Usura: risarcimento danno non patrimoniale (Trib. Brindisi, 9/11/2012) (inviata dal dott. A. I. Natali)

Redazione 09/11/12
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FATTO E DIRITTO

Con atto di citazione del 10.12.1998, notificato in data 05-09/02/1999, i coniugi S.-M. convenivano in giudizio, innanzi a questo Tribunale, M. P. e L. V. G. per sentir dichiarare la nullità del contratto di compravendita, stipulato in data 27.03.1992 per illiceità della causa, ex art. 1343 c.c., poiché il contratto in oggetto avrebbe integrato la fattispecie del contratto in frode alla legge, ex art. 1344 c.c., in quanto la “ragione pratica” della stipulazione del suddetto avrebbe costituito il mezzo per la realizzazione del delitto di usura continuata. Altresì, i coniugi S. – M., chiedevano dichiararsi che gli immobili appartenevano ad essi coniugi, con ordine di restituzione in loro favore.  Ciò, oltre la condanna dei convenuti al pagamento, in solido, della somma di lire 300.000.000 (trecentomilioni), o di altra somma  maggiore o minore ritenuta di giustizia, a titolo di risarcimento dei danni sia morali sia patrimoniali subiti dagli stessi; in ultimo, la condanna dei convenuti al pagamento, in solido, delle spese tutte del giudizio, diritti ed onorari.

Deducevano i coniugi S.-M. che il trasferimento dell’immobile era stato  effettuato in favore di P.M. a causa delle continue richieste minacciose ed usurarie da parte delle sigg.re L. V. G. e ****************, rispettivamente madre e nonna di P.M..

Si costituivano in giudizio P.M. e G.L.V. i quali impugnavano e contestavano tutto quanto ex adverso dedotto perché destituito di ogni fondamento in fatto ed in diritto, chiedendo il rigetto delle domande degli attori con vittoria di spese di diritti ed onorari del giudizio.

Deducevano i convenuti che la domanda, oltre che infondata, era inammissibile per l’insussistenza dei presupposti previsti dalla legge e, soprattutto, per l’insussistenza del rapporto sottostante con cui si intendeva giustificare la domanda stessa.

Deducevano, in particolare che, se un rapporto vi era stato, questo aveva riguardato solo la Sig.ra **************** e S. Domenico.

La domanda, così come proposta, è fondata in parte qua.

Invero, l’assunto degli attori risulta suffragato dalla sentenza di patteggiamento n.397 /94 emessa ex art. 444 e segg. c.p.p in danno di L. V. G., nonchè dal decreto 16/96, in atti, applicativo della Misura di Prevenzione Patrimoniale della confisca nei confronti di L. V. G., emesso dal Tribunale di Brindisi III sez. Penale e confermato dalla Corte di Appello di Lecce.

Come noto, la sentenza penale, di applicazione della pena. ex art. 444 c.p.p – per quanto inidonea, non contenendo un positivo accertamento della responsabiità penale di chi patteggia –  ad esplicare efficacia di giudicato nel processo civile, promosso ai fini del risarciemento del correlato danno –  costituisce un rilevante elemento di prova per il giudice di merito. Tal ultimo, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, seppur indiziaria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, e il giudice penale avrebbe prestato fede a tale ammissione. La “negoziazione” della pena, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione, assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel giudizio in sede civile (Cass.21.3.2003 n.4193;nello stesso senso 10 novembre 1998 n.11301; 24 febbraio 2001 n. 2724; 19 dicembre 2003n.19505; 5 maggio 2005n.9358;30 settembre 2005 n.19251; 26 ottobre 2005 n.20765; cfr., inoltre, Cass.9.10.2000 n.13425, secondo cui e’, altresì, lecito argomentare, ai fini della formazione del convincimento giudiziale, dai motivi che hanno spinto l’imputato a chiedere il patteggiamento, e ciò anche per pervenire all’accertamento (positivo) della responsabilita: tale operazione logica rappresenta una valutazione esteriore agli atti del procedimento penale e costituisce uno degli elementi di convincimento dell’autonomo giudizio civile).

 

D’altronde, sotto altro e più generale profilo, il giudice civile può trarre argomenti di prova, idonei a giustificare il giudizio di colpevolezza in sede civile, da tutti gli elementi in suo possesso, compresi gli atti che provengano dal procedimento penale e, nel novero di questi, sono includibili anche le dichiarazioni rese, in sede penale, nel corso delle indagini preliminari, ancorchè non confermate in sede dibattimentale. Ciò, con l’unico limite che la condanna potrà fondarsi su indizi gravi, precisi e concordanti (Cass. Penale 8957/2007 Mass.3/2008)

Tali devono considerarsi anche quelle cui fa espresso riferimento il decreto 16/96, applicativo della Misura di Prevenzione Patrimoniale della confisca in danno di L. V. G..

