Unabomber (Cass. pen. n. 20720/2012)

Redazione 29/05/12
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Rilevato in fatto

La corte di appello di Venezia, con la sentenza di cui in epigrafe, ha confermato la pronunzia di primo grado, con la quale Z.E., appartenete alla Polizia di Stato, fu condannato alla pena di giustizia (oltre pena accessoria e risarcimento danno in favore della costituita PC, Z.E., da liquidarsi in separata sede, con provvisionale nella misura di € 200.000 e un rimborso spese per costituzione e patrocinio legale nella misura di € 100.000), perché riconosciuto colpevole dei delitti di cui capii artt. 351, 479, 374 cp (così modificata, quanto all’ultimo delitto, la originaria imputazione ex art. 368 cp).

I fatti sono relativi alla vicenda del c.d. *********, personaggio mai giudizialmente individuato, il quale, alcuni anni addietro, aveva terrorizzato le contrade del nord dell’Italica, confezionando e lasciando in giro oggetti esplosivi, che di fatti, in più occasioni, avevano provocato danni a persone e cose.

Uno di questi ordigni, confezionato, tra l’altro, con una placca metallica (che la sentenza di appello chiama “lamierino”), fu rinvenuto in una chiesa di Portogruaro; sequestrato, fu sottoposto ad accertamenti tecnici, tra i quali la ricerca dei cc.dd. toolmarks, ovverossia microtracce su di esso (in particolare sul c.d. “lamierino”) eventualmente lasciate dall’utilizzo di attrezzi a suo tempo adoperati per confezionarlo. Di tali accertamenti fu incaricato Z., univocamente ritenuto un esperto nei settore.

Si addebita all’imputato di avere alterato i lati dei “lamierino”, utilizzando un paio di forbici, sequestrate a Z. (sospettato di essere ********* e per questo inquisito dalla AG triestina); ciò allo scopo di costruire una “prova” in danno del predetto. Da qui le imputazioni sopra elencate, tra le quali quella ex 479 cp, per avere falsamente sostenuto, nella relazione tecnica presentata al competente PM, di avere rinvenuto sull’ordigno in questione microtracce (o toolmarks, che dir si voglia), riferibili all’impiego delle forbici sequestrate a Z. (marca valex).

Nel corso del procedimento, furono eseguite numerose perizie e consulenze tecniche, fu acquisita anche la perizia disposta dalla AG triestina. Periti e consulenti furono poi ascoltati in dibattimento.

Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato, impugnando, unitamente alla sentenza, l’ordinanza dibattimentale del 15.11.2010, con la quale la corte di appello ebbe a rigettare la richiesta di rinnovazione parziale della istruzione dibattimentale, proposta con i motivi di appello e tendente a far acquisire un filmato ritraente Z. nell’atto di sottrarre e poi di limare un paio di forbici, nel corso di una ispezione nel suo laboratorio.

Al proposito il ricorrente deduce:

1) mancata assunzione di prova decisiva, benché si trattasse di prova sopravvenuta. La difesa aveva chiesto di acquisire un filmato contenuto negli atti di un procedimento già conclusosi innanzi all’autorità giudiziaria di Padova, procedimento instaurato a seguito di querela per diffamazione proposta da Z. Detto filmato riproduceva appunto Z., il quale, nel corso dell’accesso della polizia presso il suo laboratorio, furtivamente sottraeva un paio di forbici e quindi ne limava le lame. Il giudice di secondo grado ha rigettato le istanze istruttorie, sostenendo che si trattava di un episodio già noto (del quale era traccia alla sentenza di primo grado), di un episodio comunque irrilevante ai fini del decidere e osservando che, peraltro, il filmato trovavasi già in atti. Tali osservazioni sono illogiche, oltre che infedeli rispetto ai risultati acquisiti, atteso che, viceversa si tratta di un episodio fondamentale in relazione all’oggetto del giudizio. È vero che di tale episodio parla anche il teste ispettore Z., ma, attraverso le sue parole, l’episodio viene introdotto solo marginalmente nel patrimonio cognitivo del giudicante. Peraltro in atti vi erano (e vi sono) solo alcuni fotogrammi della scena sopra descritta, mentre solo la videoregistrazione è in grado di rappresentare l’episodio nel suo concreto divenire e dunque di farne apprezzare l’evidente peso probatorio. La particolare cura impiegata da Z. nel ripulire i bordi taglienti delle forbici, evidenzia l’intenzione di ostacolare le indagini sull’accertamento delle microtracce, evidenzia inoltre che ********* confezionava i suoi ordigni utilizzando forbici e non altri strumenti taglienti. In merito, la corte territoriale esibisce una motivazione illogica e contraddittoria, affermando, da un lato, che il comportamento di Z. è oltremodo sospetto, non traendo, dall’altro, le logiche conseguenze da tale condivisibile premessa. Peraltro la CdA sembra confondere l’oggetto della prova col mezzo della prova, atteso che oggetto della prova era la identificazione di chi aveva manomesso le forbici (e del momento in cui ciò era accaduto), laddove il mezzo di prova era il filmato. Se dunque l’oggetto della prova era già noto ai giudicanti, lo stesso non può dirsi del mezzo di prova, atteso che in atti erano disponibili alcuni fotogrammi e non l’intero filmato. Va ricordato che Z. tenne la condotta documentata nel filmato quando già era nota la notizia dell’avvenuta manipolazione del reperto in sequestro.

