Trasferire la sede legale di una società a responsabilità limitata all’estero non salva dal fallimento (Cass. n. 9414/2013)

Redazione 18/04/13
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Esposizione del fatto

I sigg.ri G.G. e C. proposero reclamo contro la dichiarazione di fallimento della società Centralconsulting s.r.l., pronunciata il 6 luglio 2011 dal Tribunale di Roma.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica il 30 gennaio 2012, rigettò il reclamo perché ritenne, per quanto ancora in questa sede interessa, che non fossero fondate né l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano, sollevata dai reclamanti, né l’ulteriore e connessa eccezione con cui si era sostenuta l’impossibilità di dichiarare il fallimento di una società cancellata da oltre un anno dal registro delle imprese italiano. Non erano state adeguatamente censurate infatti – a giudizio della corte d’appello – le ragioni in forza delle quali il tribunale aveva considerato meramente fittizio il trasferimento in (omissis) della sede della società, con conseguente cancellazione della stessa dal registro delle imprese nazionale.
Per la cassazione di tale sentenza i sigg.ri G. hanno proposto ricorso, articolato in tre motivi.
Nessuno degli intimati ha svolto difese in questa sede.

Ragioni della decisione

1. Il primo motivo del ricorso è volto a denunciare il vizio della motivazione dell’impugnata sentenza, che non avrebbe in alcun modo chiarito in base a quali elementi il giudice si è persuaso del carattere meramente fittizio del trasferimento all’estero della sede della Centralconsulting, non essendo vero che l’affermazione in tal senso già formulata dal tribunale non fosse stata contestata dai reclamanti.
Il secondo motivo, nel denunciare la violazione dell’art. 3 del regolamento CE/1346/2000, sottolinea come viga la presunzione di corrispondenza della sede legale di una società con il centro principale degli interessi della società medesima, onde, una volta chiarito che la sede legale della Centralconsulting era stata già da alcuni anni trasferita in (omissis), sarebbe stato onere di chi aveva tuttavia preteso d’incardinare dinanzi al giudice italiano la procedura di fallimento dimostrare la fittizietà di quel trasferimento di sede e la riconoscibilità per i terzi dell’esistenza in Italia della sede effettiva dell’ente.
Da ultimo, i ricorrenti si dolgono della violazione dell’art. 2191 c.c. e dell’art. 10 l. fall., assumendo che, se davvero il trasferimento all’estero della sede della società fosse risultato fittizio, e quindi inidoneo a far decorrere il termine annuale entro il quale il secondo dei citati articoli consente la dichiarazione di fallimento, si sarebbe dovuto far luogo alla cancellazione d’ufficio della precedente annotazione di cancellazione; il che però non era mai avvenuto, onde ne risultava confermata l’effettività del surriferito trasferimento di sede.
2. Il ricorso, che può essere esaminato unitariamente, presenta profili d’inammissibilità ed è, per il resto, infondato.
2.1. Il trasferimento in uno stato estero della sede di una società, benché anteriore al deposito dell’istanza di fallimento, non esclude la giurisdizione italiana, se tale trasferimento appaia fittizio in quanto non vi abbia fatto seguito l’esercizio di attività economiche nella nuova sede, giacché la presunzione che il centro degli interessi coincida con la sede legale dell’ente è concepita dall’art. 3 del regolamento CE/1346/2000 in termini relativi ed è, pertanto, suscettibile di essere superata da una prova contraria (vedi, ex multis, Cass., sez. un., 18 maggio 2009, n. 11398).
A questo principio l’impugnata sentenza si è puntualmente attenuta, affermando poi, in punto di fatto, che, nel caso di specie, sussistevano elementi idonei a persuadere della fittizietà del trasferimento all’estero della sede della Centralconsulting e, perciò, a vincere l’anzidetta presunzione. Né ad una simile affermazione è di ostacolo, dal punto di vista giuridico, la circostanza che il fittizio trasferimento della sede all’estero abbia frattanto determinato la cancellazione della società dal registro delle imprese italiano senza che poi sia mai intervenuto un provvedimento di segno contrario, a norma dell’art. 2191 c.c.. Nulla consente di affermare che, per poter fornire la prova contraria alle risultanze della pubblicità legale riguardanti la sede dell’impresa (e l’eventuale conseguente cancellazione da un registro nazionale), occorra preventivamente ottenere dal giudice del registro un provvedimento che ripristini, anche sotto il profilo formale, la corrispondenza tra la realtà effettiva e quella risultante dal registro. Ancor di recente, d’altronde, questa corte ha avuto modo