Vigile del fuoco sospeso per pendenza di un procedimento penale a suo carico: la reintegra può essere disciplinata dal contratto collettivo (Cass. n. 17130/2013)

Redazione 10/07/13
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Svolgimento del processo

S.A., vigile del fuoco, dopo la conclusione di un periodo di sospensione cautelare dal servizio applicatagli per fatti di rilevanza penale in ordine ai quali era stato prosciolto per amnistia, venne nuovamente sospeso cautelarmene, con dm 30.9.1994, per la pendenza di altri carichi penali; in data 8.9.1995 gli venne consentito di riprendere servizio, ma, a partire dall’8.2.1998 e fino al 30.10.1999, la sospensione venne riattivata essendo stato ritenuto che non fossero cessati gli effetti del ridetto dm 30.9.1994.
All’esito del procedimento penale (a seguito dell’ordinanza della Corte di Cassazione del 13.5.1999, dichiarativa dell’inammissibilità del ricorso proposto dall’imputato), conclusosi con condanna a pena detentiva e pecuniaria, l’Amministrazione, in data 4.10.1999, contestò l’addebito disciplinare; a conclusione del procedimento disciplinare, con dm 1.2.2000, venne inflitta all’incolpato la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per giorni 10.
Lo S. convenne quindi in giudizio il Ministero dell’Interno, chiedendo, per quanto ancora interessa in questa sede, che il periodo di lavoro effettivamente prestato, pur in pendenza del provvedimento cautelare sospensivo, venisse considerato utile a tutti gli effetti, giuridici ed economici, e non soltanto ai fini previdenziali, come disposto dall’Amministrazione, e che venisse dichiarato il suo diritto alla percezione degli interi trattamenti retributivi relativi ai due periodi di (effettiva) sospensione dal servizio.
Il primo Giudice respinse le domande e la Corte d’Appello di Bari, con sentenza del 7 – 28.5.2007, rigettò il gravame proposto dallo S. .
A sostengo del decisum la Corte territoriale ritenne quanto segue:
– la fattispecie disciplinare contestata prevede necessariamente il passaggio in giudicato della sentenza penale e si era pertanto perfezionata soltanto nel 1999, con la ricordata pronuncia della Corte di Cassazione, sicché ritualmente l’Amministrazione aveva proceduto alla contestazione solo in data 4.10.1999, consequenzialmente adottando, all’esito del procedimento, le norme disciplinari di cui al CCNL in allora vigente, piuttosto che quelle, secondo quanto invocato dall’appellante, di cui al dpr n. 3/57;
– pur nella decisività delle suddette considerazioni, andava puntualizzato che anche il provvedimento di sospensione cautelare di cui al dm 30.9.1994, ancorché formalmente emanato ai sensi dell’art. 91 dpr n. 3/57, ricadeva nella sopravvenuta disciplina contrattuale introdotta con il CCNL 1994-1997, con particolare riferimento agli arti 39 e 40, regolanti le ipotesi di sospensione cautelare dal servizio; il CCNL 1994-1997 risultava infatti applicabile retroattivamente (dal 1.1.1994) rispetto alla sua stipulazione, atteso che:
la clausola transitoria ex art. 71 del medesimo contratto consentiva che venisse portato a termine secondo le vecchie procedure solo un procedimento disciplinare in corso alla data di stipulazione del contratto collettivo, mentre quello all’esame all’epoca non era ancora iniziato, posto che la sospensione cautelare era conseguita alla pendenza di un procedimento penale;
l’ulteriore clausola contrattuale transitoria dell’ari 72 prevedeva la persistente efficacia “delle norme di legge…. vigenti” solo per le “materie e gli istituti non disciplinati dal presente contratto, ai sensi dell’art. 72 del d.lgs. n. 29 del 1993”, dal che risultava dimostrata l’inefficacia, già a quell’epoca, della disciplina di cui agli artt. 90 e 91 dpr n. 3/57;
risultava così spiegato il provvedimento adottato dall’Amministrazione nel febbraio 1998, con il quale, proprio in ragione della sopravvenienza del CCNL 1994-97 (il cui art. 40, comma 8, stabiliva che “Quando vi sia stata sospensione cautelare dal servizio a causa di procedimento penale, la stessa conserva efficacia, se non revocata, per un periodo di tempo comunque non superiore a cinque anni”), era stata ribadita la permanenza, in assenza di revoca, degli effetti sospensivi del dm 30.9.94, interrompendo così l’avvenuta irregolare ripresa del servizio del dipendente; – l’Amministrazione aveva fatto corretta applicazione della normativa pattizia, che riconosceva la restituito in integrum al dipendente sospeso dal servizio a seguito di procedimento penale esclusivamente nel caso di sentenza definitiva di assoluzione, indipendentemente dal tipo ed entità della sanzione disciplinare conclusivamente irrogata.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, S.A. ha proposto ricorso per cassazione fondato su tre motivi. Il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente, denunciando violazione di plurime disposizioni di legge e di contratto collettivo nazionale di lavoro, si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto che il provvedimento di sospensione ricadesse nella sopravvenuta disciplina contrattuale collettiva, contrastandovi il disposto dell’art. 71 dl.vo n. 165/01; erroneamente, inoltre, la Corte territoriale aveva ritenuto che il CCNL 1998-2001 disciplinasse per intero la fattispecie disciplinare.
Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando violazione di plurime disposizioni di legge e di contratto collettivo nazionale di lavoro, nonché vizio di motivazione, si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto, in applicazione della normativa pattizia, l’insussistenza del diritto del dipendente alla restituito in integrum per il periodo eccedente quello di sospensione del servizio inflitta a titolo di sanzione disciplinare.
Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione di plurime disposizioni di diritto, deduce, “per completezza difensiva”, che nel concetto di retribuzione rientrano anche le componenti accessorie, cosicché, in base alle previsioni dell’art. 2126 cc, il periodo di servizio effettivamente svolto avrebbe dovuto essere computato per tutti gli effetti giuridici, economici e previdenziali scaturenti o connessi allo svolgimento del sinallagma lavorativo.
2. Il primo motivo è infondato, perché, quale che fosse la disciplina applicabile al momento del provvedimento di sospensione cautelare, gli atti della successiva procedura disciplinare, e quindi anche le conseguenze derivanti dalla sanzione irrogata, soggiacciono alla normativa vigente al momento della loro emanazione e, pertanto, alle previsioni del CCNL.
3. Il secondo motivo è invece fondato.
La questione è già stata esaminata, in fattispecie parzialmente analoga, ancorché disciplinata da una diversa fonte contrattuale collettiva, dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr, Cass., n. 4061/2012), che l’ha risolta con l’applicazione del principio secondo cui, laddove la disciplina pattizia collettiva, stabilendo che quanto corrisposto a titolo di indennità al pubblico impiegato nel periodo di sospensione cautelare dal servizio dev’essere conguagliato con quanto dovuto se il lavoratore fosse rimasto in servizio,solo in caso di assoluzione (con formula piena, secondo la normativa pattizia di cui al ricordato precedente; di assoluzione, senza ulteriori specificazioni, secondo la disciplina applicabile nel caso che ne occupa), abbia innovato rispetto alla precedente disciplina pubblicistica (art. 96 dpr n. 3/57), che permetteva il conguaglio in caso di sospensione dalla qualifica per durata inferiore alla sospensione cautelare sofferta ovvero di inflizione di una sanzione minore ovvero ancora di proscioglimento dell’impiegato, trasformando così la sospensione cautelare della retribuzione in provvedimento definitivo, ossia sostanzialmente in pena disciplinare.
Tale nuova disciplina non può trovare applicazione agli illeciti disciplinari commessi prima della sua entrata in vigore (e quindi alla fattispecie che qui ne occupa, posto che i fatti oggetto di incolpazione sono antecedenti all’entrata in vigore della disciplina contrattuale collettiva).
Ed invero la disciplina contrattuale collettiva (art. 40 CCNL 1994-1997; art. 19 CCNL 1998-2001, che mantiene in vigore anche le norme “contrattuali che non sono espressamente abrogate”), nel prevedere, per il caso di sospensione cautelare in caso di procedimento penale (e a differenza di quanto stabilito per l’ipotesi di sospensione cautelare in corso di procedimento disciplinare), che “In caso di sentenza definitiva di assoluzione, il dipendente è reintegrato in servizio a tutti gli effetti, ivi compresa la valutazione nell’anzianità di servizio del periodo di sospensione. Quanto corrisposto nel periodo di sospensione cautelare a titolo di indennità verrà conguagliato con quanto dovuto al lavoratore a titolo di retribuzione per il periodo di sospensione del rapporto”, lascia priva di disciplina l’ipotesi di condanna o di proscioglimento dell’imputato con altre formule, onde la lacuna deve essere colmata in via interpretativa.
4. In definitiva, restando assorbito il terzo motivo di ricorso, la sentenza impugnata dev’essere cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio al Giudice designato in dispositivo, che procederà a nuovo esame, conformandosi all’indicato principio di diritto, e provvederà altresì sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo e dichiara assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Bari in diversa composizione.

Redazione