Verbale valido ed utilizzabile anche se la persona offesa firma con un altro nome (Cass. n. 21699/2013)

Redazione 21/05/13
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Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 21 maggio 2012 la Corte d’appello di Catanzaro ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Cosenza il 18 dicembre 2008, che condannava B.R. alla pena di anni otto, mesi sei di reclusione ed Euro trentamila di multa, e Be.Fi. a quella di anni otto di reclusione ed Euro ventisettemila di multa, oltre alle pene accessorie di tipo interdittivo, per i reati di cessione continuata di sostanze stupefacenti del tipo cocaina ed eroina a F.A. , nonché per i reati di usura ed estorsione continuata ed aggravata ex art. 628, comma 3, n. 1, c.p., commessi ai danni del predetto in (omissis) .
2. Il Giudice di prime cure perveniva all’affermazione della penale responsabilità degli imputati valorizzando il contenuto delle dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari dal F.A., che venivano acquisite ai sensi dell’art. 500, comma 4, c.p.p., poiché all’esito del relativo procedimento incidentale si riteneva acclarato che egli fosse stato sottoposto a minaccia e violenza al fine di non reiterare le accuse inizialmente mosse nei confronti dei predetti imputati, sulla cui base gli stessi erano stati poi individuati quali autori delle contestate fattispecie delittuose.
Dal contenuto delle suddette dichiarazioni era emerso che la persona offesa aveva, in più occasioni, acquistato sostanze stupefacenti dagli imputati e che, mentre inizialmente era stato in grado di pagarne il costo, successivamente aveva dovuto farvi fronte con prestiti e dilazioni, per i quali era stata richiesta la corresponsione di interessi di natura usuraria. Quando per il F. risultò impossibile onorare il debito, i suoi creditori, direttamente o indirettamente, iniziarono a pressarlo con violenze e minacce, anche facendo ricorso all’uso di armi.
Le dichiarazioni rese dalla persona offesa, ritenute precise, puntuali e prive di intenti calunniatori, hanno poi trovato conferma in quelle della madre, che aveva vissuto in prima persona le vicissitudini del figlio, contribuendo anche a procurargli del danaro per soddisfare le pressanti richieste dei suoi creditori.
3. Avverso la su indicata sentenza della Corte d’appello di Catanzaro hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di fiducia degli imputati, deducendo, con separati atti di impugnazione, due analoghi motivi di doglianza, rispettivamente incentrati sulla violazione di legge ex art. 606, lett. b), c.p.p., in relazione agli artt. 337 e 500, comma 4, c.p.p., nonché sulla carenza ed illogicità della motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., laddove sono state acquisite al fascicolo del dibattimento, e poi utilizzate per la decisione, le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da F.A. , senza che ricorressero nel caso concreto i presupposti previsti dalla relativa norma processuale.
Al riguardo, infatti, non emergerebbero dalle pronunce di merito episodi specifici o fatti concreti che abbiano visto il F. destinatario di presunte minacce o violenze prima della sua deposizione, né risulterebbero tentativi di intimidazione concreti e tali da motivare la reticenza del teste e giustificare l’acquisizione delle sue dichiarazioni. Delle tre dichiarazioni acquisite, peraltro, solo una, la denuncia del 17 giugno 2002, apparirebbe sottoscritta con firma autografa del dichiarante così come previsto dall’art. 337 c.p.p., mentre le altre due non recherebbero la sottoscrizione autentica del F. e sarebbero prive di qualsiasi firma del dichiarante.
A nulla rileva, poi, che la paternità delle dichiarazioni sia stata garantita dalle dichiarazioni del verbalizzante che ha recepito la querela, atteso che tali dichiarazioni, contrariamente a quanto affermato nelle pronunce di merito, comunque non risulterebbero idonee a garantire lo scopo previsto dalla norma.
Infine, la denunzia datata 11 gennaio 2005 e il verbale di s.i.t. datato 11 settembre 2006 non solo risulterebbero privi della firma del querelante, ma sarebbero caratterizzati anche da una falsa sottoscrizione, poiché il F. le avrebbe addirittura firmate con i nomi degli imputati.
In ordine alla posizione del Be. si deduce anche un’ulteriore violazione di legge riguardo alla carente motivazione della pronuncia sull’entità della pena comminata: su tale punto, infatti, la Corte d’appello non avrebbe offerto alcuna giustificazione del diniego delle circostanze attenuanti generiche.

Considerato in diritto

4. I ricorsi sono infondati e vanno rigettati per le ragioni di seguito esposte.
5. Occorre preliminarmente ribadire, sul piano generale ed al fine della verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte d’appello, che siffatta decisione non può essere isolatamente valutata, ma deve essere esaminata in stretta correlazione con la decisione di primo grado, dal momento che l’iter motivazionale di entrambe si dispiega secondo l’articolazione di sequenze logico-giuridiche pienamente convergenti (Sez. 4, n. 15227 del 14/02/2008, dep. 11/04/2008, Rv. 239735).