Orbene, dalle suddette dichiarazioni, rese da una pluralità di persone, tra le quali anche gli attori,  sembrerebbe doversi desumere, con ragionevole probabilità di approssimarsi alla verità storica, che la L. abbia esercitato attività di usura anche in danno del S..

Ed, in tale contesto storico fattuale, appare verisimile che i coniugi S.-M. siano stati costretti a tacitare la propria creditrice, a condizioni particolarmente gravose, tanto da essere costretti a privarsi, in favore del di lei figlio, di un cespite patrimoniale di valore apprezzabile, come desumibile dalla stessa descrizione fisica del bene di cui al rogito di compravendita. D’altronde, le stesse parti hanno, in sede di stipula, valutato il bene de quo nella misura di lire 110.000.000, (quale corrispettivo previsto, ma non, effettivamente, versato).

Dunque, deve ritenersi integrato, perché, in re ipsa, il requisito richiesto per l’integrazione del reato di usura prima della novella del 1996 e consistente nell’approfittamento, da parte dell’autore della condotta criminosa, dello stato di bisogno della vittima, da intendersi quale situazione, che limiti la volontà del soggetto, il quale, scende a compromessi, per accettare di contrattare in condizioni di inferiorità psichica.

D’altronde, le minacce che gli attori dichiarano essere loro indirizzate – e che rappresentano circostanza sintomatica di una condotta tesa a sfruttare le condizioni di bisogno della vittima di una vicenda di usura – , per quanto non supportate da dichiarazioni di testi, appaiono verisimili, in considerazione della particolare natura del reato de quo che, spesso, si sottrae, per la sua stessa essenza, alla percezione diretta di soggetti terzi.

D’altronde,  come evincibile dalle risultanze istruttorie, M. P. ha ammesso di non aver corrisposto alcuna somma ai coniugi S.-M. in occasione della stipula del contratto di compravendita, in quanto, illo tempore, privo di un’occupazione stabile.

Per contro, l’assunto, relativo all’estinzione di vincoli ipotecari pregressi sull’immobile – per quanto non privo di riscontri nelle dichiarazioni testimoniali e nelle stesse risposte rese dagli attori, a seguito di interrogatorio formale, da cui emerge la consegna di assegni in favore del rappresentante di una finanziaria o banca – parrebbe smentito dallo stesso dato testuale del contratto di compravendita.

 

Vi si legge, testualmente :”…….I venditori in solido garatiscono la proprietà, disponibilità ipotecaria di quanto venduto……..Vi gravano le seguenti iscrizioni a) n.586 iscrizione a favore dell’Istituto Finanziario Edilizia Finance……b) n.939 iscrizione a favore dello stesso Istituto c) n.1126 in favoredel ************ d) n. 916 iscrizione a favore della Banca Tamborrino San Giovanni……………..Le relative cancellazioni sono parte in corso e per il resto vanno curate nei tempi tecnici indispensabili a spese del sig. S.. La presente vendita si effettua per il prezzo di centodiecimilioni”.

Peraltro, se anche provata, la suddetta circostanza avvantaggerebbe, pur sempre, non solo il debitore-alienante, ma anche l’acquirente (ovvero il M.), soggetto al diritto di sequela dei creditori ipotecari.

Per quanto concerne la dedotta tacitazione di altre pretese creditorie, vantate da terzi, nei confronti del S., deve precisarsi che, per stessa ammissione della convenuta (cfr. comparsa di risposta), le stesse sarebbero, comunque, di importo apprezzabilmente inferiore (38.500.00 più 23.550.000 per complessivi 62.050.000), rispetto al prezzo dell’immobile, quale convenuto inter partes (110.000.000).

 

Orbene, sostengono gli attori che il contratto stipulato in data 27 marzo 1992  sarebbe  nullo per illiceità della causa ex art.1343 c.c., poiché la “ragione pratica” del contratto imposto ai coniugi S.-M. si sarebbe sostanziato nella consumazione del reato.

L’assunto è fondato.

Come noto – nella vigenza del quadro normativo anteriore alla novella del 1996 che ha obiettivvato il reato di usura, epurandolo, nella sua fattispecie base da connotati soggettivistici – era già invalsa la prassi di ritenere la nullità del negozio usurario per illiceità della causa ovvero per contrarietà alla norma imperativa penale (c.d nullità virtuale).

