Vendita con riserva di gradimento: la prefissazione del termine può essere integrata dagli usi (Cass. n. 9800/2013)

Redazione 23/04/13
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Svolgimento del processo

La spa DIMCO citò innanzi al Tribunale di Asti la sas Casa di Cura San secondo di T. M. G. & C. per sentirla condannare al pagamento di Euro 11.564,74 – oltre interessi moratori calcolati secondo il d.lgs. 231/2002 – pari al valore della merce, costituita da attrezzature e provviste di carattere medicale, fornite alla convenuta in esecuzione di vari contratti di vendita con riserva di gradimento stipulati tra il mese di luglio del 2002 ed il gennaio 2003; in detto lasso temporale sarebbero state effettuate cinque spedizioni di materiali di cui: una parte sarebbe stata acquistata dalla Casa di Cura; una parte sarebbe stata restituita ed una parte sarebbe rimasta nella disponibilità della predetta, senza che, pur dopo solleciti, se ne fosse disposta la restituzione.
In via subordinata concluse per la risoluzione dei contratti e per la restituzione di quanto ancora in possesso della convenuta o, in caso di impossibilità a tale obbligazione, al pagamento del suindicato controvalore.
La società convenuta si costituì affermando che l’attrice non avrebbe provato l’esistenza dei contratti di vendita, stante: la non corrispondenza dei documenti di trasporto con i codici identificativi delle merci che si assumevano esser state consegnate; la mancata emissione di fatture; la non corrispondenza completa tra gli identificativi delle merci rispetto alle quali si chiedeva il pagamento e quelli menzionati nei documenti accompagnatori; la Casa di Cura mise altresì in rilievo che nel maggio 2003 aveva stipulato un contratto di affitto di azienda con la srl GSAP che era stata immessa nella disponibilità dei beni aziendali, così che solo quest’ultima avrebbe potuto dirsi legittimata passiva dell’azione di controparte. Chiamata in giudizio la GSAP per garantire la convenuta dell’eventuale condanna , la stessa non si costituì.
L’adito Tribunale, pronunziando sentenza 606/2008, accolse la domanda della DIMCO, condannando la convenuta alla richiesta somma in via capitale, gravata genericamente degli interessi legali dalla data di messa in mora.
La Corte di Appello di Torino, pronunziando sentenza n. 987/2009, respinse sia l’impugnazione della Casa di Cura sia quella incidentale della DIMCO, diretta ad ottenere espressa statuizione che gli interessi “di legge” si aggiungessero a quelli di cui al d.lgs. 231/2002, osservando: che sarebbe stata fornita adeguata dimostrazione — documentale, logica e mediante prova critica desumibile dalle testimonianze acquisite in separato giudizio tra le medesime parti ed avente analogo oggetto – della stipula di vari contratti di vendita con riserva di gradimento e che, pur in assenza di fatturazione, doveva dirsi accertato che i beni, il cui valore era stato riconosciuto spettante alla spa DIMCO, sarebbero stati consegnati all’appellante e non restituiti; che persisteva la legittimazione passiva della Casa di Cura nonostante la cessione dell’azienda, sia perché il patto di opzione – parte integrante del contratto disciplinato dall’art. 1520 cod. civ. – risultava concluso con la stessa prima della cessione, sia perché non vi era prova che, in esecuzione di essa, i beni consegnati in precedenza alla potenziale acquirente fossero stati trasmessi alla cessionaria GSAP, sia perché il negozio di cessione dei beni aziendali contemplava espressamente l’accollo alla cedente di tutte le sopravvenienze passive relative ad accordi precedenti la cessione, sia infine perché non risultava, dagli atti prodotti, che fosse stato trasmesso alla società cessionaria l’elenco dei contratti di vendita con riserva di gradimento; che non costituiva condizione per l’accoglimento della domanda di condanna avanzata dalla spa DIMCO – che si riteneva limitata solo al pagamento del controvalore delle merci fornite e non restituite e non già anche alla retrocessione delle medesime – il fatto che la stessa non avesse insistito per la risoluzione dei contratti.
Quanto all’appello incidentale la Corte territoriale negò il richiesto cumulo tra gli interessi “legali” ex art. 1284 cod. civ. e quelli speciali moratori di cui all’art. 5 del d.lgs. 231/2002, riconoscendo solo questi ultimi dalla data di perfezionamento della vendita Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Casa di Cura in liquidazione, sulla base di sette motivi; si è costituita con controricorso la spa DIMCO; la srl GSPA non ha svolto difese; è stato disposto rinvio per il deposito dell’avviso di ricevimento della notifica del ricorso alla GSAP o per nuova notifica alla predetta società; il ricorso nuovamente notificato è stato depositato nei termini concessi.

