Tribunale Civile Bologna sez. III 25/6/2009 n. 3027

Redazione 25/06/09
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Svolgimento del processo

1.1. Con atto di citazione ritualmente notificato, gli attori nella loro qualità di genitori dei minori ********** e ******** (omissis), esponevano che il figlio **********, di appena un anno di età, "affetto da un atteggiamento di equinismo del piede sinistro", era stato ripetutamente ricoverato per essere trattato chirurgicamente presso l’ente ospedaliero a partire dal marzo 1993 con l’iniziale diagnosi di "displasia fibrosa del perone e pre pseudo artrosi congenita della gamba", che solo nel marzo 1994 era stata stilata la diagnosi di "fibromatosi aggressiva extraaddominale" e che, recidivando successivamente la patologia, si era dovuto procedere nel novembre del 1995 all’amputazione di coscia al terzo medio con ovvie conseguenze invalidanti consistenti in particolare nell’applicazione di apparecchio protesico. Su questi rilievi, che evidenziavano il colpevole ritardo con cui era stata stilata la diagnosi corretta e l’errore in cui erano incorso il personale medico dell’ente convenuto nell’omettere ogni accertamento di laboratorio che avrebbe potuto consentire quantomeno l’effettuazione di una diagnosi differenziata, volta a distinguere la patologia tumorale riscontrata da quella che invece aveva erroneamente indirizzato i sanitari intervenuti nel tracciare il percorso terapeutico cui fu sottoposto il piccolo ********** nel corso del lungo trattamento subito, gli attori reclamavano nella veste ut supra nonché in proprio il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali che ne erano conseguiti con particolare riferimento all’incidenza dell’evento menomativo sullo sviluppo psico-fisico e sulle condizioni di vita future del minore che ne era stato offeso.

1.2. Si costituiva l’ente convenuto, opponendosi all’accoglimento della domanda in ragione della sua infondatezza sia in punto di an, dal momento che la patologia ascritta al piccolo ********** ed il trattamento terapeutico di essa postulavano, in considerazione degli obiettivi limiti di conoscibilità della materia esistenti all’epoca dei fatti, la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà onde anche il preteso ritardo andava valutato nella prospettiva della colpa grave delineata dall’art. 2236, sia in punto di quantum apparendo le richieste risarcitorie, afferenti a beni non strettamente inerenti alla persona del minore, assolutamente indeterminate.

1.3. La causa, con gli incombenti istruttori del caso, ivi compresa la c.t.u. medico legale, era posta in decisione decorsi i termini dell’art. 190 c.p.c.

Motivi

2. La vicenda nei suoi profili costitutivi di fatto è storicamente incontroversa e ad ogni buon conto la compiuta ricognizione che ne fanno i c.t.u. chiarisce che il piccolo ********** (omissis), già affetto da equinismo al piede sinistro, è stato trattato clinicamente e chirurgicamente dai sanitari del nosocomio convenuto dal marzo 1993 al novembre 1995, allorché per mettere fine ad una progressiva ingravescenza della patologia, nel frattempo diagnosticata in guisa di fribomatosi extraaddominale, al minore venne amputato l’arto interessato all’altezza del terzo medio inferiore.

3. Su questi presupposti, che in diritto – sia detto per inciso – portano a dare applicazione, a seconda delle opzioni interpretative esercitate, ai principi della responsabilità contrattuale o di quella aquiliana, le censure degli istanti, che lamentano più in generale la negligenza e l’imperizia con cui gli operanti avrebbero seguito il caso del proprio congiunto, si appuntano in particolare su un duplice concorrente profilo di responsabilità, l’uno afferente all’omessa effettuazione delle opportune indagini cliniche e di laboratorio atte a confermare il sospetto diagnostico che il quadro obiettivo dell’affezione in capo al minore avrebbe potuto giustificare, l’altro, che al primo appare causualmente connesso, consistente nel ritardo diagnostico afferente al corretto inquadramento della vicenda e dunque alla possibilità di evitare l’intervento menomativo cui si dovette invece ricorrere a fronte del progressivo sviluppo della patologia.