Ovviamente, il rimedio radicale della nullità, non poteva prescindere dal preventivo accertamento di tutti gli elementi costitutivi del reato di usura.

Invero, ritiene questo Giudice che possano essere superate le obiezioni, da taluni mosse, all’individuazione di tale radicale forma rimediale.

Si sosteneva, infatti, che la nullità – ed, in particolare, la nullità di tipo virtuale – mal si sarebbe conciliata  con la scelta dello stesso legislatore penale di non criminalizzare l’accordo in sé, ma la condotta, abusiva dell’altrui libertà negoziale che veniva conculcata in una situazione fattuale in cui la stessa non aveva modo di estrinsecarsi liberamente, in considerazione dello stato di bisogno in cui versava la vittima dell’usura.

Al fine di inquadrare la suddetta fattispecie, si ricorreva alla figura del c.d. “reato in contratto”, quale categoria qualificatoria distinta dai c.d “reati – contratto” in cui il disvalore è rappresentato dalla pattuizione in sé e dal suo concreto contenuto, non rilevando la condotta tenuta dalle parti, in sede di formazione o di esecuzione del contratto.

Orbene, si affermava, la nullità virtuale poteva operare non per qualunque violazione di norma imperativa, qual è quella penale, ma solo quando il contrasto con il precetto inerisse lo specifico regolamento di interessi convenuto inter partes, e, quindi, solo in relazione ai “reati- contratto” e tale non era, appunto, la negoziazione patrimoniale, conseguente all’usura.

Inoltre, e anche tale argomentazione veniva addotta

 al fine di escludere l’applicabilità della nullità virtuale – strumento strutturalmente residuale -, il legislatore del 1942 aveva espressamente previsto  l’azione generale di rescissione per lesione ex art. 1448 c.c. e ciò al fine di individuare le conseguenze civilistiche dell’usura “negoziale”.

Invero, come pure ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, tali argomentazioni non sono decisive al fine di escludere la nullità, ove si consideri che ”l’elemento caratterizzante il delitto di usura consiste(va) in un comportamento diretto ad operare sulla determinazione della volontà del contraente bisognoso, a differenza della fattispecie civilistica della rescissione del contratto per lesione, nella quale elemento sufficiente è la semplice consapevolezza da parte del contraente avvantaggiato di trarre una sproporzionata utilità economica in conseguenza dello stato di bisogno della controparte (Cassazione civile  sez. I, 22 gennaio 1997, n. 628).
In particolare, si affermava che l’ipotesi delittuosa contemplata dal previgente art. 644 c.p. (usura) – che contempla quale elemento costitutivo quello stesso approfittamento dell’altrui stato di bisogno che è requisito della fattispecie civilistica della rescissione del contratto per lesione (art. 1448 cod. civ.) – presuppone la pretesa, sia pure soltanto implicita, del vantaggio usurario da parte dell’agente (si ha usura quando taluno “si fa” dare o promettere un immodico vantaggio, quando, cioè, si adoperi attivamente per ottenerlo).

Per contro, la norma civilistica, più ampia, non richiede come necessario un comportamento diretto ad operare sulla determinazione della volontà del contraente bisognoso, ma valuta, come sufficiente all’effetto giuridico rescissorio, anche la mera consapevolezza, da parte del contraente avvantaggiato, di trarre dalla stipulazione del contratto una immoderata utilità economica, grazie allo stato di bisogno della controparte.

 

Da ciò il delinearsi di due diverse ipotesi: il contratto rescindibile in virtù della consapevolezza dello stato di bisogno della controparte e il contratto nullo perché il destinatario dell’attribuzione patrimoniale abbia approfittato della suddetta condizione materiale e psicologica del disponente.

Orbene, data l’attività di coercizione posta in essere perché si addivenisse alla vendita dell’immobile, nonché i peculiari contenuti della contrattazione ed, in particolare, l’assenza di  un corrispettivo, versato, ad opera dei convenuti, si deve ritenere provato quell’approfittamento dello stato di bisogno che è elemento qualificante l’usura e che consente di differenziare tale fattispecie, nella sua previgente formulazione, sotto il profilo soggettivistico,  dalla mera rescindibilità del contratto.