 

Motivi della decisione

I – Parte contro ricorrente ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per esser stato notificato oltre il termine di sessanta giorni di cui all’art. 325 cpc, atteso che la sentenza di appello era stata notificata il 3 dicembre 2009 a fronte di un ricorso notificato il 3 febbraio 2010 e quindi dopo 62 giorni dal primo termine.
I.a – L’eccezione è infondata perché l’impugnazione in sede di legittimità è stata consegnata per la notifica a mezzo del servizio postale il giorno 30 gennaio 2010, così rendendo applicabile – a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale nn. 477 del 2002; 28 e 97 del 2004; 154 del 2005 – il principio che differenzia i termini della notifica per il notificante — ancorandoli all’atto di impulso del procedimento notificatorio – rispetto a quelli valevoli per il destinatario – dando rilievo al perfezionamento delle formalità previste – (vedi ex multis: Cass. Sez. Un n. 10.216/2006; Cass. Sez. II n. 6360/2007; Cass. Sez. III n. 9245/2007; Cass. Sez. V n. 7351/2011).
II – Con il primo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 184 e 115 cpc; dell’art. 74 disp att. cpc, nonché dell’art. 111 Cost., per non aver, la Corte distrettuale, accolto l’analogo motivo di appello, diretto a sindacare sia l’utilizzo di documenti indicati in un elenco non sottoscritto dal Cancelliere, sia la tardiva produzione – effettuata solo in allegato alla comparsa illustrativa delle conclusioni – degli originali degli stessi, a sostegno dell’esistenza di forniture poi non restituite sia infine la mancata valutazione di tale condotta processuale a’ sensi dell’art. 116 cpc.
II.a – Il motivo è inammissibile: 1 – perché non si fa menzione del contenuto dei documenti – e quindi della rilevanza che essi potrebbero aver avuto nel procedimento formativo del convincimento del giudice di merito -; 2 – perché non si è sottoposta a critica la motivazione posta dalla Corte di Appello a base del rigetto dell’analogo motivo di gravame, con la quale si era contrapposta: la tardività della prima eccezione, non sollevata nel giudizio di primo grado; la presenza dell’attestazione del deposito dei singoli atti con la menzione dei documenti che erano stati ad essi allegati; l’accettazione del contraddittorio sui documenti così prodotti; la tardività della seconda censura di tardività (per non esser compresa nell’atto di appello ma solo nella comparsa illustrativa delle conclusioni in sede di gravame) di produzione degli originali; la constatazione che il giudice di primo grado non avrebbe specificamente neppure preso in considerazione i documenti prodotti in originale -; 3 – perché la facoltà del giudice di trarre argomenti di convincimento anche dalla condotta delle parti, non è sottoponibile a censura se non quando il giudice del merito dichiaratamente la ponga a fondamento, in tutto od in parte, del suo convincimento ma non quando questo si basi, come nel caso di specie, esclusivamente sull’analisi delle emergenze istruttorie.
III – Con il secondo motivo viene dedotta la violazione o la falsa applicazione delle norme sulla formazione del giudicato su capi di sentenza espressamente non impugnati – artt. 2909 cod. civ.; 324; 325; 346 cpc – nonché del principio della domanda, per avere, il giudice dell’appello, ritenuto che la DIMCO non avesse mutato, in appello, le originarie domande – dirette, in primo grado, innanzi tutto al pagamento del prezzo e, in via subordinata, alla risoluzione del contratto con versamento del valore delle merci, pari al loro prezzo, se fosse stata impossibile la restituzione delle medesime – mettendo in rilievo che nel giudizio di impugnazione la stessa fornitrice aveva insistito in principalità per la conferma della sentenza del Tribunale che, invece, aveva condannato essa ricorrente al pagamento del valore dei beni come innanzi specificato, così rinunziando alla domanda di adempimento: ciò avrebbe precluso al giudice dell’impugnazione di accertare l’esistenza e la consistenza dei contratti di vendita dei quali si era chiesto l’adempimento stesso.
III.a – La ricorrente denunzia altresì che non sia stata rilevata la novità la domanda , svolta in appello, diretta a far calcolare l’IVA sul valore delle merci non restituite.
III.b – Con il connesso sesto motivo viene dedotta la violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunziato – art. 112 cpc – nonché violazione e falsa applicazione della norma che disciplina l’obbligo del pagamento del prezzo nella vendita – art. 1498 cod. civ. – per ragioni analoghe a quelle già descritte.
IV – Le due censure, che vanno esaminate congiuntamente per la loro stretta connessione argomentativa, sono infondate.
