudizio impugnatorio ed assolventi ad esigenze (essenzialmente quelle di rendere noti gli atti su cui si basa l’impugnazione e consentire alla controparte di produrre, a sua volta, ulteriori atti o documenti), del tutto proprie di tale iniziale fase processuale, ed insussistenti nel giudizio “chiuso” di rinvio, nel quale non sono ammesse nuove conclusioni o produzioni, a meno che la relativa esigenza non sia sorta in conseguenza della sentenza rescindente.

Ne consegue, a parte la genericità della censura (che non specifica in quali concreti termini, con riferimento ad eventuali atti non potuti esaminare o non potuti produrre, siano state nella specie lese le proprie garanzie difensive), l’inconferenza del richiamo all’art. 394 c.p.c., nella parte attinente alle modalità introduttive del giudizio di rinvio, che al riguardo ricade nell’orbita di applicazione delle generali regole codicistiche, mentre soltanto nelle successive fasi del suo svolgimento e della relativa decisione, è da ritenersi regolato dalle speciali norme disciplinanti il giudizio impugnatorio de quo.

p. 3. Con il terzo motivo si deduce “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 83 c.p.c., e artt. 392 e 394 c.p.c.”, censurandosi la reiezione dell’eccezione con la quale era stata dedotta la carenza di legittimazione processuale del C.O.A., per non essere stata prodotta alcuna delibera autorizzativa alla riassunzione e nomina del difensore.

Si sostiene che nel caso di specie non sarebbe stato sufficiente il richiamo al combinato disposto dell’art. 392 c.p.c., e art. 125 disp. att. c.p.c., (non esigenti il rilascio di una nuova procura alle liti nel giudizio di riassunzione), non essendosi considerato che “l’avv. R. aveva ottenuto una nuova procura e tale autorizzazione alla costituzione processuale doveva essere deliberata dal Consiglio dell’Ordine e tale deliberazione doveva essere prodotta agli atti”, che neppure ai tini del precedente ricorso per cassazione era stata prodotta analoga deliberazione, che nessun rilievo poteva ascriversi alla circostanza che il difensore non avesse all’udienza dell’11.11.10 sollevato alcuna contestazione al riguardo, essendosi egli riportato alle eccezioni preliminari contenute nella memoria difensiva ed avendo concluso per la dichiarazione di inammissibilità dell’atto di riassunzione, riportandosi nel merito al ricorso, che infine tale inammissibilità non avrebbe potuto ritenersi sanata dalla successiva costituzione con un nuovo procuratore, essendosi questi “riportato pedissequamente” a quanto dedotto dal precedente, invalidamente costituitosi.

Anche tale motivo è privo di fondamento.

Premesso che, come si è già precisatola riassunzione del procedimento disciplinare forense va compiuta, in assenza di norme specifiche contenute nella legge speciale, secondo le generali disposizioni contenute nel codice di procedura civile e nelle relative norme attuati ve (nella specie l’art. 392 c.p.c., e art. 125 disp. att.) e considerato che, come già più volte evidenziato da questa Corte al riguardo, “poichè il giudizio di rinvio costituisce la prosecuzione del giudizio di primo o di secondo grado conclusosi con la sentenza cassata la parte che riassume la causa davanti al giudice di rinvio non è tenuta a conferire una nuova procura al difensore che lo ha già assistito nel pregresso giudizio di merito” (Sent. 7983 del 1.4. 10. conf. n.n. 4663/01, 1217/89), è sufficiente osservare che, non essendo dalle citate norme richiesta una nuova procura difensiva, ma soltanto l’indicazione di quella precedente, in virtù della quale fu instaurato il giudizio impugnatorio, poco o punto rilevava, in un contesto nel quale la riassunzione era stata operata dal legale validamente nominato ab initio, la circostanza che al medesimo fosse stato rinnovato, con o senza ulteriore delibera autorizzativa del C.O.A il mandato, non essendo tale rinnovazione necessaria al fine suddetto.