In ultimo, proprio in considerazione della residualità della nullità virtuale, si deve prediligere la tesi della nullità per illiceità della causa, proprio perché, nella fattispecie concreta, lo schema della compravendita immobiliare, in sé lecito, è stato piegato al fine di un risultato illecito, ovvero il conseguimento di un’utilità economica usuraia, sub specie del trasferimento immobiliare de quo. Trasferimento volutamente, operato nei confronti di un soggetto, di per sé, estraneo alla vicenda di usura.     

 

I danni risarcibili

 

In astratto, l’usura è idonea  a determinare un danno non patrimoniale eziologicamente consenguente alla lesione dei principi costituzionali della libertà di autodeterminazione e della libertà d’impresa.

Nondimeno, se prima dell’avvento delle Sezioni Unite dell’11 Novembre 2008, era pacifica l’affermazione giurisprudenziale secondo cui: “il soggetto passivo dei reati di usura e di estorsione subisce un’alterazione del modo di essere, che configura una alterazione peggiorativa della qualità della vita, obiettivamente apprezzabile, e deve essere definito in termini di danno esistenziale, distinto sia dal c.d. pretium doloris, sia dal c.d. danno biologico” (Tribunale Milano, del 18.3.02), la permanente validità di tali conclusioni va, attualmente, vagliata attraverso il “filtro” imposto dalla suddetta pronuncia.

A tal riguardo, sovviene proprio l’applicazione dei principi enucleati dalle Sezioni Unite, attente nell’ancorare la risarcibilità del danno non patrimoniale alla configurazione della lesione di un interesse costituzionalmente rilevante.

Orbene, è indubbio che il coinvolgimento in una vicenda di usura  sia idoneo a pregiudicare, da una parte, la capacità di autodeterminazione dell’individuo con riguardo alla propria sfera patrimoniale; dall’altra, la libertà d’impresa, quando la vittima abbia lo status di imprenditore, ponendo tal ultimo nell’incapacità di programmare liberamente le proprie scelte d’investimento.

 Ciò premesso, le libertà de quibus costituiscono valori costituzionalmente garantiti come dimostra l’univoco dato testuale sia dell’art. 13 Cost, sia dell’art. 41 Cost. secondo cui “L’iniziativa economica privata è libera”.

Né é idonea a infirmare la validità del predetto assunto, così come l’assolutezza dei suddetti valori, la circostanza che tali libertà incontrino dei limiti al loro esercizio; non potendosi, ad esempio, la libertà d’impresa svolgere “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Ciò in quanto i limiti posti all’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito trovano la propria ragion di essere nella circostanza che lo stesso – per quanto di rango primario e incomprimibile nel suo nocciolo duro – interagisce con un sistema valoriale che, spesso, ne necessita un temperamento.

Quanto alla natura del danno risarcibile, i beni de quibus – inerendo alla sfera personale e organizzatoria dell’imprenditore e del semplice individuo – non hanno una valenza, almeno, direttamente, patrimoniale, non costituiscono un cespite integrativo della sfera patrimoniale ed economica del danneggiato.

Nondimeno, il danno, conseguente alla compressione della libertà d’impresa o libertà di autodeterminazione dell’individuo con riguardo alla propria sfera patrimoniale, non avrà natura necessariamente non patrimoniale.

E’ ovvio che l’accoglimento della pretesa risarcitoria presuppone un adeguato assolvimento dell’onere probatorio da parte del danneggiato che potrà dedurre e provare, se imprenditore, l’impossibilità di ampliare il proprio capitale fisso o di dilatare le dimensioni organizzative dell’impresa; se individuo, privo del suddetto status, l’impossibilità di assicurare una diversa destinazione al proprio capitale.

A tal fine, sarà sufficiente dedurre fatti (e atti) idonei a dimostrare la suddetta compromissione, allegando, ad esempio, un progetto di ampliamento della propria impresa, rimasto inattuato oppure una trattativa per la vendita del bene inesorabilmente naufragata.

Orbene, nel caso di specie, gli attori, che, illo tempore, non risultavano rivestire la qualità di imprenditore, omettono anche solo di allegare un qualsiasi pregiudizio (diverso dall’alienazione del proprio immobile) conseguente all’essere stati vittime  di una vicenda di usura.

         

           Danno non patrimoniale, come danno morale.

 

Per contro, nel caso di specie, in conseguenza della natura criminosa dell’usura, deve riconoscersi in capo agli attori un danno morale quale pretium doloris, consistente nei patemi d’animo, nelle sofferenze e nei turbamenti, eziologicamente  riconducibili alla vicenda usuraia, almeno secondo un criterio di valutazione che è quello basato sull’id quod plerunque accidit, ovvero  sulla considerazione della comune esperienza.