IV.a – La Corte distrettuale evidenziò che la DIMCO non aveva interesse a riproporre la domanda di adempimento, essendo la stessa già accolta dal primo giudice: dalla lettura della sentenza di appello, nella parte in cui si erano riportate analiticamente le censure della Casa di Cura (segnatamente: a fol. 7) emerge che il motivo di appello relativo alla condanna al pagamento del valore (di sostituzione) delle merci non restituite e non già del prezzo, era fondata su considerazioni di merito e non già sulla violazione del principio della domanda; solo nella comparsa conclusionale (così in sentenza a fol. 11) si sostenne – dunque tardivamente – la modifica, da parte della DIMCO, delle originarie conclusioni: tale rilievo, contenuto nella sentenza oggetto di gravame, non ha però formato oggetto di critica nel mezzo in esame.
IV.a.1. – Dalla lettura della sentenza di primo grado – consentito alla Corte in relazione al vizio procedurale lamentato – emerge peraltro che la domanda proposta dalla DIMCO era esattamente quella di adempimento per pagamento del prezzo e, solo in subordine, quella di risoluzione, previa restituzione delle merci o, in caso di impossibilità, di pagamento del controvalore: avendo il Tribunale accolto la domanda di pagamento del valore dei beni — commisurato al prezzo – sul presupposto della impossibilità della restituzione, la implicita ma sostanziale inversione tra domanda principale e domanda subordinata avrebbe dovuto formare oggetto di specifico motivo di appello, come visto, non proposto.
IV.a.2 – In ogni caso non vi fu, da parte della DIMCO, alcun mutamento di domanda – desumibile dalla richiesta di conferma della sentenza di primo grado – né tampoco una rinunzia alla domanda di adempimento o di accertamento dell’esistenza dei contratti posti in esecuzione – esaminati paratamente in entrambi i gradi del giudizio – , dal momento che essa appellata insistette, in via subordinata, nella richiesta di risoluzione che, come visto, si poneva come alternativa proprio alla domanda di adempimento.
IV.a.3 – Né, va ribadito, essendo stata accolta, sia pure con motivazione non corretta, la domanda di pagamento di somma, nell’esatta misura richiesta, sussisteva un interesse della parte così vittoriosa alla rettifica, sul punto, della sentenza.
IV.a.4 – Non essendosi dunque censurato in modo idoneo il nucleo centrale della pronunzia di secondo grado, diretto a confermare la condanna al pagamento di somma considerandola a titolo di adempimento, ne riesce confermata la debenza astratta dell’IVA – in relazione all’atto traslativo in sé ed impregiudicato il profilo soggettivo di assoggettabilità all’imposta.
V – Con il terzo motivo la sentenza del giudice dell’appello viene censurata per difetto di motivazione e per violazione o falsa applicazione delle norme a disciplina delle prove presuntive – art. 2729 cod. civ. – là dove ha ritenuto sussistente la dimostrazione dell’effettività delle vendite nonostante l’assenza di fatture e la non corrispondenza dei codici identificativi nei documenti di trasporto.
V.a – Tale motivo deve dirsi inammissibile in quanto non ha preso in esame le ragioni, analiticamente espresse e ragionevolmente argomentate, dalla Corte distrettuale per respingere ogni singolo rilievo — contenuto nell’appello e pedissequamente riprodotto nel ricorso in sede di legittimità — a sostegno delle difese dell’attuale ricorrente, così che la censura in esame non può dirsi diretta a sindacare il processo formativo del convincimento della Corte torinese bensì a sottoporre nuovamente — e, quindi, in maniera non ammissibile – a nuovo scrutinio di merito tutto il materiale probatorio esaminato in prima ed in seconda istanza di merito.
V.b – Del tutto inidonea ad uno scrutinio in sede di legittimità appare infine la critica all’apporto motivazionale che la Corte di appello ha ritenuto di trarre da testimonianze rese in altro giudizio tra le medesime parti ed avente ad oggetto analoghe forniture, dal momento che non è stato riportato il contenuto di tali testimonianze, così incorrendo nella violazione del principio di specificità del ricorso.
VI – Con il quarto motivo viene fatta valere la violazione o la falsa applicazione delle norme in materia di prove e di valutazione della condotta processuale delle parti – artt. 2697 cod. civ. e 116 cpc – nonché la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione posta dalla Corte del merito per respingere l’analogo motivo di appello inteso a far emergere la sostanziale inversione dell’onere probatorio a carico di essa ricorrente, avendole imputato, il giudice del gravame , come già il Tribunale, di non aver provato di aver ricevuto in restituzione i beni che risultavano esserle stati consegnati mentre, secondo le regole ordinarie, sarebbe stata controparte a dover dimostrare la conclusione del contratto e la ricezione delle merci.