di chiarire che, laddove la cancellazione di una società dal registro delle imprese italiano sia avvenuta non a compimento del procedimento di liquidazione dell’ente, o per il verificarsi di altra situazione che implichi la cessazione dell’esercizio dell’impresa e da cui la legge faccia discendere l’effetto necessario della cancellazione, bensì come conseguenza del trasferimento all’estero della sede della società, e quindi sull’assunto che questa continui, invece, a svolgere attività imprenditoriale, benché in altro Stato, non trova applicazione l’art. 10 legge fall., atteso che un siffatto trasferimento, almeno nelle ipotesi in cui la legge applicabile nella nuova sede concordi sul punto con i principi desumibili dalla legge italiana, non determina il venir meno della continuità giuridica della società trasferita e non ne comporta, quindi, in alcun modo, la cessazione dell’attività, come peraltro agevolmente desumibile dal disposto degli articoli 2437, primo comma, lett. e), e 2473, primo comma, c.c. (Cass., sez. un., 11 marzo 2013, n. 5945). Qualora il trasferimento della sede sociale all’estero sia fittizio, dunque, né esso comporta il venir meno della giurisdizione del giudice italiano né determina, come conseguenza della cancellazione della società dal registro delle imprese italiano, il decorso del termine di cui al citato art. 10 l. fall..
2.2. Ma, a ben vedere, i ricorrenti si dolgono non tanto o non soltanto di errori di diritto commessi dalla corte d’appello – errori che, per quanto appena osservato, non si rinvengono – quanto del fatto stesso che sia stato considerato fittizio il trasferimento all’estero della sede sociale della Centralconsulting, laddove essi sostengono che quel trasferimento fu invece effettivo o che, comunque, la sua pretesa fittizietà non sarebbe stata in alcun modo dimostrata.
Questo, evidentemente, sposta la questione su un terreno di fatto, come tale estraneo al giudizio di legittimità, se non per l’accertamento di eventuali vizi di motivazione ravvisabili in proposito nell’impugnata sentenza.
Senonché, nel caso in esame, la corte d’appello non si è data carico di motivare in modo autonomo e diretto l’affermazione avente ad oggetto la fittizietà del trasferimento di sede del quale si discute; e non se ne è data carico perché ha reputato non adeguatamente censurato, nell’atto di reclamo, l’accertamento al riguardo operato dal giudice di primo grado “con conseguente incontestabilità dei punti della sentenza (ovviamente quella di primo grado) in parte qua”.
Ora, va detto che i ricorrenti non sollevano a questo proposito rilievi di ordine giuridico – processuale, onde non è qui necessario approfondire il tema della portata dell’effetto devolutivo del reclamo proposto a norma dell’art. 18 l. fall., avverso una sentenza dichiarativa di fallimento e dei limiti entro cui è applicabile a tale forma di gravame la regola dell’inammissibilità dei motivi d’impugnazione non adeguatamente specifici che, per i procedimento ordinari, si trae dal disposto dell’art. 342 c.p.c.. I ricorrenti si dolgono unicamente dell’insufficiente motivazione con la quale la corte d’appello ha giustificato la propria affermazione, e sostengono che, viceversa, essi avevano sempre specificamente contestato la pretesa fittizietà del trasferimento della sede sociale, aggiungendo che, comunque, se anche non avessero mosso simili contestazioni, ciò non avrebbe costituito prova della fittizietà di quel trasferimento.
Ma quest’ultima osservazione non coglie nel segno, in quanto la corte d’appello non ha affatto inteso trarre prova di fatti rilevanti dal silenzio eventualmente serbato dai reclamanti, ma ha più semplicemente affermato che l’accertamento di quei fatti, compiuto dal primo giudice, non era stato idoneamente censurato con l’atto di gravame e non poteva quindi esser messo più in discussione in sede di reclamo.
Quanto, poi, all’asserita specificità delle contestazioni che gli odierni ricorrenti insistono di aver mosso nel reclamo a quell’accertamento, non può farsi a meno di rilevare come essi manchino tuttavia d’indicare in quale atto e con quale formula quelle contestazioni sarebbero state a suo tempo formulate. Ma, poiché proprio questo è il punto decisivo, ciò si traduce in un evidente vizio di ammissibilità del motivo di ricorso, carente di quella specifica indicazione degli atti processuali sui quali esso si fonda, richiesta inderogabilmente dall’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c..
3. Il ricorso, pertanto, deve esser rigettato, senza che occorra provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, non essendovi stata attività difensiva degli intimati.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso.

Redazione