Con la forma scritta del contratto si riduce la asimmetria informativa tra le parti

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Con pregevoli argomentazioni il Tribunale di Savona, in persona del giudice unico dott. Fabrizio Pelosi, si è occupato, con la sentenza n. 517 depositata il 2 maggio 2017, tra gli altri argomenti della nullità del contratto di conto corrente per assenza della firma della banca e del metodo di ammortamento alla francese.

In particolare il Tribunale, schierandosi in aperto contrasto con le decisioni della Suprema Corte nn. 37/17, 7068/16, 5915/16, 8395/16, secondo le quali la sottoscrizione di entrambi i contraenti  è un requisito essenziale della forma scritta che non ammette equipollenti non essendo possibile convalidare un contratto nullo, afferma la validità del contratto de quo sulla base delle seguenti argomentazioni.

In primis il giudice osserva che la forma scritta è richiesta per esigenze di tutela del contraente debole, ossia rappresenta un mezzo attraverso il quale si riduce la c.d. asimmetria informativa, dovuta alla minore quantità di informazioni che un soggetto, rispetto ad un altro contraente ha la possibilità di acquisire, e, pertanto “in sostanza, si è in presenza di una nullità di protezione: protezione finalizzata, in particolare, a garantire la conoscibilità, da parte dell’investitore, (i) del tipo di attività che verrà prestata in suo favore e (ii) delle condizioni contrattuali applicabili per la prestazione dei servizi di investimento, al precipuo fine di eliminare quello squilibrio informativo che connota i rapporti contrattuali in discorso. Queste esigenze si realizzerebbero anche in presenza di un contratto sottoscritto solo dal correntista, senza che sia necessaria l’apposizione della firma della banca o dell’intermediario qualora la relativa volontà di concludere il rapporto possa comunque ritenersi espressa alla luce di altre circostanze, quali l’intervenuta predisposizione unilaterale del documento contrattuale o l’esecuzione del rapporto nel tempo. Di fatto, l’assenza della firma della banca non priva di contenuto il contratto redatto per iscritto o la sua conoscibilità da parte del cliente delle regole in esso comprese (di certa provenienza dalla banca), né può ritenersi che la banca abbia un suo sostanziale interesse a sottoscrivere un modulo che essa stessa ha predisposto e quindi ben conosce” .

Nel contempo, ritiene il giudicante che sia necessario evitare un’eccessiva tutela della parte debole del rapporto in quanto “mancherebbe un interesse, se non quello di provocare, attraverso l’invalidità del contratto, un danno all’altro contraente. Si tratta, quindi, di un interesse non meritevole di tutela ex art. 1322 c.c. in capo al soggetto agente, in contrasto con i generali principi di buona fede e di solidarietà ed al divieto di abuso del diritto”.

In particolare il divietto di abuso del diritto è oggi riconosciuto dall’art. 54 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, recepita dall’art. 6 del TUE, oltre che con il divieto di venire contro factum proprium (cfr. Cass., 5273/07 e 8152/14).

I suddetti rilievi trovano una conferma non solo in quanto dettato dall’art. 127,

comma secondo, del TUB nella sua attuale versione che prevede la nullità dei contratti bancari solo nel caso in cui rappresentino un “vantaggio” per il cliente, ma anche nelle stesse disposizioni del codice civile, in particolare dell’art. 1421, che espressamente richiede un “interesse” da parte del soggetto che agisce in giudizio per rilevare la nullità del contratto.

Queste conclusioni hanno trovato una sponda nelle recenti pronunce della Suprema Corte n. 17740/15 che riprende Cass. 4564/2012, affermando che “la previsione di forma scritta contenuta nell’art. 23 d.lg. n. 58/1998 (TUF) è soddisfatta dalla sottoscrizione del contratto da parte del solo investitore, allorché la copia prodotta in giudizio dal cliente rechi la dicitura «un esemplare del presente contratto ci è stato da voi consegnato». L’obbligo di forma scritta è altresì rispettato quando, alla sottoscrizione del contratto da parte del solo investitore, abbiano fatto seguito, anche alternativamente, la produzione in giudizio di copia del contratto da parte della banca, oppure la manifestazione di volontà della medesima di avvalersi del contratto stesso, risultante da plurimi atti posti in essere nel corso del rapporto (ad es. comunicazione degli estratti conto) e n. 10447/2017 che ha rimesso la questione alle Sezioni Unite con argomentazioni analoghe a quelle sin qui sviluppate con riferimento all’art. 23 Dlgs 58/98, norma gemella di quella in commento.

Per il resto la lunga e articolata pronuncia del Tribunale di  Savona non contiene profili di novità in quanto per ciò che attiene  l’utilizzo della formula Bankit per la verifica del superamento delle soglie di usura, l’indeterminatezza delle CMS e la legittimità delle modifiche unilaterali operate della banca.

Altro aspetto degno di nota e sul quale il giudice si dilunga è quello relativo alla pretesa nullità del contratto di muto per carenza di causa in questo caso in quanto  l’importo del finanziamento era maggiore rispetto all’esposizione.