È ovviamente risolutiva nella disamina di entrambi i profili considerati la consulenza tecnica versata in atti dai periti nominati dall’ufficio, circa la ritualità della quale non ricorrono i motivi per disporne la rinnovazione come preteso dal patrocinio attorco, dal momento che, se l’operato dei periti può essere stato caratterizzato da un certo piglio scevro da formalismi, il contraddittorio non è in discussione quanto alla fase di esso che si è svolta nella collegiale partecipazione di tutte le parti in causa, mentre non sembra aver subito lesioni insanabili quanto alla fase dei chiarimenti, circa la quale la sua osservanza non richiede la contestualità degli apporti, bastando che le parti siano messe in condizioni di conoscerne l’esito e spettando in ultima istanza al giudice stabilirne in che misura farne materia per il giudizio.

3.2. Ciò detto in via preliminare, tornando al primo degli aspetti sopra evidenziati, esso è stato esattamente individuato dai nominati c.t.u., i quali commentando l’approccio chirurgico al caso tenuto dai sanitari intervenuti, hanno l’agio di scrivere che, ancorché una diagnosi differenziata avrebbe potuto giustificare il sospetto diagnostico poi rivelatosi tragicamente attendibile, gli intervenuti decisero di intraprendere la via di un indirizzo terapeutico finalizzato unicamente ad affrontare un problema sintomatico, e ciò sulla base di un convincimento delle sue cause privo di un completo inquadramento diagnostico che ne comprovasse i motivi soprattutto in relazione alla considerazione di altre possibili patologie pur includibili nel novero delle ipotesi diagnostiche che l’osservazione concreta del caso avrebbe legittimato. Il che è tanto più biasimevole quanto più si rifletta che protocolli di indagine adottabili nel caso specifico e consistenti segnatamente nell’elaborazione di precisi itinerari diagnostici comprensivi di indagini arteriografiche, Tac, istopatologiche mirate, ecc., erano da tempo in uso ed erano stati per di più messi a punto proprio da ricercatori del nosocomio convenuto, storicamente uno dei centri di eccellenza nella cura delle patologie ortopediche. Invece si preferì procedere immediatamente per via chirurgica senza altri accertamenti e sulla base di una diagnosi che si sarebbe rivelata successivamente errata, laddove se si fosse dato seguito ai protocolli anzidetti, in particolar modo se si fosse eseguita anche un indagine istopatologica mirata, comprensiva anche di esame delle parti molli, si sarebbe "in via di altissima probabilità" accertato sin dal marzo del 1993 la natura dell’affezione di cui soffriva il piccolo **********.

È perciò innegabile come scrivono i periti che "nel caso in esame si profili una carenza di inquadramento clinico preliminare secondo linee di condotta note, in conseguenza della quale non si è addivenuti precocemente al corretto inquadramento diagnostico del caso e, dunque, ad un approccio terapeutico indicato". Sotto questo angolazione la superficialità con cui il caso venne inizialmente affrontato è indice non equivocabile di una condotta inescusabilmente negligente e, dunque, di una colpa che, in considerazione del giudizio espresso dai periti circa l’altissima probabilità di accertare diversamente in modo corretto l’effettiva natura della patologia in essere, cancella d’un solo colpo ogni più minuta riserva che si possa accampare sul fatto che in un consimile caso essa sussisterebbe solo se fosse grave. Non essendovi invero alcun problema tecnico di speciale difficoltà da affrontare l’errore terapeutico in cui incorsero gli operanti nell’omettere di dar seguito alle indagini che un serio, responsabile e consapevole approccio al caso avrebbe imposto, non è affatto scusabile assumendo che una responsabilità sarebbe configurabile solo in caso di colpa grave.

3.3. Sul profilo appena evidenziato si apre l’ulteriore interrogativo sotteso alla seconda doglianza attorea, dovendo chiedersi se un approccio terapeutico corretto avrebbe scongiurato per il piccolo ********** l’epilogo di cui ora si discute.

Qui occorre dire che il giudizio peritale si fa più sfumato, ma non per incapacità dei periti, come sembrerebbe credere chi ne reclama a grande voce la sostituzione e sollecita la rinnovazione dell’indagine su questo tema; ma perché, come i periti hanno perfettamente chiarito nell’ulteriore supplemento del loro responso, l’oggettiva difficoltà della materia non permette di formulare conclusioni assolutamente certe. Ricordando paradigmanticamente il significativo titolo di un contributo scientifico apparso in epoca largamente successiva ai fatti di causa (<< Enigma dei tumori dermoidi >>), e quindi ragionevolmente rappresentativo dei progressi nel frattempo compiuti in questo campo, si può dire con loro che "non esistono evidenze scientifiche che conducono ad una condivisione ed omogeneità obbligata di procedure e di giudizio".