Nel caso in esame ci si trova dinanzi a due pronunce, di primo e di secondo grado, che concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conformi rispettive decisioni, con una struttura della sentenza di appello che viene a saldarsi perfettamente con quella precedente, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, avuto riguardo al fatto che l’impugnata pronunzia ha comunque offerto una congrua e ragionevole giustificazione del giudizio di colpevolezza formulato nei confronti dei ricorrenti, puntualmente replicando, altresì, alle deduzioni ed ai rilievi svolti dalle difese. L’adeguatezza delle motivazioni dell’impugnata sentenza, inoltre, non è stata validamente censurata dai ricorrenti, che si sono limitati a riproporre, per lo più, una serie di obiezioni già esaustivamente disattese dai Giudici di merito. Il tessuto della sentenza in esame, dunque, non presenta affatto quegli aspetti di carenza o macroscopica illogicità del ragionamento che, alla stregua del consolidato insegnamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte, potrebbero indurre a ritenere sussistente il vizio di cui alla lett. e) del comma primo dell’art. 606 c.p.p. (anche nella sua nuova formulazione), nel quale sostanzialmente si risolvono le doglianze prospettate nei ricorsi.
6. Invero, dalla motivazione dell’impugnata pronuncia, il cui contenuto viene a saldarsi con l’impianto argomentativo che sorregge la decisione assunta dal Giudice di primo grado, risulta con chiarezza come la Corte territoriale abbia, con il supporto di una congrua e lineare esposizione logico-argomentativa, giustificato la valutazione di responsabilità degli imputati, fondandola, come si è rilevato in narrativa, sulle risultanze probatorie delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nel corso delle indagini preliminari, acquisite dal Giudice di prime cure all’esito del procedimento incidentale ex art. 500, comma quarto, cod. proc. pen..
È noto che il procedimento incidentale diretto ad accertare gli elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, al fine di non deporre o di deporre il falso, deve fondarsi su parametri di ragionevolezza e di persuasività, nel cui ambito può assumere rilievo qualunque elemento sintomatico dell’intimidazione subita dal teste, purché sia connotato da precisione, obiettività e significatività, secondo uno “standard” probatorio che non può essere rappresentato dal semplice sospetto, ma neppure da una prova “al di là di ogni ragionevole dubbio”, richiesta soltanto per il giudizio di condanna (Sez. 6, n. 25254 del 24/01/2012, dep. 26/06/2012, Rv. 252896; Sez. 6, n. 27042 del 18/02/2008, dep. 03/07/2008, Rv. 240971).
Pacificamente acquisite, inoltre, devono ritenersi le implicazioni dell’insegnamento giurisprudenziale sulla natura e sulla rilevanza degli elementi indicativi dell’avvenuto condizionamento, ove si consideri che anche le modalità della deposizione e il contegno tenuto dal teste in dibattimento (ad es., dichiarazioni completamente diverse da quelle rese nel corso delle indagini, in assenza di una plausibile giustificazione) rientrano fra gli elementi valutabili ai fini dell’accertamento dell’”inquinamento probatorio”, quale presupposto dell’acquisizione al fascicolo dibattimentale delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone ai sensi dell’art. 500, comma quarto, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 18065 del 23/11/2011, dep. 11/05/2012, Rv. 252530; Sez. 2, n. 25069 del 19/05/2010, dep. 02/07/2010, Rv. 247848), sempre che la prudente valutazione del giudice gli consenta, come nel caso in esame, di cogliervi i segni della subita intimidazione (Sez. 5, n. 16055 del 02/12/2011, dep. 27/04/2012, Rv. 252468).
Destituito di fondamento, pertanto, deve ritenersi il primo motivo di doglianza proposto dai ricorrenti, avendo la Corte d’appello fatto buon governo del quadro di principii che regolano la materia, laddove ha osservato come la deposizione resa dal F. nel dibattimento di primo grado – allorquando egli, in presenza degli imputati e dei loro familiari, ebbe a ritrattare integralmente le sue precedenti dichiarazioni – fosse da subito apparsa non attendibile, né spontanea e genuina, ma frutto di un contesto di paura e tensione indotto da un comportamento esterno. Ampiamente giustificate risultano, sotto tale profilo, le ragioni del percorso decisorio seguito dalla Corte distrettuale, che ha ricavato precisi ed univoci elementi di conferma in tal senso dal complesso delle dichiarazioni rese dalla madre (****), dal Maresciallo C. – al quale il F. si presentò in caserma l’11 settembre 2006 per confermare la denuncia, riferire gli ultimi avvenimenti ed effettuare il riconoscimento fotografico – dal capo scorta che lo tradusse dalla Casa circondariale e lo accompagnò nell’aula di udienza (ossia, l’Ispettore della Polizia penitenziaria Bu.Fr.), nonché dal contenuto delle dichiarazioni rese dallo stesso F. in un verbale del 21 ottobre 2008 nell’ufficio matricola della Casa circondariale di Cosenza, quando, citato in qualità di teste per l’udienza fissata dinanzi al Tribunale di Cosenza il 23 ottobre di quello stesso anno, ebbe a manifestare timore per la sua incolumità, chiedendo di essere allocato in una posizione che gli consentisse di non avere contatti con gli imputati ed altre persone di etnia “Rom”, che riteneva ad essi collegate.