Secondo il Tribunale di Savona la disciplina degli artt. 644 c.p. e 1815 c.c. non è applicabile agli interessi moratori e ciò in contrasto con quanto sostiene la giurisprudenza maggioritaria (Corte Cost. 29/02; Cass. pen. 602/13; Cass. pen. 603/13; Cass. civ. 350/13; Cass. pen., 5324/03; Corte di Appello Roma Sez. II, 5 maggio- 7 luglio 2016, n. 4323 in I contratti 2017, 2, 131 e ss) e la  Banca d’Italia  poiché il giudice  dubita che la disciplina degli interessi usurari possa trovare applicazione con riferimento agli interessi moratori (nel senso qui sostenuto, si vedano Trib. Verona, 27 aprile 2014, in www.ilcaso.it; Trib. Milano, 22 maggio 2014 e Trib. Roma, 16 settembre 2014, in www.dirittobancario.it, dove incidentalmente sembra negarsi l’applicazione dell’art. 1815, comma 2º, c.c. agli interessi moratori; ABF, collegio di coordinamento decisione 1875 del 28 marzo 2014 in I contratti 2015, pag. 25 e ss. e ABF di Roma decisione 260 del 17 gennaio 2014 in www.arbitrobancariofinanziario.it.).

Infatti, l’argomento principe che affiora dalle pronunzie della Cassazione è quello letterale, già seguito dalla Corte costituzionale, anche se in via del tutto incidentale, nel 2002.

Tuttavia, il dato normativo è tutt’altro che unidirezionale nel senso che né gli artt. 644 c.p. e 1815 c.c., come novellati rispettivamente dagli artt. 1 e 4 della L. 7 marzo 1996, n. 108, né l’art. 1, comma 1, D.L. 29 dicembre 2000, n. 394 convertito con modifiche nella L. 28 febbraio 2001, n. 24, menzionano specificamente gli interessi moratori.

Invece, secondo l’orientamento favorevole alla usurarietà degli interessi moratori, questi rappresenterebbero comunque spese collegate all’erogazione del credito di cui all’art. 644 co. 4 c.p. ed, inoltre, si fa leva sulla L 394/00 che ha fornito l’interpretazione autentica dell’art. 644 c.p. (interessi a qualunque titolo pattuiti).

Il Tribunale riassume in sette profili gli argomenti contrari a tale interpretazione, qui sinteticamente esposti (si rimanda al teso della sentenza per un loro più approfondito esame):

1) il primo profilo, evidenzia la  diversa funzione degli interessi: gli interessi moratori, secondo quanto si desume in modo inequivoco fin dalla rubrica dell’art. 1224 c.c., costituiscono una preventiva e forfettaria liquidazione del danno risarcibile che l’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria ha cagionato al creditore e non un corrispettivo per il mancato godimento di un bene fruttifero. A ciò si aggiunge anche la funzione compulsoria all’adempimento della mora poiché più il debitore tarda nell’esecuzione della prestazione di pagamento della somma di denaro e degli eventuali interessi corrispettivi, più crescono gli interessi moratori quasi sempre determinati in misura ben maggiore caso di una pronuncia come quella in commento in cui, con l’applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c., il debitore viene liberato di tutte le conseguenze del ritardato adempimento. In realtà, gli interessi moratori presentano un’omogeneità di funzione rispetto alla penale (Cass. 23273/10), configurandosi come una penale di origine non convenzionale ma legale, che, però, secondo la Cassazione penale (sent. 5683/13), non è soggetta alla normativa in materia di usura.

2) il secondo profilo, tiene conto del fatto che l’art. 644, 1° comma, c.p., inequivocabilmente stabilisce che possano essere usurari gli interessi dati o promessi «in corrispettivo di una prestazione di denaro o di ogni altra utilità», ossia quegli interessi che si qualificano appunto come corrispettivi, in quanto costituiscono la prestazione sinallagmatica della dazione di una somma di denaro da parte del mutuante e del suo passaggio in proprietà del mutuatario. Neppure possono essere ricompresi nelle “spese collegate alla erogazione del credito” di cui al co. 4 dell’art. 644 c.p.: gli interessi moratori non sono collegati alla erogazione del credito, in quanto sono collegati a una vicenda completamente diversa, ossia all’inadempimento degli obblighi di pagamento.

3) il terzo profilo, ritiene che la soluzione sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria non risulta coerente con la normativa comunitaria. La direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008 relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE, prevede che «al fine di calcolare il tasso annuo effettivo globale, si determina il costo totale del credito al consumatore, ad eccezione di eventuali penali che il consumatore sia tenuto a pagare per la mancata esecuzione di uno qualsiasi degli obblighi stabiliti nel contratto di credito e delle spese, diverse dal prezzo d’acquisto, che competono al consumatore all’atto dell’acquisto, in contanti o a credito, di merci o di servizi».