Ed è poi vero che questo giudizio trova ragione di essere espresso con riguardo all’aspetto più intrinsecamente drammatico di questa vicenda, che se vogliamo in una ponderazione più lucida del responso peritale, sembra occuparne, circa il quesito in discussione, solo quella parte che ha più diretta incidenza sui profili risarcitori della vicenda. Perché al contrario se ai periti si abbia cura di formulare la domanda se un approccio diagnostico tempestivamente corretto avrebbe potuto giustificare l’adozione di un indirizzo chirurgico più congruo la loro risposta è immune da ambiguità, scrivendo essi che "di fronte ad una corretta diagnosi nel marzo 1993, si sarebbe potuto attuare il più corretto intervento necessario per la patologia effettivamente presente che, sempre sulla scorta della letteratura dell’epoca già citata ed ancora attualmente valida, prevede una asportazione intracompartimentale di tumore in blocco con uno strato di tessuto sano in ogni punto del suo contorno". In altri termini un approccio chirurgico congruamente motivato rispetto ad una diagnosi corretta avrebbe garantito, se non forse la guarigione, quantomeno che il piccolo ********** ed i suoi familiari non fossero sottoposti ad inutile calvario ospedaliero protrattosi per oltre due anni.

3.4. Questione diversa – ed è qui che la perizia evidenzia il limite di cui si è detto, ma che non è limite dei periti, ma limite delle conoscenze disponibili – è poi chiedersi se una diagnosi tempestiva ed un approccio chirurgico conseguente, che sono come si è visto aspetti del tutto lacunosi nella condotta dei sanitari che ebbero in cura il piccolo **********, avrebbero potuto scongiurare anche il tragico epilogo dell’amputazione artuale.

Una conclusione sul punto non appare serenamente formulabile dal momento che la ridotta incidenza casistica del fenomeno non sembra escludere, con la probabilità elevata a certezza, che un intervento demolitivo del tipo di quello avvenuto nel caso di specie costituisca sovente uno sbocco obbligato a fronte della progressiva ingravescenza della patologia, anche laddove – ed è questo il dato maggiormente significativo in questo contesto – la diagnosi fosse stata precoce e l’indirizzo terapeutico del tutto congruente rispetto ad essa. In pratica la colpa che si riscontra in capo agli operanti non è tale da legittimare, conoscenze scientifiche alla mano peraltro maturate in epoca successiva agli eventi di causa, la totale attribuzione ai medesimi della menomazione subito dal piccolo ********** e, dunque, del danno che per effetto di ciò egli ne patì, vero infatti che un epilogo come quello in concreto verificatosi non si sarebbe potuto escludere neppure in assenza di una colpa.

4.1. Il che si riflette immediatamente nella determinazione dei profili afferenti il quantum debeatur che la vicenda solleva dal punto di vista dell’entità della menomazione patita dal minore, giacche se è certo per quanto detto che il duplice errore commesso dai sanitari è cagione di danno anche con riguardo all’integrità fisica occorre commisurare l’entità del pregiudizio tenendo conto di un duplice dato di partenza. Di uno abbiamo già detto laddove il danno deve essere correlato alla colpa e non si può far carico alla colpevolezza degli operanti più di quanto essa consente di affermare ovvero della totale perdita dell’arto. L’altro invece consiste nella considerazione, esplicitata pure dai consulenti, che un effetto menomativo sarebbe residuato in capo al minore anche nel caso in cui l’operato dei sanitari fosse stato immune da colpe.

Da qui la quantificazione effettuata dai c.t.u. che stimano il danno non patrimoniale corrispondente alla riduzione dell’integrità fisica in una percentuale del 15%, quantificazione che questo giudicante non ha motivo di disconoscere anche tenendo conto delle contrarie osservazioni del c.t.p. le cui stime non sembrano tener conto dell’effetto in ogni caso – e, quindi, anche se l’approccio al caso fosse stato diagnosticamene e terapeuticamente corretto – menomativo che il minore avrebbe subito per effetto della tragica patologia che lo ha colpito.