Premesso, poi, che, pur in presenza di una sentenza di appello che ha confermato quella di primo grado, non può parlarsi della c.d. “doppia conforme”, in quanto il percorso motivazionale delle due decisioni non appare collimante, il difensore articola numerosissime censure attinenti all’apparato argomentativo della sentenza di appello, del quale assume la illogicità, la incompletezza, la contraddittorietà sotto vari aspetti; 2-a) nella parte in cui inferisce l’esistenza della alterazione del reperto dalla presenza delle tracce dell’uso delle forbici sul “lamierino”, accertata dallo stesso imputato e comunicata nella sua relazione del 17.5.2006, atteso che il taglio sul cosiddetto lato B del reperto viene fatto coincidere in motivazione, del tutto arbitrariamente, con alterazione dimensionale dello stesso. In recita, le microtracce dimostrano semplicemente l’esistenza di un taglio, operato con forbici marca valex, ma non evidenziano affatto (né implicano) la successiva modifica morfologica del corpo di reato. Secondo la corte veneziana, lo stesso imputato avrebbe ribadito l’esistenza del taglio; così argomentando, i giudici di secondo grado travisano le parole di Z. e il senso delle stesse, atteso che costui si è semplicemente limitato ad affermare che l’ordigno era stato confezionato utilizzando forbici, non che il “lamierino” era stato alterato.

2-b) nel travisamento dei risultati delle relazioni RIS, Polizia postale e della perizia B.-R., atteso che, per la corte, è certo che il reperto è stato modificato dopo il suo sequestro, ciò in quanto i periti B. e R. avrebbero così concluso. In realtà, si tratta di un evidente travisamento della prova, poiché né la relazione del RIS né l’indagine della polizia scientifica hanno accertato alcuna modifica del reperto. Tali accertamenti tecnici hanno solo permesso di chiarire che le tracce rinvenute sul lato B del “lamierino” e i toolmarks delle forbici sequestrate sono compatibili. Considerazioni analoghe possono essere svolte per quello che riguarda la relazione dei periti sopraindicati, con la conseguenza che il giudice di secondo grado fonda la sua decisione su di un risultato probatorio che è diverso da quello che egli ha ritenuto presente in atti;

2-c) nella parte in cui attribuisce al SEM (microscopio a scansione elettronica) una funzione di accertamento (e un risultato probatorio del suo utilizzo) che esso non può avere nel caso in esame. La corte di merito sostiene che, confrontando le foto del reperto ancora chiuso in fogli di polietilene, con quelle che accompagnano la relazione tecnica redatta proprio dall’imputato, si ricava agevolmente che le dimensioni del lato B sono lievemente, ma sensibilmente, ridotte e non esiste più la protrusione. In realtà tale comparazione è stata fatta utilizzando il computer e non si può escludere la possibilità di un errore informatico, come ha chiarito il professor M., consulente tecnico, atteso che la diversità dei punti di osservazione delle immagini riproducenti particolari di oggetti molto piccoli può determinare un errore di prospettiva e quindi di apprendimento. Secondo la corte di merito, viceversa, l’uso del SEM consentirebbe il conseguimento di un risultato certo, eliminando qualsiasi possibilità di errore. L’assunto è radicalmente erroneo, atteso che il predetto microscopio è utile per accertare le caratteristiche fisiche, ma non nel senso dimensionale, di un oggetto; esso serve per indagare sulla composizione fisico-chimica dell’oggetto e non per accertarne – con precisione – le dimensioni. Peraltro, mentre l’indagine eseguita con il SEM si svolge posizionando l’oggetto sull’apposita superficie di alloggio, il confronto informatico (che è quello che ha avuto luogo nel caso di specie) non ha ad oggetto il reperto in sé, ma le sue fotografie. Va chiarito che non esistono in atti immagini scattate attraverso il SEM di epoca precedente allo svolgimento delle operazioni peritali; manca quindi qualsiasi termine di paragone precedente che possa consentire un confronto. Nella misura in cui la corte non ha compreso tale differenza, essa ha prodotto una motivazione inconsistente e priva di base scientifica;