Tale dirimente rilievo comporta il reiettivo assorbimento dei rimanenti profili di censura.

p. 4. Con il quarto motivo si deduce “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione agli artt. 392 e 394 c.p.c.”, per non essere stata rilevata la non coincidenza tra le richieste rassegnate dal COA nel ricorso per riassunzione e nella successiva udienza di precisazione delle conclusioni, anche con riferimento a quelle contenute nel precedente ricorso per cassazione.

Il motivo è manifestamente infondato, considerato che la richiesta formulata in sede di precisazione delle conclusioni, di confermare “il provvedimento sanzionatorio originale”, sostanzialmente conforme, mutatis verbis, a quella esposta in sede di legittimità, di “riaffermazione della legittimità della sanzione inflitta”, non può ritenersi esorbitante, costituendone soltanto una specificazione, rispetto a quella formulata nel ricorso riassuntivo, di “applicare…la sanzione disciplinare che riterrà congrua”, a sua volta conforme ex art. 394 c.p.c. alle originarie richieste.

Tale sanzione, peraltro, pur tenendo conto della limitazione, a seguito della sentenza di questa Corte, dell’affermazione di illiceità della condotta tenuta dall’incolpato alla sola seconda parte dell’originario addebito (quella di aver notificato ex abrupto la sentenza in forma esecutiva ed il precetto), non avrebbe potuto essere diversa da quella dell’avvertimento, già applicata dal C.O.A., costituendo la stessa quella minima prevista dal R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 40.

p. 5. Con il quinto motivo si deduce “violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, in relazione agli artt. 392 e 394 c.p.c.”, censurandosi, in quanto non esaustività motivazione posta a base della conferma della responsabilità disciplinare dell’incolpato, secondo cui il principio affermato nella sentenza di legittimità avrebbe comportato, a guisa di giudicato interno, l’impossibilità di rivalutare i fatti oggetto del procedimento disciplinare, in contrario obiettandosi che nella decisione di legittimità vi era stata una valutazione, ai fini della configurabilità dell’illecito di cui all’art. 22 del Codice Deontologico forense, solo quale astratta ipotesi di condotta “contestata”, non anche concretamente “tenuta” (parola quest’ultima significativamente interlineata con postilla e sostituita con quella precedente) dall’avv. V. ed in quella sede “discussa”. Conseguentemente, pur essendo vincolato dall’enunciato principio di diritto, il giudice disciplinare cui il giudizio era stato rinviato per nuovo esame nel merito, in quanto esclusivamente competente all’apprezzamento della rilevanza dei fatti rispetto alla incolpazione”, non avrebbe potuto esimersi da tale vantazione; sicchè la decisione del C.N.F., già impugnabile per violazione di legge, lo sarebbe stata anche per vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in virtù della sostituzione dell’art. 360 c.p.c., disposta dalla L. n. 40 del 2006, art. 2, in cospetto dell’obiettiva deficienza del criterio logico che aveva condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento ed in assenza di alcuna concreta disamina delle ragioni giustificative, richiamate nel mezzo d’impugnazione, addotte dall’incolpato in sede di merito.

Il motivo non merita accoglimento.