7. Immune da censure, anche sotto altro profilo, deve ritenersi la decisione dei Giudici di merito, che hanno correttamente individuato i presupposti del ricorso al meccanismo di recupero probatorio di cui all’art. 500, comma quarto, cod. proc. pen., non solo nella plateale ritrattazione compiuta dalla persona offesa, ma nella stessa oggettività del dato documentale evidenziato dal tenore delle sottoscrizioni apposte dal F. in calce ai verbali delle sue precedenti dichiarazioni, che recano, in un caso, la firma della madre della persona offesa (denuncia dell’11 giugno 2005), in un altro caso la sottoscrizione con il proprio nome, anche se con grafia quasi illeggibile (denuncia del 17 giugno 2005), ed in un altro caso ancora (ossia nel verbale dell’11 settembre 2006) la propria firma in calce – anche qui appostavi con grafia quasi illeggibile – e sui primi due fogli dell’atto la sottoscrizione con il nome dell’imputato B.R. .
A tale riguardo, infatti, secondo quanto evidenziato dai Giudici di merito – che hanno fatto riferimento alle precise dichiarazioni rese dal teste Maresciallo C. – ciò che rileva è la certa e indiscutibile riferibilità delle dichiarazioni accusatorie contenute nei tre verbali sopra indicati alla persona del F. , il quale, dopo essere stato generalizzato dal predetto Ufficiale di P.G., ha provveduto a rileggere e a sottoscrivere quegli atti, sì da doversi escludere qualsiasi elemento di dubbio sulla reale identità delle persone che vi hanno preso parte.
Con il supporto di una congrua ed esaustiva motivazione, inoltre, la Corte di merito ha ritenuto pienamente credibili le dichiarazioni rese dal F. in ordine alle condotte delittuose addebitate agli imputati.
Peraltro, anche a voler prescindere dall’evidente riconducibilità del comportamento della persona offesa alle intimidazioni subite (al punto che, come riferito dal su menzionato teste, non aveva il coraggio di sottoscrivere con il proprio nome i verbali redatti dagli ufficiali di P.G.), deve sul punto rammentarsi, ad ulteriore conforto della correttezza della decisione impugnata, il consolidato insegnamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte, secondo cui in materia di nullità vige il principio della tassatività di cui all’art. 177 c.p.p., con la conseguenza che solo i vizi dell’atto per i quali la sanzione di nullità sia stabilita in via generale o in via particolare, con carattere di assolutezza o relatività, possono essere dichiarati dal giudice (Sez. 6, n. 936 del 31/03/1993, dep. 31/05/1993, Rv. 194379).
La nullità del verbale, in particolare, può ritenersi sussistente solo nei casi, in nessun modo ravvisabili nell’evenienza qui considerata, di incertezza assoluta sulle persone intervenute o di mancanza della sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha redatto (Sez. 5, n. 6399 del 06/11/2009, dep. 17/02/2010, Rv. 246057). Perché possa ritenersi sussistere un’incertezza assoluta sulle persone intervenute è necessario, infatti, che l’identità del soggetto partecipante all’atto non solo non sia documentata nella parte del verbale specificamente destinata a tale attestazione, ma altresì che non sia neppure desumibile da altri dati contenuti nello stesso, né da altri atti processuali in esso richiamati o ad esso comunque riconducibili (Sez. Un., n. 41461 del 19/07/2012, dep. 24/10/2012, Rv. 253213).
Non meritevole di accoglimento deve ritenersi, dunque, anche il secondo motivo di doglianza proposto dai ricorrenti.
8. Inammissibile, infine, deve ritenersi il motivo di doglianza, peraltro solo genericamente dedotto nel ricorso del Be. , inerente al contestato diniego delle circostanze attenuanti generiche, ivi censurandosi un potere discrezionale il cui esercizio è stato oggetto di attenta ponderazione e congrua motivazione da parte della Corte territoriale, che sul punto ha fatto riferimento ai criteri di dosimetria della pena già utilizzati nella decisione del Giudice di primo grado, confermando sostanzialmente le ragioni poste alla base delle relative determinazioni sanzionatorie, ed in tal guisa esprimendo la piena giustificazione di un apprezzamento di merito come tale non assoggettabile ad alcuna forma di sindacato in questa Sede.
9. Conclusivamente, sulla base delle su esposte considerazioni, i ricorsi devono essere rigettati, con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ex art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Redazione