2-d) nella parte in cui, con riferimento alla “genesi” de, lato B del c.d. “lamierino”, non confuta gli argomenti difensivi e travisa le dichiarazioni dell’imputato sull’utilizzo del SEM, atteso che il richiamo alle dichiarazioni dell’imputato è del tutto privo di pertinenza rispetto alle censure difensive che riguardavano le caratteristiche morfologiche dell’oggetto. Le affermazioni dell’imputato si riferiscono a circostanze notevolmente diverse, vale a dire l’utilità dei microscopio rispetto all’indagine microcomparatistica; ancora una volta, dunque, viene travisata la prova acquisita;

2-e) nella parte in cui attribuisce alla attività peritale un’estensione che non ha avuto, non essendo stata dai periti esplicata alcuna indagine sui toolmarks, atteso che oggetto degli accertamenti tecnici, eseguiti dai consulenti e dai periti, è stato principalmente il confronto delle foto (dal 2004 al 2007) del cosiddetto “lamierino”. Il giudice d’appello dunque confonde la comparazione informatica delle immagini con le indagini sulle microtracce, rimasta del tutto al di fuori dell’attività dei periti;

2-f) nell’affrontare il problema scientifico della scomparsa della protuberanza sul c.d. “lamierino”, atteso che la Corte di merito afferma, contrariamente al vero, che esiste, sul punto, accordo tra tutti i periti e i consulenti tecnici intervenuti nel procedimento. La CdA articola il suo ragionamento intorno a tre punti fermi: a) quando l’ordigno è stato collocato nel laboratorio esso presentava sul “lamierino” una protrusione, b) dopo la conclusione degli accertamenti tecnici delegati all’imputato, tale protrusione non esisteva più, c) l’alterazione del “lamierino”, che ha comportato l’eliminazione della protrusione, è avvenuta utilizzando le forbici marca valex, anche esse in sequestro e in possesso di Z. Ebbene secondo la corte di merito tutti gli esperti sarebbero concordi nel sostenere che furono le forbici valex, proprio perché usurate in un punto preciso, a determinare l’asportazione della protrusione. Tale assunto non è affatto confortato dagli atti, atteso che alcuni elaborati tecnici concordano sul fatto che esista sul “lamierino” un avvallamento, derivante dall’asportazione della protrusione, ma non tutti affermano che tale asportazione sia stata eseguita utilizzando le forbici in questione. I periti nominati dalla AG di Trieste furono i primi, invero, a sostenere la possibilità di un distacco accidentale di detta escrescenza. Secondo questi esperti fu l’intaccatura esistente sulle forbici valex a determinare la protrusione. Dunque, secondo alcune perizie, le forbici non hanno eliminato ma generato l’escrescenza in questione. Gli unici ad affermare che detta escrescenza sarebbe stato eliminata dal taglio eseguito con le forbici sono i consulenti tecnici culla PC, ma ciò essi sostengono solo dopo la conclusione della fase di primo grado, depositando una memoria scritta, che, per le ragioni sopra evidenziate, si è sottratta, al contraddittorio da parta dei consulenti della difesa. Viceversa l’ipotesi alternativa del distacco accidentale della protrusione è stata argomentatamene sostenuta, oltreché dei consulenti della difesa, anche, come si è detto, dai periti nominati nel procedimento innanzi al giudice triestino;

2-g) nell’affermare che la scomparsa della suddetta protuberanza, se determinata da cause accidentali, si sarebbe dovuta verificare prima dell’immissione del reperto nel laboratorio nel quale prestava servizio l’imputato, atteso che l’assunto è privo di una legge di copertura scientifica o di una massima di esperienza consolidata che possa giustificarlo; esso si risolve in una mera petizione di principio;

2-h) nella parte in cui affronta la prova contraria offerta dai consulenti della difesa e dai periti B. e P.; invero, la corte territoriale definisce apoditticamente “di scarsa irnportanza” le osservazioni e le obiezioni proposte dalla difesa nei motivi d’appello e relative al mutamento delle dimensioni del reperto successivamente al suo ingresso nel laboratorio dove prestava servizio l’imputato. La corte veneziana, dunque, e certo non per la prima volta, elude il preciso dovere di indicare le ragioni per le quali non ritiene di condividere gli argomenti scientifici sostenuti dai consulenti tecnici della difesa, argomenti che, peraltro, collimano anche con quelli dei periti P. e B., i quali sostengono che sia altamente improbabile che la variazione di dimensioni dell’oggetto possa essere la conseguenza di un taglio. I risultati contrari cui giungono altre perizie (e la consulenza tecnica della PC) non contengono poi alcuna esplicita confutazione degli argomenti sopra illustrati; la corte di merito sostiene il contrario, ma basta considerare che; le perizie cui essa fa riferimento precedono e non seguono le consulenze tecniche prodotte dalla difesa, con la conseguenza che, evidentemente, esse non potevano confutare argomenti che ancora non conoscevano. In sintesi manca qualsiasi valutazione dell’ipotesi causale alternativa, pur in presenza delle diverse ricostruzioni offerte dai contributi tecnico-scientifici prodotti, non salo dalla difesa, ma anche da alcuni periti d’ufficio;