Il C.N.F., nel confermare l’affermazione di colpevolezza relativamente al secondo segmento della condotta ascritta all’avv. V., quello di aver notificato direttamente alla controparte soccombente la sentenza in forma esecutiva ed il precetto, senza aver previamente interpellato la collega che l’aveva difesa, era vincolato non solo dalla regula iuris enunciata da queste Sezioni Unite, con la quale era stata affermata, cassandosi in parte de qua la precedente decisione assolutoria, la rilevanza disciplinare dell’addebito ma anche dall’accertamento dei fatti che ne costituivano il presupposto (in tal senso, v. tra le altre Cass. nn. 17352/10, 26241/09, 616/98), che erano incontroversi, in quanto documentalmente provati. In siffatto contesto processuale, nessuno spazio residuava al giudice del rinvio, non solo in ordine alla valutazione, sotto il profilo deontologico, della condotta in questione, compiuta da questa Corte e parzialmente confermativa di quella in precedenza operata dal C.O.A. in sede amministrativa, ma anche con riferimento alla concreta sussistenza della stessa, costituente un pacifico presupposto di fatto, sulla base del quale era stato formulato, quel giudizio. Poco o punto rilevava, pertanto, l’evidenziata correzione contenuta nella sentenza rese indente, tanto più ove si consideri che il ricorrente neppure in questa sede nega di aver commesso i fatti ascrittigli, limitandosi a ribadire quelle stesse doglianze con le quali aveva tentato di sminuirne il disvalore deontologico, così finendo con il rimettere, inammissibilmente (v., tra le altre e più recenti, Cass. n. 3458/12) in discussione il principio di diritto in questa sede enunciato e, nel sostenere che al solo giudice di merito sarebbe spettato il relativo apprezzamento della condotta sotto il profilo disciplinare, e la stessa funzione nomofilattica spettante a questa Corte.

p. 6. Con il sesto motivo si deduce “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 111 Cost.”, prospettando “ombre di illegittimità costituzionale” nel sistema disciplinare forense, in considerazione della mancanza di collegamento tra i fatti previsti quali illeciti dal Codice Deontologico Forense e la legge professionale, che si limita a prevedere la varie sanzioni senza alcun riferimento ad ipotesi tipiche, con la conseguente attribuzione al giudice della più ampia discrezionalità nella relativa scelta;

ne conseguirebbe il contrasto sia con il “principio di predeterminazione legale del processo” di cui al citato articolo della Costituzione, sia con quello di eguaglianza, per le “disparità di trattamento non solo all’interno dello stesso Ordine, ma anche nei confronti di altri ordini e poteri”, per i quali (come nel caso della magistratura ordinaria, con il passaggio dal R.D. n. 511 del 1946, al D.Lgs. n. 109 del 2006) l’assenza di predeterminazione delle sanzioni disciplinari è stata superata.

Il motivo è inammissibile, per difetto di interesse, comportante la conseguente irrilevanza della questione di legittimità costituzionale, considerato che nella specie, come già in precedenza evidenziato, la sanzione irrogata è stata quella dell’avvertimento, vale a dire quella più lieve prevista dalla normativa professionale forense; sicchè il censurato ampio margine di discrezionalità, attribuito al giudice di merito, non può essersi, comunque, tradotto in un concreto pregiudizio del l’incolpato.

p. 7. Con il settimo motivo si deduce violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, censurandosi la motivazione relativa alla scelta della sanzionerà per genericità, segnatamente per non aver dato conto della valutazione di gravità dell’illecito nel contesto di una vicenda marginale e, come affermato dalla stessa Corte di Cassazione, modesta sotto il profilo economico, sia per incoerenza ed illogicità del richiamo al provvedimento del C.O.A. considerato che per il primo dei due fatti originariamente ascritti (quello di aver fatto apporre la formula esecutiva sulla sentenza, senza curarsi di accertare se il legale di controparte fosse a conoscenza del relativo deposito, nè di informarlo) vi era stata pronunzia assolutoria da parte del C.N.F., confermata dalla sentenza di legittimità; sicchè ingiustificato sarebbe stato il riferimento alla valutazione, da parte dell’organismo forense locale, alla complessiva “gravità dei fatti contestati”, atteso che uno degli stessi era venuto meno.

Anche tale motivo è inammissibile, per ragioni analoghe a quelle esposte con riferimento al precedente, considerato che la valutazione di “gravità” che si assume generica, non avrebbe potuto comunque comportare l’irrigazione di sanzioni più lievi di quella inflitta.

p. 8. Il ricorso va, conclusivamente, respinto.

p. 9. Non vi è luogo, infine, a regolamento delle spese, in assenza di controparti, resistenti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Redazione