VI.a – Il motivo non è fondato in quanto correttamente la Corte territoriale mise in rilievo che non vi era stata alcuna inversione dell’onere della prova, dal momento che, come in precedenza messo in evidenza, dovevano ritenersi affidabili gli elementi a dimostrazione della consegna delle merci dalla DIMCO alla ricorrente sulla base di un contratto con riserva di gradimento, così che consequenziale era pretendere la dimostrazione, da parte dell’accipiens, di aver riconsegnati i beni, al fine di liberarsi dall’obbligo di pagamento dell’equivalente; insussistente infine è qualunque critica al ragionamento logico seguito dal giudice del gravame.
VII – Con la quinta censura viene denunziata la non condivisibile interpretazione dei confini applicativi dell’istituto della vendita con riserva di gradimento e, ad un tempo, si critica la sussunzione della fattispecie, come concretamente delineata a seguito dell’istruttoria, in quella astratta descritta dall’art. 1520 cod. civ. nonché la difettosa applicazione delle norme sulle prove – artt. 2697 cod. civ.; 116 cpc – e vizi di motivazione – dedotta come illogica, insufficiente e contraddittoria- laddove la Corte torinese avrebbe ritenuto raggiunta la prova della vendita con riserva di gradimento pur in assenza della dimostrazione dei suoi elementi costitutivi.
VII.a – Il motivo si articola in tre distinti momenti logici: con il primo si sindaca la valutazione delle emergenze istruttorie, anche afferenti alle testimonianze rese nell’ambito di un diverso giudizio – come sopra si è rilevato – non condividendo i risultati delibativi ai quali è pervenuto il giudice dell’appello; con il secondo si censura la ritenuta estraneità dell’acquirente dell’azienda – srl GSAP – all’obbligo di restituzione delle merci ricevute (o, in alternativa, a quello di pagarne il valore); con il terzo ci si duole della erronea sussunzione degli accordi intervenuti tra le parti nella fattispecie disciplinata dall’art. 1520 cod. civ., dal momento che sarebbe mancata la prova: dell’accordo; della consegna delle merci e della fissazione di un termine entro il quale esercitare il gradimento, secondo quanto delineato dalla norma di riferimento; non si sarebbero poi potuti trarre argomenti di convincimento dalla prassi delineata dalle testimonianze rese in separato giudizio, non trovando queste ultime conforto nei documenti prodotti.
VII.a.1 – Il motivo non può dirsi ammissibile in quanto si riduce ad una critica delle valutazioni di merito delle emergenze di causa, difforme dalla diffusa e logicamente strutturata motivazione della Corte distrettuale (tra l’altro neppure presa specificamente in considerazione dalla ricorrente, così da far emergere un’ulteriore causa di inammissibilità del motivo in esame) che, esaminando paratamente le prove documentali e quelle testimoniali rese in separato giudizio, è pervenuta a conclusioni argomentate e non contraddittorie nelle loro articolazioni logiche, in merito alle prassi applicative che integravano, per facta concludentia, gli estremi della fattispecie legale, osservando, sotto diverso ma concorrente profilo, che la prefissazione di un termine per esercitare il gradimento – di cui all’art. 1520, II comma, cod. civ. – ben poteva essere integrata dagli usi e che comunque, a’ sensi del terzo comma dell’anzidetta norma, il gradimento doveva intendersi prestato se la cosa fosse rimasta presso il compratore e fosse decorso un termine fissato dal venditore, identificato in quello indicato nelle missive del 2 luglio e del 3 settembre 2004.
VIII – Con il settimo motivo si fa valere in vizio di motivazione — ritenuta insufficiente — nonché il vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 4 del d.lgs. 231/2002, laddove la Corte torinese avrebbe riconosciuto gli interessi quantificati come dalla normativa speciale e ciò: in assenza di una domanda di adempimento, non riproposta da DIMCO e, di conseguenza, senza che la somma riconosciuta alla creditrice potesse ritenersi corrispettivo (di una vendita), come invece previsto dall’art. 1 del d.lgs. 231/2002 , non essendo gli stessi collegati al pagamento del prezzo sibbene al controvalore delle merci non potute restituire; censura altresì la pronunzia in quanto la decorrenza è stata fissata al 20 settembre 2004, data di scadenza della richiesta di pagamento.
VIII.a – Il motivo è infondato in quanto, non essendo più sottoponibile a critica la interpretazione della domanda accolta in termini di pagamento del corrispettivo, ne derivava che dovevano essere applicati gli interessi moratori stabiliti dal d.lgs. 231/2002.
VIII.a.1 – L’omessa riproduzione del contenuto della richiesta di pagamento impedisce alla Corte di sottoporla a scrutinio al fine di valutare la correttezza della fissazione del dies a quo della decorrenza degli interessi ex d.lgs. 231/2002.
IX – Le spese seguono la soccombenza secondo la liquidazione esposta in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 2.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Redazione