2-i) nella parte in cui attribuisce a Z. la ipotizzata condotta di alterazione del reperto, atteso che, del tutto apoditticamente, la corte sostiene che non può essere stato altri che l’imputato ad alterare il reperto. Tale asserzione è possibile solo grazie all’ennesimo travisamento della prova. Ad esempio, per quel che riguarda le dichiarazioni dell’agente T. Secondo la corte territoriale, costui avrebbe dichiarato che solo due o tre persone, oltre al ricorrente, potevano avere accesso nel laboratorio, ma, se solo si legge il verbale stenotipico delle sue dichiarazioni (rilasciate direttamente al presidente del collegio nella fase di primo grado), si comprende che questo teste ha riferito circa lo possibilità di accesso al laboratorio almeno da parte di una decina di persone. E’ dunque un mero asserto colpevolistico quello della corte veneziana in base al quale solo Z. e nessun altro avrebbe potuto alterare il reperto. Il numero dei possibili autori, viceversa, è molto più ampio, né mancano le regioni in base alle quali anche altri avrebbero potuto manomettere il “lamierino”. Al proposito si lamenta la mancata assunzione di prova decisiva, consistente nell’audizione del teste P., che avrebbe potuto riferire circa il facile accesso ai locali del laboratorio, anche da parte di estranei. La deposizione in questione, avrebbe chiaramente avuto incidenza decisiva sulla formazione del convincimento del giudicante. Erroneo poi è l’assunto in base al quale nel predetto locale potevano entrare solo le persone fornite di uno speciale badge. Tanto per cominciare, agli uffici amministrativi potevano accedere indistintamente più persone, mentre l’accesso al laboratorio, come proprio P. avrebbe potuto attestare, era possibile anche a persone non fornite del badge.

La corte territoriale, poi, assume che solo persona fornita di particolari abilità (quale era l’imputato) avrebbe potuto compiere l’alterazione per la quale è processo. Si tratta di una ulteriore affermazione priva di qualsiasi base probatoria. Sostenere che eseguire un microscopico taglio con le forbici richieda particolari abilità è un assunto immotivato, che peraltro cozza anche contro quanto sostenuto dai consulenti tecnici della stessa PC. La verità è che anche altri erano in grado di operare la manomissione e che anche altri avevano un interesse, quantomeno pari a quello di Z. di operare detta manomissione. Le circostanze in questione erano state fatte valere con un’articolata memoria difensiva, che la corte ha completamente omesso di valutare, con ciò determinando la nullità di cui all’articolo 178 comma primo lett. c) cpp, come la giurisprudenza di legittimità ha ampiamente chiarito. Inoltre, sono state travisate le dichiarazioni dell’imputato, il quale, secondo il giudice di appello, avrebbe affermato che nessun altro, oltre lui, avrebbe potuto manipolare il reperto. In realtà, Z. disse altro, assumendo che, per morivi di lavoro, tutti i suoi collaboratori avevano accesso al laboratorio e potevano maneggiare i reperti. Egli, peraltro, ha anche fatto presente di essersi assentato dal lavoro per ragioni di malattia e la difesa, per parte sua, ha rappresentato come anche Z., superiore gerarchico dell’imputato (e certamente più di lui coinvolto nella responsabilità dell’indagine su Unabomber), avesse avuto la possibilità e, in astratto, l’interesse ad alterare il reperto, così come altri appartenenti alla polizia di Stato che, al pari del ricorrente, avevano accesso al laboratorio;