La riconducibilità della fattispecie concreta a  quella sequenza naturale di eventi che è data da usura-sofferenza morale consente di presumere la ricorrenza nel caso di specie del suddetto pregiudizio morale che, come ricordato, dalle Sezioni Unite del 2008, prescinde, nell’ipotesi di reato, dalla violazione di un diritto della persona costituzionalmente garantito.    

Per quanto concerne il quantum di tali danni, si ritiene opportuno liquidare, in via equitativa, euro 5.000, in favore di ciascuno degli attori.

Ciò, considerato, in particolare, il tempo decorso dal trasferimento del dominium, e dalla correlata spoliazione patrimoniale degli attori, nonché il peculiare contesto fattuale della vicenda de qua.

 

 L’equità calibrata

 

A tale esito liquidatorio si perviene anche facendo  applicazione del criterio dell’equità calibrata in luogo del c.d. criterio equitativo “puro”, che rinviene la propria legittimazione nell’art. 1226 c.c.; norma applicabile anche in materia di illecito aquiliano per effetto dell’espresso richiamo operato al suddetto dall’art. 2056 c.c. al fine delinea lo statuto della responsabilità da illecito extracontrattuale.

Infatti, il criterio equitativo puro, in assenza di criteri uniformi che concorrano alla determinazione della base risarcitoria, si presta, tendenzialmente, a soluzioni risarcitorie che sono condizionate essenzialmente dalla sensibilità del Magistrato. 

Da ciò, la necessità di indispensabili correttivi.

In particolare, una dottrina autorevole propone lo strumento dell’equità calibrata. Poiché il criterio equitativo si offre a soluzioni risarcitorie così disparate, il Giudice, a fronte della singola fattispecie concreta, deve avere contezza dei precedenti giurisprudenziali, riferiti alle singole patologie di danno non patrimoniale portate all’esame dei magistrati; e, sulla base di questi precedenti giurisprudenziali, secondo una sorta di ideale scala di valori, dovrebbe “procedere a una modulazione proporzionale, ma sempre in senso equitativo del danno”.

Per cui, se, a fronte della lesione del diritto a intrattenere relazioni sessuali, si risarciscono X mila euro, a fronte della lesione del diritto a intrattenere il rapporto parentale col congiunto defunto – quale ipotesi significativamente più grave di lesione di diritti della personalità – si dovrebbe liquidare un’entità economica apprezzabilmente superiore.

Quindi, l’interprete, in sostanza, secondo la tesi dell’equità calibrata, deve avere presenti quelli che sono i precedenti giurisprudenziali relative alla singole ipotesi di danno non patrimoniale risarcibile, e poi, in considerazione di questi precedenti, modulare concretamente il risarcimento in relazione alla fattispecie portata alla sua attenzione.

Orbene, proprio avuto riguardo alle misure risarcitorie riconosciute a fronte di pregiudizi non patrimoniali di rango inferiore (si pensi al danno morale derivante da lesioni di lieve entità o a quello riconducibile ad un’ipotesi di diffamazione, a mezzo stampa), nonché a fronte di eventi lesivi del tipo di quello dedotto in giudizio, si ritiene equa la riparazione economica accordata nel caso di specie.

Le spese – liquidate come da dispositivo – seguono la soccombenza della L..

Per contro, costituisce argomento valorizzabile ai fini della compensazione del spese nei riguardi del M., la sua sostanziale estraneità ai fatti di causa, quale riconosciuta, invero, dagli stessi attori.

 

                                                 P.Q.M.

 

Il Giudice, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da M.M. e ****, nei confronti di  G.L.V. e P.M., così provvede:

a)                dichiara la nullità del contratto di compravendita stipulato in data 27.3.1992 per illiceità della causa ex art. 1343 c.c.;

b)                dichiara che i beni meglio specificati in atti e nell’atto introduttivo appartengono e sono di proprietà dei coniugi S.-M.;

c)                ordina la restituzione degli immobili sopradetti nella sfera di proprietà dei coniugi S.-M., quali legittimi proprietari;

d)                condanna la sig.ra V. L. G. al pagamento della somma, a titolo di risarcimento danno morale, di euro 5.000, in favore di ciascuno degli attori;

e)                condanna la sig.ra L. V. G. al pagamento, in delle spese tutte del presente giudizio – liquidate in complessivi Euro 3800,00, oltre *** e Cap come per legge;

f)                  spese compensate fra gli attori e il M..

 

 

Brindisi, 9.11.2012

                                                                                 

IL GIUDICE

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Redazione