4) in base al quarto profilo, gli interessi moratori sono espressamente esclusi dal calcolo del TEGM. Infatti, le istruzioni della Banca d’Italia (al paragrafo C4, “Trattamento degli oneri e delle spese”) prevedono quali oneri sostenuti dal cliente debbano essere inclusi nella base di calcolo. Espressamente esclusi, per quanto qui rileva, sono “gli interessi di mora e gli oneri assimilabili contrattualmente previsti per il caso di inadempimento di un obbligo”. Tale esclusione (“i tassi effettivi globali medi non sono comprensivi degli interessi di mora contrattualmente previsti per i casi di ritardato pagamento”) è costantemente ripresa anche nei decreti ministeriali che, ai sensi della ricordata normativa, periodicamente “rilevano” il TEGM, disponendone la pubblicazione nella G.U..

5) il quinto profilo mette in evidenza che non computare gli interessi moratori ai fini del TEGM e computarli ai fini del TEG significa andare contro la ratio del sistema: infatti, tenendo bassi i tassi soglia, senza considerare gli aspetti patologici, si renderebbero antieconomici alcuni servizi di finanziamento che non sarebbero più gestiti dagli istituti bancari con la conseguenza di escludere dal finanziamento bancario una fascia rilevante di imprenditori a rischio di insolvenza, spingendoli verso l’usura criminale. Gli unici ad avvantaggiarsi da tale interpretazione sarebbero i clienti morosi i quali potrebbero sfruttare tassi di interessi moratori più bassi e nonostante siano coloro che meno necessitano di tutela, dal momento che l’inadempimento che fa scattare l’obbligazione di pagare gli interessi moratori è a loro imputabile.

6) con il sesto profilo il Tribunale osserva che  recentemente, il D.L. n. 132 del 2014, convertito con la L. n. 162 del 10 novembre 2014, ha introdotto la previsione di un interesse legale di mora (per l’ipotesi di assenza di una specifica convenzione tra le parti sul punto), parametrato con rinvio al tasso di interesse legale per le transazioni commerciali di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002, che è un tasso che per diverse operazioni è risultato superiore al c.d. tasso soglia.

7)  Sotto un settimo profilo, poi, l’art. 1815 co. 2 c.c. prevede che “se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti gli interessi”. Nel disporre la regola in esame, il legislatore ha avuto riguardo ai soli interessi corrispettivi, come si evince dalla previsione di cui al co. 1 dell’articolo citato e dall’art. 1814 c.c. Solo per questi, il legislatore ha stabilito la nullità testuale della clausola (che li prevede), e la sanzione della non debenza di alcun interesse. Manca, invece, una testuale previsione di nullità per gli interessi moratori “usurari”. Né è possibile un’applicazione analogica, stante la notoria differenza tra interessi corrispettivi ed interessi moratori.

Il Tribunale esamina anche il metodo  di ammortamento alla francese che, secondo il Tribunale di per sé, non è sinonimo di anatocismo.

In base al suddetto metodo  ogni rata di pagamento si compone di due voci: un certo importo a titolo di capitale e un certo importo a titolo d’interessi. Inoltre, l’ammontare complessivo di ciascuna rata pagata dal mutuatario a ogni scadenza è identico.

Nel metodo francese, siccome vengono pagati prima soprattutto gli interessi, la quota capitale si mantiene alta nel tempo  e ciò ha per conseguenza che gli interessi, che si calcolano su una quota di capitale alta, sono a loro volta alti.

Tutto ciò è la diretta conseguenza del fatto che, nel sistema francese, rispetto a quello italiano, la quantità d’interessi che viene pagata dal mutuatario è nel complesso maggiore, in quanto la quota capitale – sulla quale si calcolano gli interessi – si mantiene più alta per un più lungo periodo di tempo.

E’ vero, sostiene il giudice, che tale sistema è vantaggioso per la banca in quanto questa riceve maggiori interessi ma è anche vero che questo è vantaggioso, sotto un altro profilo, per il debitore nel senso che consente, a differenza del sistema italiano, di avere rate sempre uguali e dunque di gestire meglio i flussi di cassa.

Tale sistema non è illegittimo di per sé, poiché l’art. 1194 c.c., che disciplina l’imputazione dei pagamenti (fra capitale e interessi), consente qualsiasi opzione, a condizione che vi sia il consenso delle parti.

Tali principi sono oggi pacifici (con la sola eccezione della criticata e non seguita sentenza del Trib. Bari n. 113/08).

Un fenomeno anatocistico nel caso di ammortamento alla francese può, quindi, realizzarsi solo nel caso in cui non venga rispettata la scadenza del pagamento rateale e vengano computati gli interessi di mora. In questo caso, però, opera l’art. 3 Delibera Cicr 8 febbraio 2000 che legittima l’applicazione dell’anatocismo (Trib. Roma 362/16 e Trib. Treviso 2476/15 in www.ilcaso.it).

Un discorso a parte è comprendere  se tale disciplina possa oggi trovare applicazione alla luce della riforma dell’art. 120 TUB.

Per il Tribunale è, comunque certo che la normativa sopravvenuta non può certo comportare la nullità della clausola in esame, essendo la nullità per definizione un vizio genetico e non sopravvenuto.

Il Tribunale di Savona ha rigettato tutte le domande attrici ad eccezione di quella relativa alla nullità della clausola della commissione di massimo scoperto.

Sentenza collegata

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Avv. De Luca Maria Teresa

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