3) violazione di legge e carenze dell’apparato motivazionale, atteso che la corte veneta ha negato l’assorbimento della fattispecie criminosa ex art 374 cp in quella meno grave ex art. 351 cp. Con l’atto di appello si era segnalato che la contestazione di entrambi i reati (e la conseguente condanna) aveva violato il principio del ne bis in idem sostanziale, in quanto il meno grave reato di frode processuale (art. 374 cp) doveva ritenersi assorbito nel più grave delitto di violazione della pubblica custodia di cose (art. 351 cp), anche in ragione della clausola di sussidiarietà contenuta nell’articolo 374. Ebbene, nel respingere le argomentazioni proposte dalla difesa, la corte di merito esibisce una motivazione palesemente illogica e finisce per non rispettare la legge penale. Sostiene il giudice di appello, infatti, che si tratterebbe di due fattispecie concorrenti perché il reato di cui all’articolo 351 cp presenta caratteri di sussidiarietà rispetto fattispecie punite più gravemente, mentre, nel caso di specie, il reato di cui all’articolo 374 cp è punito meno gravemente; ebbene, proprio il fatto che l’articolo 374 non designa un più grave delitto comporta l’applicazione del solo articolo 351. Inoltre, secondo il giudice di appello, la norma di cui all’articolo 351 cp garantisce la conservazione e la genuinità dei beni sottoposti a pubblica custodia, mentre l’articolo 374 cp intende garantire il regolare svolgimento dell’accertamento giudiziale; da tale premessa la corte territoriale trae la conseguenza che trattasi di fattispecie diverse e concorrenti. L’assunto, per la verità, non manca nei motivi di appello, con i quali, tuttavia, si rappresenta che, nel caso di specie, il reperto asseritamente modificato era custodito proprio in virtù della sua rilevanza probatoria. Conseguentemente, la lesione del bene dell’inviolabilità delle cose custodite assorbe, nel caso di specie, anche l’offesa dell’interesse alla genuinità della prova. A tale considerazione la sentenza di secondo grado non fornisce risposta.

4) violazione di legge (art. 37 cp) e carenze, dell’apparato motivazionale in ordine alla durata della pena accessoria. Il giudice di primo grado ha ritenuto sussistente l’aggravate dell’abuso dei poteri o della violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione in relazione al reato del capo A). Solo con riferimento – dunque – alla relativa condanna, era applicabile la pena accessoria, che avrebbe dovuto avere durata eguale a quella della pena principale. Ebbene: per il reato sub A), è stato applicato un aumento di pena pari a mesi 4 di reclusione. La pena accessoria, tuttavia non può avere durata inferiore, ad anni uno; in tali termini quindi essa avrebbe dovuto essere determinata. La corte di appello ha – viceversa – ritenuto che la aggravante sia stata contestata in fatto con riferimento a tutti i reati (capi A,B,C) e in tali limiti ha determinato la pena accessoria: detta pena, tuttavia, va applicata con riferimento ai delitti ritenuti aggravati, non semplicemente contestati come tali. Avere ritenuto, in appello, anche i delitti sub B) e C) come aggravati dalla violazione dei doveri di ufficio comporta, in presenza dell’appello del solo imputato, elusione del divieto di reformatio in pejus. Invero, poiché la giurisprudenza ha ritenuto che la esclusione di un’attenuante ad opera del giudice di appello, in mancanza di impugnazione del PM, finisce per violare il predetto principio, così si deve ritenere che, il riconoscimento – in secondo grado, e in assenza di impugnazione dell’Organo dell’accusa, di un’aggravante – integri, a sua volta, reformatio in pejus.

E’ stata depositata, dal difensore dell’imputato, memoria con la quale si riassumono e si ribadiscono le censure sopra illustrate.

Ha depositato memoria (con corposi allegati) il difensore della PC con la quale:

– sostiene che la mancata acquisizione del video non ha avuto e non poteva avere alcun rilievo per la decisione da assumere in ordine alla colpevolezza dell’imputato, attesa la non coincidenza cronologica tra l’avvenimento documentato dal predetto video e l’alterazione del reperto in sequestro,

– afferma che fu proprio l’imputato a sostenere che il taglio sul lato B del cosiddetto “lamierino” era stato realizzato con le forbici valex. Al proposito, si afferma che ciò che rileva è stabilire quando il detto taglio fu eseguito e si sostiene che esso, non essendo funzionale alla confezione dell’ordigno, doveva essere stato effettuato necessariamente in un secondo momento,

– puntualizza che erroneamente il ricorrente fa riferimento alle perizie RIS, Polizia scientifica e B.-R. anteriori al 2007, in quanto ne esistono altre, posteriori a tale data, che affermano che il taglio in questione fu effettuato dopo l’ingresso dell’ordigno in laboratorio,

– chiarisce, che la corte territoriale non ha mai scritto che il microscopio SEM sia stato utilizzato per misurare le dimensioni del “lamierino”; essa ha solo sostenuto che il microscopio fu uno strumento di misurazione, ma ha aggiunto che le comparazioni sono avvenute con mezzi informatici,

– contesta la conclusione cui è pervenuto il consulente tecnico dell’imputato in ordine al fatto che il “lamierino” sia stato sagomato utilizzando un cutter facendo ricorso successivi piegamenti,

– nego che la sentenza impugnata abbia sostenuto che i periti, non adempiendo all’incarico loro conferito, non abbiano esteso la loro analisi ai cc.dd. toolmarks. Essi si sono occupati in realtà delle microtracce nei termini indispensabili per stabilire se il reperto fosse stato alterato,