4.2. Peraltro, in ossequio ai recenti insegnamenti di legittimità, la valutazione del danno biologico merita di essere adeguatamente personalizzata tenendo conto, più che della sofferenza morale che la vicenda ebbe a creare nel giovane virgulto, atteso che la tenera età del medesimo e la ridotta estensione della sfera emotiva costituiscono ragioni per ritenerla di modesta entità, dell’incidenza della menomazione nella vita futura del danneggiato, che ragionevolmente non avrebbe potuto svolgersi con la compiutezza che si auspica ad un giovane di sana e robusta costituzione, ma che probabilmente è stata in ciò ulteriormente pregiudicata dalla colpevole condotta dei sanitari che lo ebbero per primi in cura. Onde, nel complesso, con valutazione equitativa si crede opportuno raddoppiare in ragione di ciò l’equivalente dovuto per il risarcimento del danno biologico da reliquati permanenti, di tal ché al minore, utilizzati i criteri tabellari milanesi, spetta un ristoro di euro 72.414,00=.

Innegabile in parte qua è pure la liquidazione del danno da invalidità temporanea che i periti hanno stimato in circa 24 mesi e quello di parte ha indicato in 33 mesi. Poiché è da credere, da un lato, che il periodo in questione debba decorrere dalla prima dimissione, dal momento che il periodo di invalidità pregressa si identifica con la degenza ospedaliera che si sarebbe resa necessaria anche in caso di diagnosi e terapia corrette, e non possa non scontare gli ulteriori periodi degenza che l’evoluzione della patologia avrebbe potuto rendere necessari in futuro, e dall’altro, che un periodo di riabilitazione abbia fatto seguito all’intervento di amputazione, si stima equo stabilire il periodo di invalidità totale in 20 mesi ovvero in 600 giorni e con ciò liquidare l’equivalente monetario in euro 41.484,00=

4.3. Sulle somme in parola decorrono poi gli accessori secondo quanto previsto da Cass. 1712/95.

Trattandosi peraltro di somme liquidate all’attualità gli interessi nella misura del tasso medio vigente nel periodo determinato equitativamente (2,5%) andranno liquidate a partire da un epoca intermedia ovvero dal 1° gennaio 2000.

Sulle risultanti andranno poi liquidati di seguito alla pubblicazione della sentenza gli ordinari interessi di mora al tasso di legge sino al saldo.

4.4. Andrebbe del pari ristorato pure il pregiudizio patrimoniale quantomeno sotto forma del danno emergente, ma l’indubbia comprensione che si deve ai genitori del minore per le traversie fisiche e morali dovute della vicenda, non esime dal dover constare che il punto è rimasto totalmente privo di prova, non essendo stato provato non già il quantum debeatur, cui pure si sarebbe potuto recare rimedio in applicazione dell’art. 1226, ma l’an, perché del danno subito a questo titolo vi è solo un’allegazione senza alcun riscontro.

5. La domanda attrice va invece respinta per quanto riguarda il danno iure proprio dal momento che come si è detto lo stato patologico e la grave menomazione subita dal minore quale sua conseguenza non sono ascrivibili se non in misura modesta all’operato dei sanitari in servizio presso il convenuto nosocomio, e più esattamente in una misura che non sembra aver potuto alterare l’equilibrio familiare degli attori più di quanto esso non fosse già compromesso dallo stato di salute del piccolo **********.

6. Spese alla soccombenza.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza respinta

1) Accoglie parzialmente la domanda proposta da XX 1 ed XX 2 in qualità di genitori esercenti la potestà sul minore ********** (omissis) nei confronti di IOR Istituti Ortopedici Rizzoli con atto di citazione notificato il 25 ottobre 2001 e, per l’effetto, dichiarata la responsabilità del convenuto nella causazione degli eventi per cui è causa, lo condanna al pagamento in favore di parte attrice

a) della somma di euro 72.414,00+41.484,00= a titolo di danno non patrimoniale, oltre interessi al tasso annuo del 2,5%. dalla data del 1° gennaio 2000 alla data della sentenza;

b) degli interessi al tasso annuo di legge sulle somme dovute dalla data della sentenza al saldo effettivo;

c) delle spese di lite che liquida in base agli atti in euro 3.500,00= di cui euro 450,00= per spese, oltre IVA, CPA, art. 14 tariffa e spese di c.t.u. e di c.t.p. se debitamente quietanzate;

2) Respinge ogni altra domanda di parte attrice.

Bologna, 30 marzo 2009

Il Giudice
Dott. *************

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