– rileva che il ricorrente erra quando afferma che la sentenza, contrariamente al vero, ha sostenuto che tutti i tecnici si sono trovati d’accordo nel ritenere che sul lato B del “lamierino” fosse presente una protuberanza, poi eliminata. È vero il contrario. Solo il consulente tecnico dell’imputato ha adombrato l’ipotesi contraria, ma ha dovuto ammettere di non aver analizzato le forbici e di non essere un esperto di microtracce,

– denuncia la illogicità dell’assunto preposto dal ricorrente nella parte in cui contesto quanto la sentenza riporta circa la assoluta improbabilità che una eventuale caduta fortuita dell’escrescenza sul “lamierino” sia avvenuta dopo il suo ricovero nel laboratorio,

– afferma che erroneamente il ricorrente lamenta la illogicità dell’assunto della corte di merito che ha escluso che altri, oltre a Z., possa aver alterato il reperto, atteso che non trattasi di affermazione apodittica, ma di ragionato convincimento, che si fonda sulle dichiarazioni dei testi T. e A., oltre che sulla parola dello stesso imputato,

– assume che non è affatto illogica l’affermazione del giudice di secondo grado in base alla quale solo il ricorrente aveva la competenza e l’abilità manuale per eseguire il taglio sul lato B del “lamierino”, anche perché, se ciò avesse fatto un’altra persona, non avrebbe avuto nessuna sicurezza che la micro traccia sarebbe stata posta in relazione con le forbici valex, essendo centinaia gli oggetti in sequestro.

 

Considerato in diritto

 

Conviene innanzitutto affrontare la questione della compatibilità, in astratto, del delitto di violazione della pubblica custodia di cose con quello di frode processuale.

Sotto il profilo dell’elemento psicologico, come ha ritenuto risalente giurisprudenza (ASN 197904897-RV 089612), la differenza tra il delitto ex art. 351 cp e quello ex art. 374 cp sta nel fatto che in tale ultimo reato, punibile a titolo di dolo specifico, l’azione del colpevole è diretta a trarre in inganno il giudice, mediante l’immutazione dello stato dei luoghi, delle cose o delle persone, nel corso di un procedimento (ovvero se l’agente è il perito processuale, nella esecuzione di una perizia); nell’altro reato, invece, è sufficiente il dolo generico per realizzare la violazione della pubblica custodia di cose, vale a dire: il dolo diretto alla manomissione di esse, nelle varie forme previste dalla norma penale.

Non è dubbio quindi, che sotto tale versante, il delitto ex art. 374 cp, benché punito meno gravemente rispetto a quello ex art. 351 cp, contenga un quid pluris, un elemento specializzante, che assorbe e supera il dolo della “semplice” violazione della pubblica custodia di cose.

Tuttavia, con riferimento all’elemento materiale, il rapporto tra i due delitti si pone diversamente. Non sussiste infatti rapporto di specialità, ma persiste non piena coincidenza tra le condotte.

Nell’ipotesi di violazione della pubblica custodia di cose, infatti, la condotta consiste nella sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione o deterioramento di corpi di reato, atti, documenti ecc. Si tratta, dunque, di una condotta che altera permanentemente la res, incidendo irrimediabilmente sulla sua struttura, determinandone (a volte) l’annullamento, la “cancellazione” fisica, ovvero la “scomparsa”, vale a dire la amotio dal luogo del suo abituale collocamento e l’appropriazione o, comunque, l’occultamento ad opera dell’agente.

Nella frode processuale, viceversa, la condotta consiste nella immutazione artificiale dello stato dei luoghi, delle cose o delle persone. Si tratta di un concetto più generale ed ampio rispetto a quello di cui all’art. 351 cp, atteso che la immutazione è una falsificazione, vale a dire la creazione di una falsa apparenza, allo scopo di trarre in inganno la vittima (il giudice, nel caso di specie); orbene, la falsificazione può certamente compiersi mediante una soppressione, ovvero concretizzarsi in una sottrazione, in una distruzione o dispersione, ovvero nel deterioramento/lesione/danneggiamento di persone o cose, ma può avvenire anche tramite attività di mero camuffamento, mimetizzazione, dissimulazione.

Si vuoi significare che non ogni immutazione prevista dall’art. 374 cp si deve necessariamente concretizzare nella condotta descritta nell’art. 351 cp; ne consegue che, quando ciò accade, tra i due reati si verifica concorso formale, ai sensi dell’art. 81 cp, atteso che, con un’unica azione, vengono aggrediti due differenti beni giuridici: l’interesse della PA alla conservazione e alla integrità delle cose in custodia e l’interesse al corretto esplicarsi della attività giudiziaria.

La censura sub 3), dunque, non ha fondamento.

Manifestamente infondata è la censura sub 4), atteso che la sentenza di appello ha confermato in toto quella di primo grado e, dunque, anche per quel che attiene alla pena accessoria e alla sua durata (anni 2). Non si comprende, pertanto, in cosa consisterebbe la reformatio in pejus, atteso che reformatio non vi è stata.

E’ appena il caso di aggiungere, per completezza di motivazione, che, essendo Z. un pubblico ufficiale e attenendo la condotta contestagli all’esercizio delle sue funzioni (sia che si parli della violazione della custodia, sia che si parli del falso ideologico, sia che si parli della frode processuale), l’aggravante deve intendersi, nel caso in esame per c.d., “immanente” e, dunque, sempre contestata in fatto.

Tanto premesso, passando alle successive censure, deve subito dirsi che quella sub 1) è manifestamente infondata.

Emerge dagli atti la seguente cronologia: l’ordigno esplosivo fu sequestrato nella chiesa di Portogruaro in data 1.4.2004, le forbici marca valex furono sequestrate il 24.3.2006, il video che riprendeva Z.E. mentre sottraeva un paio di forbici e ne limava le lame fu girato nel settembre del 2006.

E’ dunque evidente che le forbici occultate e manomesse in quella occasione da Z. non possono aver provocato l’alterazione del reperto, se si ipotizza che detta alterazione sia stata realizzata nel laboratorio nel quale prestava servizio l’imputato.

Se, viceversa, si ipotizza (come fa il ricorrente): a) che alterazione non vi fu, b) che la microscopica modifica del corpo del reato (se sussistente) potrebbe essere frutto della caduta spontanea della protuberanza, c) che il “lamierino” sia stato a suo tempo (scil. prima del suo sequestro) sagomato con le forbici che Z. (nel settembre 2006) aveva sottratto alla ispezione, allora non si vede quale rilievo probatorio avrebbe potuto avere d’acquisizione del video, posto che il giudicante non ha certo escluso. anche sulla base degli atti già in suo possesso, che Z., nella circostanza di cui sopra, tenne la condotta più volte descritta (sottrazione delle forbici e alterazione delle lame del predetto utensile).

Il ricorrente, in realtà, non chiarisce perché la rappresentazione dinamica (filmato) della condotta “sospetta” del Z. avrebbe potuto portare utili elementi di giudizio, rispetto alla visione statica (fotogrammi) della medesima condotta. La visione del filmato, in altre parole, avrebbe semplicemente confermato ciò che il giudicante già conosceva ed ha ammesso (avere Z. tenuto, nel settembre 2006, la condotta sopra descritta).

In sintesi: il ricorso non chiarisce in cosa consisterebbe la decisività di una prova, volta, oltretutto, a dimostrare, ciò che il giudice già dà per certo.

Altro discorso sarebbe stato prospettabile nel caso in cui a Z. le predette forbici fossero state sequestrate, poiché si sarebbe potuto (e dovuto) procedere a una comparazione.

Passando ora all’esame delle numerose “subcensure” di cui al punto 2, si osserva quanto segue.

La censura sub 2-i) è infondata.

La corte di appello ha adeguatamente chiarito per qual motivo solo l’imputato avrebbe potuto operare l’alterazione del reperto, ponendo in evidenza, innanzitutto, che l’accesso al laboratorio era riservato ai soggetti muniti di badge. Il fatto che agli uffici amministrativi potesse accedere un numero molto più elevato di persone è, ovviamente, circostanza del tutto irrilevante.

Si assume col ricorso che, se fosse stato ammesso l’esame di tal P., costui avrebbe potuto testimoniare che nel laboratorio si entrava anche senza essere in possesso di badge. L’assunto non è accettabile in quanto meramente congetturale. Evidentemente non può essere consentito sostenere, dolendosi della mancata assunzione di una prova, che, se il relativo mezzo di prova fosse stato ammesso, ciò che si volevo provare sarebbe rimasto provato. Così ragionando, qualsiasi prova esclusa potrebbe essere indicata come potenzialmente risolutiva. Occorrerebbe viceversa, almeno, che chi della esclusione si duole fosse in grado di fornire o indicare elementi (storici e/o logici) in base ai quali possa trarsi una previsione (anche probabilistica) di attendibilità della fonte e di decisività della prova proposta.

Tutto ciò, nel caso in esame, certamente non è avvenuto, atteso che semplicemente sulla base delle (auspicate) dichiarazioni di un potenziale teste, si intendeva dimostrare la mera apparenza di una procedura di sicurezza (accesso mediante badge), approntata da un organo di polizia giudiziaria.

D’altra parte, quale che fosse il numero delle persone che legittimamente potevano accedere al laboratorio, la corte territoriale pone in evidenza: a) che l’imputato aveva la disponibilità dell’ordigno esplosivo e delle forbici (poteva, a differenza di chi su quei reperti non lavorava, immediatamente accedere ad essi), b) che l’imputato era considerato il maggiore esperto nel campo delle microtracce (toolmarks), c) che l’imputato, di conseguenza, sapeva come “costruire” una prova a carico del Z., utilizzando il reperto e le forbici in sequestro.

In sintesi, la corte territoriale, pur non negando che – in astratto – soggetti “non tecnici” come Z. o non (ancora) sufficientemente esperti, come T., avrebbero potuto avere la possibilità di alterare il “lamierino”, esclude motivatamente che gli stessi possano essersi “arrischiati” a manomettere un reperto di tale importanza, non avendo, per altro, più che la capacità materiale di operare una lesione infinitesimale, il sufficiente knowhow per farlo in maniera probatoriamente significativa.

Le residue censure – da 2-a) fino a 2-n) – sono, viceversa, nel loro complesso, fondate, nei sensi sotto specificati.

In sintesi, il ricorrente lamenta che la sentenza di appello non ha fornito esauriente risposta alle censure proposte con la impugnazione e ha travisato alcune rilevanti emergenze probatorie.

Al proposito è da osservare che, come rilevato dal ricorrente, la corte veneziana ha articolato il suo ragionamento su tre capisaldi: 1) la presenza delle protrusione (o escrescenza) sul “lamierino” nel momento in cui l’ordigno è stato depositato nel laboratorio, 2) la mancanza di tale protrusione all’esito della consulenza tecnica eseguita, per dovere di ufficio dallo Z., 3) l’utilizzo delle forbici valex per l’eliminazione della predetta escrescenza.

A ciò, successivamente, la corte veneziana aggiunge le considerazioni in base alle quali solo Z. poteva aver utilizzato le forbici per eliminare la protrusione.

Ebbene, circa la correttezza (e completezza) della motivazione in ordine alla attribuibilità a Z. della eventuale azione di asportazione si è già detto (cfr. quanto scritto e proposito della censura sub 2-i).

Se dunque il fatto sussiste (se i reati di cui ai capi A, B, C, sono stati commessi), la corte territoriale ha adeguatamente motivato circa la riconducibilità di tali fatti all’imputato.

Il fatto è, tuttavia, che effettivamente il giudice di appello non dà adeguatamente conto del motivo per il quale la eliminazione dell’escrescenza non possa essere conseguenza di un evento casuale (al proposto, del tutto illogica e arbitraria è la considerazione in base alla quale un simile incidente avrebbe dovuto verificarsi necessariamente all’esterno, piuttosto che all’interno del laboratorio, cfr. censura sub 2-g); in merito è da ricordare l’esito della perizia B.-R.

Né liquidare come considerazioni di “scarsa importanza” le elaborazioni e le conclusioni formulate da persone esperte in materia può considerarsi puntuale adempimento dell’obbligo motivazionale (censura sub 2-h).

Sotto altro aspetto, non si può dimenticare che, come assume il ricorrente, non risulta che tutti i periti e i consulenti tecnici si siano trovati d’accordo nell’affermare che l’asportazione della protrusione sia stata procurata utilizzando le forbici in sequestro (valex).

In merito, dunque, un profilo di travisamento della prova sussiste, anche perché, sulla base di quanto si legge nella stesse sentenza impugnata, non è da escludere che l’intera modellatura del “lamierino” sia avvenuta – a suo tempo ed ad opera di Unabomber o chi per lui – utilizzando proprio tale utensile.

Per le ragioni sopra esposte, pertanto, la sentenza merita annullamento con rinvio (ad altra sezione della medesima corte), che, nel ricostruire e interpretare i fatti di causa, avrà cura di sintetizzare ed esaminare gli apporti forniti da tutti i consulenti di parte e periti, ponendoli a confronto, stabilendo, in tal modo:

a) se l’ordigno in sequestro sia stato confezionato originariamente, in tutto o in parte, con l’utilizzo delle forbici valex,

b) se esso abbia subito, dopo il suo ricovero nel laboratorio nel quale operava l’imputato, alterazioni morfologiche e/o dimensionali,

c) se dette eventuali alterazioni siano state prodotte intenzionalmente, ovvero possano essere conseguenza di cause accidentali,

d) se tali eventuali alterazioni – nel caso si debbano escludere cause accidentali – possano essere anche state prodotte mediante l’utilizzo delle forbici sopra indicate.

All’esito di tali accertamenti, il giudice del merito trarrà le sue conclusioni in ordine alla eventuale colpevolezza dell’imputato, tenendo presente quanto già chiarito a proposito della censura sub 2-i).

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.

Redazione